T10 - La filosofia del lanternino

T10

La filosofia del lanternino

Cap. 13

In questo brano l’autore presenta, attraverso un’altra metafora, la propria concezione dell’individuo nella modernità. Divenuta celebre con il nome di «lanterninosofia», la riflessione di Paleari-Pirandello assume la forma di un vero e proprio ragionamento filosofico, stemperato tuttavia da sottili sfumature umoristiche.

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento 

che il bujo era immaginario.

«Immaginario? Questo?», gli gridai.

«Abbia pazienza: mi spiego».

5      E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si

sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi

svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima,1 che si potrebbe forse

chiamare lanterninosofia.

Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi:

10    «Dorme, signor Meis?».

E io ero tentato di rispondergli:

«Sì, grazie, dormo, signor Anselmo».

Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli

rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.

15    E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi

non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, 

il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A

noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere,

con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi

20    questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i

casi e la fortuna.

E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un

lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere

sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta

25    tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra

nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi,

ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in

noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso 

della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere,

30    che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?

«Dorme, signor Meis?».

«Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto 

suo lanternino».

«Ah, bene… Ma poiché lei ha l’occhio offeso,2 non ci addentriamo troppo nella 

35    filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute,

che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto

che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione,

gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor

Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si

40    potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si

suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore

a quei lanternoni3 che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che

so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? 

Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d’una

45    idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si

scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea

vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi

che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che

spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora 

50    è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là,

chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano

per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano

a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non

trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi

55    pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo

e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro,

forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le

loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:4


La piccola mia lampa

60    Non, come sol, risplende,

Né, come incendio, fuma;

Non stride e non consuma,

Ma con la cima tende

Al ciel che me la diè.

65    Starà su me, sepolto,

Viva; né pioggia o Vento,

Né in lei le età potranno;

E quei che passeranno

Erranti, a lume spento,

70    Lo accenderan da me.

Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l’olio sacro5 che alimentava

quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell’alimento

necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a

cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell’esistenza, con quel loro sentimento 

75    acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido

soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all’orlo fatale, al

quale s’affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo:

“Dio mi vede!” per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi 

come tante bestemmie. “Dio mi vede…” perché lo vedono loro, non solamente

80    in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un

premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia 

angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come

tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce,

recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma

85    domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel

quale indarno6 i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine 

di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come

un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi

finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma

90    soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi

abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, 

che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della

vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che

noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio

95    d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole

sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata,

come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra

che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma

senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo

100 al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste.

Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre

vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le

manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo 

questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a

105 cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com’esso è in realtà! Ma nossignore:

ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente

lamentare, perbacco, che forse in un’altra forma d’esistenza non avremo più una

bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide

afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e

110 strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c’ispirò!».

 >> pagina 710 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Tutta la speciosissima (r. 7) concezione filosofica esposta da Anselmo Paleari (nella voce del quale non è difficile sentire quella dello stesso autore) è costruita intorno a una metafora visiva semplicissima, quella di un lanternino che rappresenta l’io individuale. Mentre le piante, gli animali e gli altri elementi della natura vivono senza consapevolezza (vive e non si sente, r. 16), l’essere umano, unico tra i viventi, è condannato a “sentirsi vivere”: E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso (rr. 22-23). A differenza dell’albero che vive nel buio, cioè all’oscuro di ogni consapevolezza della propria condizione, l’essere umano osserva il mondo attraverso i vetrini colorati di questa lanterna, proiettando intorno a sé un cerchio di luce limitato e dai contorni sfumati. Come un fascio di luce che investe un personaggio sul palcoscenico, il lanternino circoscrive una ristretta zona d’azione entro la quale vivere e pensare.

L’uomo dimentica, tuttavia, che il cerchio della sua esistenza individuale in realtà non esiste: esso non è un dato oggettivo, ma una proiezione soggettiva dei propri ideali, delle fantasie e dei desideri custoditi in quella lanterna colorata; in altre parole, è frutto di un relativismo “metafisico”, che riguarda la stessa condizione ontologica dell’essere umano. Di conseguenza, anche l’ombra che dilaga al di là del cerchio di luce è un’illusione fittizia, che esiste soltanto fino a quando teniamo acceso il nostro lanternino. Io e non-io, luce e ombra, sono forme passeggere della vita universale ed eterna, che la nostra identità individuale cerca di fissare in forme stabili e definite. In quest’ottica, il timore della morte non ha senso, perché essa non fa altro che spegnere l’illusione di questo maledetto lumicino piagnucoloso (r. 104), dissolvendo in un istante il sentimento d’esilio che ci angoscia (r. 99). Se la luce del lanternino ci esclude dalla vita universale, la morte, paradossalmente, ci riconcilia con essa.


1 Quale concezione della morte emerge da questo brano?

 >> pagina 711 

Se è vero che ciascuno di noi proietta intorno a sé una luce di un colore particolare (ed ecco, accanto al relativismo di cui si è già detto, anche un relativismo della morale e del pensiero), in ogni epoca certe tonalità prevalgono sulle altre. Anselmo Paleari le chiama lanternoni (r. 42), e si riferisce alle grandi astrazioni del pensiero e della morale (Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io…, rr. 42-43), alle grandi ideologie e ai sistemi di valori che dominano in un certo periodo storico. Ne cita due in particolare, quello di colore rosso della vitalistica virtù pagana e quello violetto, color deprimente (r. 44) della fede cristiana.

La luce collettiva dei lanternoni assicura agli individui un orizzonte di riferimento, un insieme di valori codificati cui fare affidamento; ma quando essa si spegne, le piccole luci colorate dei singoli uomini brulicano caotiche nello scompiglio generale (chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via, rr. 50-51). Noi – dice Paleari – viviamo proprio in una di queste epoche di angosciante disorientamento, privi di un lanternone collettivo cui guardare: l’uomo moderno si aggira spaesato nell’oscurità. Qualcuno si rivolge alla fede, qualcun altro alla scienza, tutti – sbagliando – si affannano a cercare una luce che dissipi le tenebre, non riconoscendo una verità fondamentale, ossia che tutto questo mistero non esiste fuori di noi (r. 89).


Che cosa crea i colori delle diverse lanterne?


3 Con quale metafora viene descritta la confusione nel momento in cui uno dei lanternoni si spegne? Che immagine dell’umanità ne emerge?


4 Con quale atteggiamento sono considerati coloro che ancora si recano in chiesa ad alimentare le loro lanternucce?

Le scelte stilistiche

Pirandello espone la sua visione del mondo e tocca i punti più profondi della sua concezione dell’esistenza con il tono in apparenza leggero dell’intrattenimento («Dorme, signor Meis?». «Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino», rr. 31-33). La stessa scelta di chiamare lanterninosofia (r. 8) una teoria filosofica ha lo scopo di lasciare il lettore perplesso: il termine ironico e quasi buffo fa intendere che si tratti di uno scherzo, del vaneggiamento di un folle in cerca di un contatto con l’aldilà (tutto il discorso di Anselmo Paleari è, in prima istanza, rivolto a trovare un saldo ancoraggio ai suoi esperimenti spiritici). In realtà, l’obiettivo dell’autore – riflettere sulla condizione dell’essere umano nell’universo e sui rapporti tra individui e sistemi di valori – è tutt’altro che banale, ma è ottenuto ancora una volta con un procedimento umoristico, che all’iniziale comicità (l’«avvertimento del contrario»: una filosofia seria non dovrebbe avere un nome ridicolo) fa subentrare il «sentimento del contrario», una riflessione meditata e amara.


5 Il signor Paleari espone la propria lanterninosofia in un dialogo: rintraccia nel testo gli elementi discorsivi tipici del parlato.


6 Individua nel testo le battute ironiche con cui il narratore-protagonista Adriano Meis commenta il discorso del signor Paleari.


7 Scrivere per argomentare. La morte non esiste, non è l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino (rr. 92-93). Riconoscersi parte di un tutto è l’invito rivolto da Pirandello all’uomo moderno. Il messaggio, ancora solo abbozzato nel Fu Mattia Pascal, verrà portato alle estreme conseguenze in Uno, nessuno e centomila, con l’abbandono definitivo, da parte del protagonista Vitangelo Moscarda, di ogni connotazione individuale. Prova a riflettere, in un testo argomentativo di circa 40 righe, sul concetto paradossale di un “individuo senza identità”: un essere umano che si perde nel flusso della «vita» universale è ancora tale?

 >> pagina 712 

T11

Io e l’ombra mia

Cap. 15

Adriano Meis, innamorato della giovane Adriana Paleari, scopre di essere stato derubato dal cognato di lei. L’episodio lo illumina d’improvviso sulla nullità della propria esistenza fittizia, del suo nome falso, del castello di menzogne che gli sta crollando addosso. Egli non può denunciare il furto, né, soprattutto, può sposare la ragazza, perché per la legge lui non esiste (né come Mattia, né come Adriano). È diventato un’ombra d’uomo.

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Rimasi, non so per quanto tempo, lì su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi 

sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi

da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la

frode della mia illusione: che cos’era in fondo ciò che m’era sembrata la più grande

5      delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione.

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m’era parsa senza

limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m’ero anche accorto 

ch’essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che

mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero

10    allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare,

foss’anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate 

da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto,

la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per

me. Ah, ora me n’accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti,

15    con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer 

coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, 

delle mie parole, de’ miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto,

stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio,

un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla

20    promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino,1 là alla Stìa, ci avevano 

buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore,2 – non ci

s’eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che

m’ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo,

vivere un’altra vita. Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? 

25    Un’ombra d’uomo! E che vita? Finché m’ero contentato di star chiuso in me

e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l’illusione ch’io stessi

vivendo un’altra vita; ma ora che a questa m’ero accostato fino a cogliere un bacio

da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato 

Adriana con le labbra d’un morto, d’un morto che non poteva rivivere per lei!

30    Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra?

Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso… Lei? No… no… che! neanche a

pensarci! Lei, così pura, così timida… Ma se pur l’amore fosse stato in lei più forte

di tutto, più forte d’ogni riguardo sociale… ah povera Adriana, e come avrei potuto

io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d’un uomo che non

35    poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?

[...]

Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis io tornavo ad essere Mattia Pascal,

MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte cose? Era il colmo, 

questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare sul proprio marito:

liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d’un povero annegato, e pesare

40    ancora, dopo la morte, su lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi è vero,

dichiararmi vivo, allora… Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come

me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo

una fortuna potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della

moglie, della suocera, dei debiti, d’un’egra3 e misera esistenza come quella mia.

45    Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei,

sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m’ero veduta dinanzi libera libera libera,

non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non

superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle menzogne 

che con tanto disgusto m’ero veduto costretto a usare, schiava del timore

50    d’essere scoperto, pur senza aver commesso alcun delitto?

[...]

Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con

quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da

quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie,4 in cui

mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel

55    vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano

che mai dagli uomini, solo, solo, affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di

Tantalo5 si sarebbe rinnovato per me.

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia,

vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi

60    s’affisarono6 su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai

un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi 

65    il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta.

L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe,

poi le ruote del carro.

«Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, sì: alza

70    un’anca! alza un’anca!».

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere 

si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco,7 dinanzi. Affrettai

il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente.

Una smania mala8 mi aveva preso, quasi adunghiandomi9 il ventre; alla fine non

75    potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi.

Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

«E se mi metto a correre», pensai, «mi seguirà!».

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene

una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra:

80    ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di

Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, 

e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere

ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

85    Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote 

del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli

lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

 >> pagina 714

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

A questo punto del romanzo Mattia-Adriano si trova costretto a riflettere sul senso di una libertà che, in un primo tempo, gli era parsa assoluta. La costruzione di una nuova identità, condotta pazientemente nell’arco di due anni, si dilegua sotto lo sguardo deluso del protagonista (Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione, rr. 3-4). La finzione, infatti, non può continuare, per la mancanza di denaro, per l’estraneità alla legge, per l’impossibilità psicologica di vivere tenendosi lontano dagli altri esseri umani. Di fronte al furto subìto, è il derubato, e non il ladro, a doversi nascondere, proprio come farebbe un uomo colpevole.

Tolta la maschera di Mattia Pascal, insomma, la libertà ha mostrato il volto di una nuova «trappola», in sostanza non diversa dalla precedente. Paradossalmente, l’unica ad aver reciso davvero il legame con il passato è la moglie Romilda, che riconoscendo Mattia nel cadavere di uno sconosciuto (forse in malafede) ha voltato pagina, cominciando un’altra vita. L’inetto Mattia, invece, è MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! (r. 37): non esiste, e nonostante questo è tormentato da un’odiosa eredità familiare.

 >> pagina 715 

Percepire la nullità della propria esistenza significa camminare sull’orlo della pazzia. Uscii di casa, come un matto (r. 58): questa è la prima reazione di Mattia di fronte allo scenario di solitudine e desolazione in cui si sente immerso. Il fallimento della seconda vita impostata a Roma sancisce la crisi definitiva del personaggio: egli sa di dover dismettere i panni di Adriano, senza aver ancora deciso di rientrare in quelli del vecchio Mattia.

Così, sospeso in un limbo senza speranza, vaga per le strade, umiliato e ridotto a un’ombra (Chi era più ombra di noi due? io o lei? Due ombre!, rr. 62-63). Egli lascia che i passanti e persino le ruote di un carro calpestino quell’ombra (Là, così! forte, sul collo!, r. 69), ormai più reale dell’uomo in carne e ossa cui appartiene. L’omicidio dell’ombra svela il disgusto che Mattia prova per sé stesso, per quel che è rimasto del suo vero io (il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, rr. 79-80). In questo delirio «autopunitivo», ha scritto il critico Mazzacurati, affiora «la minaccia di un’estrema decomposizione patologica dell’io»; ma, una volta conclusa questa sorta di rituale, mosso a pietà Mattia raccoglie metaforicamente la propria ombra dalla strada, per tentare ancora una volta di custodire il nocciolo di un’identità che non si rassegna a considerare perduta.

Le scelte stilistiche

In questo tormentato dialogo interiore del protagonista (alternato a parti narrative, qui non antologizzate, in cui avviene la scoperta del furto), Adriano Meis sembra appartarsi sul palcoscenico, come se riflettesse tra sé e sé o dialogasse con un ipotetico pubblico chiamato a fungere da testimone della sua crisi.

In un crescendo d’intensità e sottigliezza concettuale, il discorso del narratore sembra avvilupparsi in una spirale soffocante, in una prigione verbale fatta di una serie di antinomie e inversioni: aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; […] aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa (rr. 82-84). Tali espedienti retorici rendono efficacemente l’idea di una perdita di senso, di uno smarrimento d’identità, di una confusione tra gli opposti, trasmettendo la sensazione di trovarsi irretiti in un meccanismo volutamente artificioso, che gira su sé stesso come una giostra.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Quando il protagonista ragiona sul suo rapporto con Adriana, intravede per un istante una tenue speranza. Quale?


2 Che cosa rimpiange di non aver fatto Mattia il giorno in cui scopre di essere ufficialmente morto? Come si giustifica subito dopo?

ANALIZZARE

3 Con quali parole il narratore immagina l’infinita solitudine che attende Mattia, dopo che avrà lasciato la casa romana di Paleari?

INTERPRETARE

4 Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un’ombra d’uomo! (rr. 24-25). Rifletti su questo passo, provando a ripercorrere brevemente le tappe della trasformazione di Mattia Pascal in Adriano Meis.

Produrre

5 Scrivere per argomentare. Quasi alla fine del romanzo, l’idea di libertà assoluta si trova drasticamente ridimensionata. Se non è rapportata a un sistema di leggi e valori propri di una determinata società. In che senso si può dire che quello di libertà è un concetto di “relazione”? Secondo te, si può vivere senza limiti? Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento