La vita

La vita

  L’infanzia e l’adolescenza in Sicilia

L’ambiente familiare Luigi Pirandello nasce nel 1867 a Girgenti (dal 1927 Agrigento), in una contrada di campagna dove sorge un casale chiamato “Il Caos”, in cui la famiglia si è ritirata per sfuggire a un’epidemia di colera. In un Frammento d’autobiografia del 1893 Pirandello si soffermerà sul significato simbolico del nome di quel luogo: «Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà». Il paesaggio che lo circonda resterà impresso nella memoria dello scrittore come uno scenario di luci e colori dal genuino sapore siciliano: «caddi come una lucciola / sotto un pino solitario / in una campagna / d’olivi saraceni / affacciata agli orli / d’un altipiano / d’argille azzurre / sul mare africano».

Il clima familiare è intriso di patriottismo e di tradizioni antiborboniche: il padre Stefano e uno zio di parte materna, Rocco, hanno partecipato alle imprese di Garibaldi. I ricordi di una stagione risorgimentale indirettamente vissuta alimenteranno – senza celebrazioni, ma anzi sotto forma di amara delusione per gli ideali traditi dalla nuova real­tà unitaria – parte della produzione dello scrittore, e in particolare il romanzo I vecchi e i giovani

Il padre, che gestisce alcune miniere di zolfo permettendo alla famiglia di vivere con una certa agiatezza, è uomo dal temperamento esuberante e spesso violento; la madre è invece dolce e affettuosa. Luigi, condizionato dal comportamento aggressivo della figura paterna, comincia a percepire la famiglia come una trappola, una ragnatela che soffoca le aspirazioni individuali sacrificandole sull’altare delle convenzioni borghesi.

Anticlericalismo e misticismo Negli anni dell’infanzia Pirandello assorbe gli elementi fondamentali della tradizione religiosa siciliana: nonostante un’impronta domestica anticlericale che non lo indirizza verso pratiche di devozione regolari, infatti, egli subisce il fascino delle favole narrate dalla nutrice Maria Stella, ricche di superstizioni, misticismo e credenze magico-popolari. Un patrimonio, questo, destinato a diventare una fonte costante di ispirazione e di suggestione per il futuro scrittore.

La sua istruzione elementare è curata da un precettore privato e la passione per la lettura dei classici si affianca subito all’attrazione per il teatro, tanto che già a dodici anni Pirandello scrive una tragedia, Barbaro, andata poi perduta.

Nel mondo della città Nel 1879 la famiglia si trasferisce a Palermo e il giovane Pirandello ottiene il permesso di frequentare il ginnasio invece delle scuole tecniche a cui il padre avrebbe voluto avviarlo. Nel 1886 si iscrive contemporaneamente (come era possibile fare allora) alle facoltà di Lettere e di Legge, entrando anche in contatto con gli ambienti intellettuali che sostenevano la formazione dei Fasci siciliani, il movimento di ispirazione socialista formato da contadini e minatori.

Lontano dall’angusto orizzonte culturale di Girgenti, Pirandello trova finalmente gli stimoli di cui ha bisogno: frequenta i teatri e i più vivaci ambienti culturali, e inizia anche a scrivere alcuni drammi, senza però ricevere riscontri positivi da parte delle compagnie della città. Tornato per un certo periodo a Girgenti, affianca il padre nella gestione delle miniere di zolfo: il contatto diretto con le durissime condizioni di vita delle solfatare sarà fondamentale per tratteggiare scenari e personaggi di alcune novelle, come Il fumo e Ciàula scopre la luna.

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  Tra Roma e la Germania

Dalla “Sapienza” a Bonn Nel 1887 Pirandello giunge a Roma, dove prosegue gli studi all’Università fino a quando, dopo un contrasto con un docente di Letteratura latina, nonché rettore, è costretto a chiedere il trasferimento in un altro ateneo. Giunto a Bonn, in Germania, nel 1889, completa gli studi e due anni dopo si laurea in Filologia romanza con una tesi in tedesco sugli sviluppi fonetici dei dialetti greco-siculi. Si chiude così la sua esperienza di ricerca linguistica e filologica, mentre il suo interesse si rivolge ormai decisamente verso l’attività creativa.

L’esperienza tedesca Gli anni trascorsi in Germania sono segnati dall’amore per Jenny Schulz-Lander e dal contatto con la poesia e la cultura tedesche. Pirandello vive il rapporto con Jenny sotto il segno di una freschezza giovanile che non gli capiterà più di provare in futuro, in contrasto con la relazione ufficiale che lo tiene avvinto alla cugina Lina, la fidanzata in Sicilia.

Non è invece facile dire che cosa sia davvero rimasto della cultura tedesca nella formazione del giovane Pirandello: una parte della critica sostiene che sia stata un’esperienza fondamentale per la messa a punto di uno dei cardini della sua poetica, il concetto di umorismo; un’altra parte si mostra invece più scettica e tende a ridimensionarla come semplice conclusione di un rigoroso curriculum universitario specialistico.

Il fascino di Roma Dopo un breve soggiorno in Sicilia, durante il quale annulla ufficialmente il fidanzamento con Lina, nel 1893 Pirandello si stabilisce a Roma. Il fascino di questa città antica e sacra, capitale del nuovo Stato unitario ma ancora lontana dalla frenesia della società moderna, colpisce lo scrittore per le sue laceranti contraddizioni: come succederà a Mattia Pascal, Roma appare a Pirandello «acquasantiera » e insieme «portacenere», scrigno delle glorie del passato e al contempo bellezza dissacrata dallo scempio di una speculazione edilizia senza freni e dalla degradazione borghese che l’ha trasformata in «simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra».

Fondamentale si rivela in questo momento l’amicizia con lo scrittore verista Luigi Capuana, che lo incoraggia a dedicarsi alla scrittura: Pirandello inizia a collaborare con prestigiose riviste, come la “Nuova Antologia” e “Il Marzocco”, pubblicandovi saggi critici e componimenti poetici. Il suo interesse va però soprattutto alla narrativa: nel 1893 scrive il suo primo romanzo, pubblicato poi nel 1901 con il titolo L’esclusa.

CRONACHE dal PASSATO

  Pirandello all’università

Uno studente incauto costretto a espatriare


Gabriele d’Annunzio frequenta poco le aule universitarie, ma negli aristocratici salotti romani in cui, ammirato dalle nobildonne, recita il suo ruolo di istrione, magnifica le doti di un professore di cui dice di non perdere una lezione. Il suo nome è Onorato Occioni, titolare della cattedra di Letteratura latina, nonché rettore dell’ateneo. In effetti, tra gli studiosi di Filologia latina, Occioni ha fama di oratore d’eccezione: capace di ammaliare, ma in realtà – si dice – conosce poco la lingua di Cicerone e di Virgilio.

Qualche anno dopo, il professore ha tra i suoi allievi un altro futuro protagonista della letteratura italiana, Luigi Pirandello. Un giorno – siamo nel 1889 – nel tradurre in aula un brano di una commedia di Plauto, il Miles gloriosus, Occioni commette un errore grossolano, e un giovane sacerdote che siede accanto a Pirandello ride e dà di gomito al compagno. Il latinista se ne accorge, e va su tutte le furie. Il sacerdote si scusa, ma Pirandello rincara la dose, mettendo alla berlina l’irascibile professore. Mal gliene incoglie: Occioni, forte della sua autorità, riunisce d’urgenza il Consiglio di facoltà, che suggerisce all’incauto studente di lasciare l’ateneo. Meglio, a questo punto, evitare ritorsioni: poche settimane dopo, Pirandello è a Bonn.

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  Il matrimonio e la follia della moglie

L’illusione di una vita serena Nel 1894 Pirandello sposa Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre; il matrimonio, seppure combinato dalla famiglia per motivi economici (Antonietta porterà una cospicua dote), è in realtà cementato da un’autentica passione. I primi anni, allietati dalla nascita di tre figli – Stefano, Rosalia (Lietta) e Fausto –, trascorrono sereni e laboriosi, anche grazie alla relativa agiatezza in cui la famiglia vive.

Dal 1897 Pirandello inizia a insegnare Stilistica e Letteratura italiana all’Istituto Superiore di Magistero di Roma, prima come supplente, poi dal 1908 come titolare. L’insegnamento tuttavia non lo appassiona affatto: preferisce dedicarsi alla scrittura, pubblicando numerosi saggi, racconti, articoli e le prime opere teatrali.

Il disastro economico ed emotivo Il 1903 è un anno tragico: una miniera di zolfo, in cui il padre Stefano aveva investito tutto il suo capitale e la dote della nuora, viene distrutta da un allagamento. Il tracollo economico è aggravato dalla reazione di Antonietta: colta da paralisi alla notizia del disastro, la donna, già fragile psicologicamente, non si riprenderà più, sprofondando in una spirale di follia in cui rischierà di essere trascinato anche lo scrittore.

Per sopperire alle difficoltà economiche e alleviare i drammi familiari, Pirandello si getta nel lavoro, in un’attività frenetica. In una lettera a un amico scrive: «Intanto io son rimasto… con tre figliuoli e la moglie… immagina tu in quale stato! Il misero stipendio di professore straordinario all’Istituto Superiore mi basta appena per pagar la pigione di casa. Bisogna che m’ajuti con le mani e coi piedi, per guadagnare, scrivendo. È una terribile prova, amico mio! Inattesa!».

Il riscatto grazie alla letteratura Nel 1904 viene pubblicato Il fu Mattia Pascal, romanzo in cui, attraverso il tema dominante della morte-rinascita del protagonista, emergono aspetti autobiografici e la voglia di evadere dalla tensione familiare. La convivenza con la follia di Antonietta non è facile: la donna verrà internata in un istituto solo nel 1919, quando finalmente lo scrittore si convincerà che l’affetto, la comprensione e la pazienza non possono nulla contro un disturbo mentale incurabile.

Negli anni che precedono la guerra vedono la luce i romanzi I vecchi e i giovani (1909, 1913) e Suo marito (1911); celebri novelle come La giara (1909) e Pensaci, Giacomino! (1910); opere teatrali come Lumìe di Sicilia e La morsa (1910). Nello stesso periodo Pirandello inizia la collaborazione con la compagnia di Nino Martoglio a Roma, nella quale recita un celebre attore siciliano, Angelo Musco, che contribuisce notevolmente al successo delle prime opere teatrali dell’autore.

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il CARATTERE

  Solitudine e malinconia

Profonda malinconia e lucida amarezza: questi i cardini – nella vita come nell’arte – della personalità di Pirandello. Bambino gracile e incline alla riflessione, poi ragazzo turbato dalla corruzione regnante nel mondo degli adulti, Pirandello sembra votato fin dall’adolescenza a una cupa meditazione che egli stesso descriverà come un «abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato». Un generale senso di solitudine e di estraneità alla vita accompagna l’intera esistenza dello scrittore, mettendone a dura prova la dimensione affettiva.

Un padre difficile

Particolarmente difficile appare il rapporto con il padre, uomo dall’esuberanza vitale perfino eccessiva, prepotente e infedele. Questi tratti suscitano un’aperta ostilità nell’animo del figlio, il quale tuttavia non si ribella mai, tranne che nella scelta di assecondare la propria vocazione letteraria, mal vista dalla famiglia. Anche negli affetti privati il giovane Luigi non sa imporsi all’autorità paterna: il matrimonio con Antonietta Portulano è combinato dalle famiglie per motivi economici e, pur sostenuto da un sentimento sincero, è accettato da Pirandello come un atto dovuto.

Il bisogno di affetto

Più vicina al cuore dell’autore è la madre Caterina, per la quale egli prova una profonda venerazione. Consapevole del dolore e della vergogna che i tradimenti del marito le arrecano, lo scrittore sembra avvertire sulla propria pelle le inquietudini che intravede nei suoi silenzi. Il bisogno della dolcezza materna traspare anche nei rapporti di Pirandello con le altre donne della sua vita: la sorella Lina, la figlia Lietta, poi la giovane amante Jenny e la moglie Antonietta, infine la musa ispiratrice, l’attrice Marta Abba. Nelle lettere che invia a quest’ultima sono sempre presenti la ricerca di un affetto caldo e vero e il desiderio di costruire e proteggere un nido che dissolva la solitudine del suo animo tormentato.

  La guerra, il fascismo e il successo mondiale

Un interventismo patriottico Alle soglie della Prima guerra mondiale, in nome dei suoi ideali patriottici, Pirandello appoggia la causa degli interventisti, sposandone la visione del conflitto come naturale compimento dei moti risorgimentali. All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, il figlio Stefano parte volontario, ma viene subito catturato dagli austriaci e internato in un campo di prigionia per tre anni. Anche l’altro figlio Fausto è chiamato alle armi, ma è presto congedato per malattia; a queste preoccupazioni si aggiunge la morte dell’amata madre, verso cui non era mai venuto meno il tenero affetto dello scrittore. Tuttavia, nonostante le sue convinzioni interventiste, le opere del triennio 1915- 1918 non recano segni di entusiasmo bellico; al contrario, si possono trovare in diverse novelle immagini di sofferenza collettiva nelle figure di padri e madri in apprensione per la vita dei figli soldati.

La popolarità del drammaturgo Nel 1915 pubblica sulla “Nuova Antologia” il romanzo Si gira…, poi ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Da questo momento, la produzione teatrale prende il sopravvento, sostenuta da un crescente consenso di pubblico. Lo scambio di idee e di personaggi tra le novelle e la produzione teatrale è continuo e proficuo; Pirandello è ormai autore ricercato e le sue rappresentazioni accendono spesso un coro di polemiche e discussioni che stimolano ulteriormente la ricerca e l’innovazione del linguaggio drammaturgico.

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I trionfi internazionali Con la messa in scena di Sei personaggi in cerca d’autore la fama dello scrittore valica i confini nazionali; la prima al Teatro Valle di Roma, nel 1921, provoca reazioni contrastanti, persino furibonde, tra accaniti sostenitori e detrattori spietati. L’anno seguente, invece, ottiene uno strepitoso successo a Londra, New York e Parigi, che segna l’inizio di una parabola ascendente risultato di un riconoscimento ottenuto all’estero ancor più che in Italia.

Nel 1924 Pirandello aderisce ufficialmente al fascismo, chiedendo pubblicamente di essere iscritto al Partito nazionale fascista, dal quale riceverà appoggi e tributi.

Ormai celebre, Pirandello fonda la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, finanziata dal regime e attiva dal 1925 al 1928, mentre tutte le capitali europee si contendono l’esclusiva di una sua opera. Abbandonato l’insegnamento, inizia a seguire le compagnie teatrali nelle tournée in Europa e America; proprio in questi anni si lega sentimentalmente, anche se di un amore forse solo platonico, alla giovane attrice Marta Abba, per la quale scrive vari drammi e a cui invia centinaia di lettere. In una di queste, datata 1935, scrive: «Che gioja udire la Tua cara bella voce viva l’altro jeri al telefono! Come ho fatto presto a riconoscere e a sentire in tutto il sangue, in tutte le fibre del corpo, in tutti gli angoli più riposti dell’anima che la sorgente della mia vita, di quella poca che ancora mi resta, è in Te, Marta mia».

Il premio Nobel e la morte Gli anni successivi, trascorsi fra pressanti impegni internazionali e una continua produzione di drammi e novelle, conducono lo scrittore alle vette del successo, fino al conferimento nel 1934 del premio Nobel per la letteratura. Tuttavia Pirandello non smette di sperimentare e rinnovarsi, approdando con le ultime novelle e con l’opera teatrale incompiuta I giganti della montagna alle sponde di una letteratura assai complessa, definita dallo stesso autore «mitica».

Mentre sta assistendo, a Cinecittà, alle riprese di un film tratto da Il fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite. Muore il 10 dicembre 1936 nella sua casa di Roma, a sessantanove anni. Il giorno prima era uscita sul “Corriere della Sera” la sua ultima novella, Effetti di un sogno interrotto. Nonostante il regime proponga cerimonie solenni e pompose, i funerali si svolgono in forma strettamente privata e nella più austera semplicità, secondo le disposizioni dello scrittore: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno mi accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta». Le sue ceneri, custodite in un’urna greca, riposano per sua volontà ad Agrigento, sotto un pino vicino alla villa del Caos, là dove era nato.

Per approfondire Pirandello e il fascismo

«Sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario». Con queste parole Pirandello dichiara apertamente la sua adesione al fascismo, in una lettera scritta a Mussolini nel settembre del 1924. Due mesi prima, un gruppo di squadristi capitanati dal fiorentino Amerigo Dumini ha rapito e ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti. L’assassinio ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, provocando una crisi di consenso al regime; il gesto di Pirandello, compiuto proprio all’indomani dell’evento, appare a maggior ragione provocatorio. L’adesione al Partito fascista permetterà allo scrittore di ricevere sovvenzioni e riconoscimenti, come la nomina ad accademico d’Italia nel 1929.

Pirandello non ripudierà mai la sua decisione, ma i suoi rapporti con il regime saranno sempre caratterizzati da ambiguità e contraddizioni. Egli non può essere definito semplicemente un intellettuale fascista: non celebra né appoggia la retorica e i simboli del littorio; si può anzi dire che la sua arte – in particolare nella sua dimensione umoristica – sia radicalmente estranea all’atteggiamento fascista verso la vita e la cultura.

D’altra parte, anche Mussolini non si mostra un grande estimatore di Pirandello: non organizzerà mai serate in suo onore, come quelle che gli sono invece tributate a Stoccolma, Parigi, Londra, Praga, Berlino e New York. Tuttavia, Pirandello sa che non può alienarsi le simpatie del partito: «L’arte pirandelliana», scriverà Leonardo Sciascia, «non ha nulla a che fare col fascismo, ma l’uomo sì!».

Pur dichiarandosi apolitico, egli vede in effetti in Mussolini l’unica figura in grado di rompere con il passato, facendosi garante di un ordine nuovo, finalmente capace di rimpiazzare una classe politica debole e corrotta. Certamente estraneo alla retorica mussoliniana della forza e della virilità, egli si sente però vicino alle filosofie irrazionalistiche di inizio Novecento, che predicano il superamento del sistema democratico e una concezione vitalistica dell’esistenza.

Non manca, in Pirandello, una velata antipatia per la corte di gerarchi che circonda Mussolini, e dalla sua opera emerge l’avversione per un’ideologia che non può che rivelarsi ai suoi occhi vuota e mistificante. Non per questo, comunque, è possibile parlare di un “antifascismo pirandelliano”; eppure, al di là di ogni definizione, non c’è dubbio che tutta l’arte di Pirandello sia volta a smascherare ogni mitologia e ogni retorica propagandistica.

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Le opere

L’inesauribile creatività pirandelliana attraversa tutti i generi letterari, travalicandone i confini in uno scambio continuo di materiale narrativo e drammatico. Ciò non cancella l’impressione che l’ispirazione conduca irresistibilmente lo scrittore verso la rappresentazione teatrale. Anche quando la sua destinazione è un’altra, la pagina scritta si anima, il personaggio sembra farsi persona, uscendo dalla carta in cui si sente imprigionato per cercare una vita vera. E così i personaggi e le loro vicende circolano liberamente tra le novelle, i romanzi, le commedie e persino i saggi critici, tornando insistenti come variazioni di uno stesso tema. L’arte, come la vita, non sopporta limiti di genere né forme precostituite.

  Le poesie

La passione giovanile per la poesia è l’unica a non aver sèguito nella piena maturità dello scrittore. Pirandello, in ogni caso, compone versi per circa trent’anni, tenendosi sempre lontano dalle correnti poetiche del tempo. Nel rispetto della tradizione, decide infatti di conservare moduli espressivi e forme metriche regolari, in cui si sente, in particolare all’inizio, la presenza di Carducci e della Scapigliatura, e poi anche quella di Dante e Leopardi, Goethe e Heine.

Le principali raccolte poetiche sono: Mal giocondo (1889), Elegie renane (1895), Zampogna (1901), Fuori di chiave (1912).

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  Le novelle

Ben altro peso ha l’enorme produzione novellistica, la più costante nell’attività letteraria di Pirandello. Meglio del romanzo, la condensazione narrativa della novella permette di sperimentare la caratterizzazione dei personaggi, la tenuta delle situazioni tragicomiche, il manifestarsi di casi della vita ai limiti dell’assurdo.

Novelle per un anno  T3

Genesi, struttura e influenze Scritte a partire dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, le novelle vengono poi raccolte da Pirandello in volumi autonomi: il primo, Amori senza amore, è del 1894; seguono Beffe della morte e della vita (1902), Quand’ero matto... (1902), Berecche e la guerra (1919). La sistemazione di un materiale così abbondante subisce continui rimaneggiamenti fino al progetto di Novelle per un anno, pubblicate in 15 volumi fra il 1922 e il 1937.

In questo lavoro lo scrittore assembla un corpo volutamente frammentario e disorganico, privo di una cornice che, come accadeva nella novellistica classica, doni coerenza alla varietà del contenuto. Nemmeno l’idea iniziale di proporre una novella per ogni giorno dell’anno si realizza (anche considerando quelle postume, si arriva solo a 241 racconti). La mancanza di struttura della raccolta non è del resto casuale, ma riflette una visione pirandelliana del mondo come insieme caotico e disgregato.

In molte novelle appare chiara l’influenza del Verismo, reinterpretato però in forma del tutto personale. Descrivendo la società contadina siciliana o l’ambiente della borghesia impiegatizia romana, infatti, Pirandello non si ferma al dato documentario. Il suo è un naturalismo soltanto apparente: in realtà l’obiettivo non è denunciare una determinata realtà sociale, ma osservare la “propria” Sicilia attraverso una lente personale e caricaturale che ne svela però la natura più autentica e profonda.

Un repertorio di figure grottesche Nelle novelle, inoltre, la caratterizzazione dei personaggi prevale sulla descrizione del contesto. Da una società spesso appena tratteggiata emergono personaggi eccessivi, volutamente stravolti nelle fattezze del volto e contraddistinti da una gestualità caricaturale. Si delinea così una galleria di maschere, una sfilata di tipi umani varia quanto le infinite forme in cui si presenta la vita.

  I romanzi

Pirandello scrive complessivamente 7 romanzi, che presentiamo seguendo l’ordine cronologico della loro stesura.

L’esclusa

Il primo romanzo, scritto nel 1893 con il titolo Marta Ajala, viene pubblicato a puntate nel 1901 sul quotidiano romano “La Tribuna” e poi rivisto e stampato in volume nel 1927. L’influenza di Luigi Capuana è particolarmente evidente nella denuncia di un ambiente sociale avvelenato da convenzioni arcaiche e provinciali, che fa da sfondo alla figura della giovane protagonista, Marta, una donna intelligente e sensibile accusata ingiustamente di tradimento. Il meccanismo deterministico del racconto naturalista, tuttavia, è qui già messo in dubbio: la causa motrice della narrazione, infatti, è qualcosa di irreale – una colpa inesistente – che ha però conseguenze reali. Al principio di causa-effetto si sostituiscono cioè la fatalità e l’assurdità del caso, l’amara constatazione che le azioni umane hanno esiti imprevedibili e che la menzogna vale più della verità. Fino alla conclusione spiazzante: Marta è perdonata proprio quando diviene davvero un’adultera.

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Il turno

Il secondo breve romanzo, scritto nel 1895, viene pubblicato nel 1902. Pirandello abbandona del tutto l’ambientazione naturalista, concentrandosi ancor più sull’idea che sia il caso a dominare le vicende umane. Vi si narra la storia di un giovane pretendente che aspetta il suo “turno” per sposare la donna amata. Smantellando uno dei capisaldi del Naturalismo – l’impersonalità – Pirandello rende visibile la presenza del narratore, come ad avvertire il lettore che qualcuno sta inventando ciò che viene raccontato, e che questa è la “sua” visione delle cose, la “sua” verità. L’oggettività dei fatti è così negata in favore di una visione del reale irriducibilmente soggettiva.

Il fu Mattia Pascal  T8-T11

Il terzo romanzo, il capolavoro di Pirandello, pubblicato nel 1904, verrà analizzato nella seconda parte dell’Unità ( p. 694).

I vecchi e i giovani

Uno sguardo amaro su un paese corrotto Pubblicato in parte nel 1909 e poi in modo completo nel 1913, I vecchi e i giovani rappresenta per certi versi un passo indietro nel percorso pirandelliano di rinnovamento del genere romanzesco. L’autore sceglie infatti la narrazione eterodiegetica, quella cioè in cui il narratore non è un personaggio della storia (usata anche nel romanzo successivo Suo marito), per tracciare un quadro storico delineato entro precise coordinate spazio-temporali. Nella Sicilia post-risorgimentale, sullo sfondo della rivolta popolare dei Fasci siciliani (1891-1894) e dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana (uno dei più importanti istituti di credito del tempo, cardine dei fenomeni di corruzione che accompagnano il disordinato sviluppo edilizio della capitale fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento), si svolgono le vicende della famiglia Laurentano e di una fitta serie di personaggi secondari.

Il conflitto generazionale, suggerito dal titolo, tra i vecchi protagonisti del Risorgimento e i giovani corrotti della nuova realtà unitaria viene filtrato da ricordi personali, che compongono una sorta di autobiografia pubblica da cui emerge una lucida analisi della crisi di fine secolo. L’impianto narrativo, che ricorda i Viceré di De Roberto e, più da lontano, il modello manzoniano, lascia parlare la Storia come se fosse essa stessa un personaggio carico di esperienze variamente distribuite tra la folla delle comparse. Si tratta dell’unico esempio di romanzo storico pirandelliano, dall’autore definito «amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il dramma della mia generazione».

Suo marito

Pubblicato nel 1911 e poi ripreso per una riedizione rimasta incompiuta, il romanzo è ambientato a Roma e racconta la storia di una scrittrice, Silvia Roncella (dietro la quale molti hanno voluto riconoscere la figura di Grazia Deledda), che ribalta i tradizionali equilibri della famiglia borghese, relegando il devoto e mediocre marito alla gestione materiale dei propri impegni e successi editoriali. Sullo sfondo emerge la vita letteraria romana, delineata con intenzioni caricaturali come regno della maldicenza e della vacuità.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore  T5

Edito nel 1915 con il titolo Si gira…, il romanzo verrà poi rivisto e ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. L’operatore cinematografico Serafino Gubbio racconta in prima persona, in un diario costituito da sette quaderni, la straniante esperienza vissuta dietro la macchina da presa. Ne risulta una testimonianza, problematica e disincantata, di un’aperta diffidenza verso i congegni omologanti della modernità, della quale Serafino-Pirandello dà un’interpretazione lucida e inquietante.

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La critica alla civiltà delle macchine La vicenda narra dell’arrivo di Serafino a Roma e del suo lavoro all’interno di una troupe cinematografica che sta girando un film, di cui fa parte anche l’attore Aldo Nuti, che ha lasciato la fidanzata per seguire l’attrice russa Varia Nestoroff, “donna fatale” di cui si è innamorato. In quest’opera, che è stata definita dal critico Giacomo Debenedetti un «romanzo da fare» poiché gli eventi non sono ricostruiti, come accade di norma, a posteriori, il meccanismo narrativo pare seguire la fredda concatenazione degli ingranaggi di una macchina, sviluppando una serie di riprese fra loro separate e dunque prive di logica consequenziale. L’ultima di queste sequenze (il settimo dei quaderni di Serafino) contiene il tragico epilogo della vicenda: invece che uccidere la tigre portata sul set per girare la scena, Nuti spara alla Nestoroff, prima di essere a sua volta ucciso dall’animale. Serafino, incaricato delle riprese, non smette di filmare: condannato a girare la manovella della cinepresa come un automa alienato, continua a registrare fedelmente la tragica scena fuori copione ma, per lo shock subito, rimane muto. Contro l’alienazione e la mercificazione della civiltà moderna, simboleggiata appunto dalla condizione esistenziale del protagonista, l’unica risposta possibile proposta dallo scrittore sembra essere il silenzio.
Uno, nessuno e centomila  T4

Dopo una pausa decennale in cui Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, nel 1926 esce il suo romanzo “testamentario” («c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e che farò», dice l’autore), che conclude e insieme inaugura una forma narrativa ormai totalmente “frantumata”.

La banale scoperta di essere “nessuno” La vicenda prende avvio da un episodio di estrema banalità di cui è protagonista Vitangelo Moscarda: una mattina, mentre si guarda allo specchio, scopre, per un’osservazione della moglie, che il suo naso non è dritto, come egli aveva sempre creduto che fosse, ma pende leggermente a destra. Il fatto, di per sé privo di importanza, dà luogo a una vera e propria crisi d’identità del personaggio, che si rende conto di non essere “uno”, ma “centomila” – e quindi in definitiva “nessuno” – a seconda della prospettiva da cui lo osservano gli altri.

Da una semplice constatazione, in altre parole, scaturisce una crisi esistenziale che porta Vitangelo a compiere gesti folli, volti a cancellare ricordi, esperienze e persino il nome che lo identifica. Dopo aver liquidato i suoi beni ed essere stato abbandonato dalla moglie, egli finisce con il vivere in un ospizio, senza più un nome e un’identità definita. Considerato pazzo dagli altri, si sente in realtà finalmente felice: abbandonata la civiltà, con le sue forme e le sue convenzioni, si trova per la prima volta immerso nel fluire continuo della vita e nella natura.

 Il teatro

Pirandello scrive per il teatro fin dagli anni giovanili, ma le sue prime opere sono rappresentate soltanto nel 1910, anno in cui vanno in scena al Teatro Minimo di Nino Martoglio, a Roma, i due atti unici La morsa e Lumìe di Sicilia. Da questo momento in poi la sua attività drammaturgica diviene intensissima, attraversando diverse fasi stilistiche.

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Gli esordi: oltre il dramma borghese La verosimiglianza naturalistica delle situazioni sentimentali e tragiche rappresentate dal teatro allora in voga è fin dall’inizio messa in discussione da Pirandello. Dopo una prima esperienza regionale in dialetto siciliano, lo scrittore torna alla lingua italiana e mostra di voler spingere fino al paradosso e all’assurdo i temi consolidati del teatro borghese dell’epoca, portandoli allo scoperto e, così facendo, denunciandone la vacuità. Oltre ai due atti unici già citati, appartengono a questo periodo lavori come Pensaci, Giacomino! e Liolà (1916), Così è (se vi pare) (1917), ma anche La giara (1916) e La patente (1918), trasposizioni di sue celebri novelle.

Così è (se vi pare)

Commedia in tre atti scritta nel 1916, tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, mette in scena la vicenda di una strana famiglia composta da tre persone che si trasferisce in un piccolo paese di provincia, scatenando un coro di chiacchiere e pettegolezzi. Il signor Ponza vive in un appartamento con la seconda moglie, mentre la madre della prima, la signora Frola, è relegata al piano sottostante e costretta a comunicare con la moglie del signor Ponza, che è convinta sia sua figlia, per mezzo di bigliettini calati in un paniere dalla finestra. O meglio, questa è la verità del signor Ponza, il quale, incalzato dalla curiosità dei vicini, afferma che la suocera è diventata pazza dopo la morte della figlia, e che pertanto egli cerca di farle credere che sia ancora viva, assecondandone l’illusione con la complicità della seconda moglie.

Ma ognuno ha la sua verità da raccontare. Molto diversa, infatti, è la versione della signora Frola, che senza dubbi sostiene che la moglie del signor Ponza è sua figlia e accusa il genero di essere un marito a tal punto geloso e possessivo da volere la donna tutta per sé, tenendola isolata dal resto del mondo. L’unica a poter far luce sulla questione è la signora Ponza, che verso la fine della rappresentazione fa la sua apparizione coperta da un velo, simbolo dell’impossibilità di raggiungere la verità: invece di una rivelazione definitiva, infatti, la donna dice semplicemente «Per me, io sono colei che mi si crede», lasciando lo spettatore nella completa incertezza sulla reale identità dei personaggi.

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Il teatro del grottesco (1917-1925) Gli elementi caricaturali già presenti nei primi drammi diventano a poco a poco un tratto stilistico inconfondibile del teatro pirandelliano: è l’approdo al teatro del grottesco che, con Il piacere dell’onestà (1917) e Il giuoco delle parti (1918), ribalta i principi del teatro borghese in modo drastico e provocatorio, adottando soluzioni formali che infrangono le regole del naturalismo, della verosimiglianza della storia e della finzione teatrale. Sulla scena affiora un mondo stravolto e deformato, in cui i personaggi sono privi di una psicologia coerente: scissi e contraddittori, ingabbiati anch’essi in forme assurde, come le vicende in cui si trovano ad agire. Anche il linguaggio sembra non razionale, diventa frammentato, specchio di una condizione esistenziale come sospesa nel vuoto.

Antonio Gramsci ha definito queste opere «bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori», sconvolgendo pensieri e sentimenti stereotipati. Fanno parte di questa fase anche drammi come Ma non è una cosa seria (1918), L’uomo, la bestia e la virtù (1919), Tutto per bene (1920), Come prima meglio di prima (1920).

Il giuoco delle parti

In questa commedia del 1918, tratta dalla novella Quando si è capito il giuoco, troviamo un marito, una moglie e l’amante: il tradizionale motivo del triangolo amoroso e del tradimento è però deformato e contorto, fino a renderne evidente l’assurdità. Leone Gala, dall’alto del suo atteggiamento intellettuale e da filosofo cinico, osserva distaccato il comportamento frivolo della moglie Silia e del suo amante Guido Venanzi, personaggio insignificante che vive all’ombra degli altri due. Recitando in modo consapevole la parte del marito tradito, Leone concede alla moglie di divertirsi con Guido, senza mostrare alcuna gelosia, e anzi favorendone la relazione. La moglie, stanca della razionalità indifferente del marito, chiede all’amante di ucciderlo, ma questi si rifiuta. Quando si presenta l’occasione di difendere l’onore di Silia in un duello, Leone accetta di farlo, in qualità di marito pro forma, ma tocca all’amante combattere realmente contro il celebre spadaccino Miglioriti, visto che di fatto è lui l’uomo di Silia. Ognuno insomma è costretto a recitare la propria parte fino in fondo e, mentre Guido Venanzi rimane ucciso nel duello, Leone, gustato l’amaro sapore di una vendetta cinica, si chiude in un cupo silenzio: la razionalità che svaluta i sentimenti non salva la vita né cancella la sofferenza umana.

Il tema del delitto d’onore viene sfruttato da Pirandello per smontare il meccanismo del teatro borghese e sancire l’impossibilità di arginare l’ondata delle passioni, che prevalgono sulla ragione, costringendo i personaggi ad annientarsi l’un l’altro e ad accettare un comune destino di infelicità.

Il teatro nel teatro Una vera e propria rivoluzione è segnata dalla prima storica rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1921, opera metateatrale che, insieme a Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930), compone la cosiddetta trilogia del «tea­tro nel teatro». A questa fase può essere accostato anche l’Enrico IV (1922), dramma in cui la confusione tra vita e teatro si allarga fino a divenire caotica sovrapposizione tra normalità e follia.

Sei personaggi in cerca d’autore  T6

La celebre commedia del 1921 non è divisa in atti e scene, ma presenta due interruzioni apparentemente casuali (in realtà perfettamente inserite nell’artificio del teatro nel tea­tro). Mentre una compagnia sta provando una commedia di Pirandello (Il giuoco delle parti) entrano in scena sei personaggi misteriosi: il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, un Giovinetto e una Bambina.

Abbandonati da un autore allo stadio iniziale, essi aspirano alla compiutezza formale dell’arte e a ottenere corpo e voce: sono in cerca di qualcuno che scriva il loro dramma, ancora solo abbozzato, e di attori che li impersonino. La loro è una storia a tinte forti, tipica del teatro ottocentesco: la Madre, dopo aver partorito il Figlio, viene spinta dal Padre a formarsi una nuova famiglia con il suo segretario; nascono altri tre figli, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Dopo molti anni il Padre si trova in una casa di appuntamenti; proprio mentre sta per avere, inconsapevolmente, una relazione incestuosa con la Figliastra, viene fermato dalla Madre, sconvolta dal duplice orrore di trovare la figlia in quel luogo e in compagnia dell’ex marito. A questo punto la rappresentazione si interrompe per poi riprendere in un giardino, in cui la Madre scopre il corpo della Bambina affogata in una vasca e scorge il Giovinetto che, dopo aver assistito alla scena, si spara. Pur riluttante, il Capocomico della compagnia che sta provando lo spettacolo interrotto accetta di trarre una pièce da questa vicenda, ma equivoci e difficoltà d’ogni tipo ne ostacolano la messa in scena: il vero dramma dei personaggi diviene perciò quello di non riuscire a vedersi rappresentati “realisticamente” dagli attori, che provano a recitare la storia ma sono continuamente interrotti dai personaggi “veri”, insoddisfatti della performance. Alla fine, tutto rimane allo stadio potenziale di un dramma irrisolto: calato il sipario, ci si accorge dell’impossibilità di fare teatro.

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Enrico IV  T7

Il dramma in tre atti del 1922, Enrico IV è considerato, insieme ai Sei personaggi, il vertice della drammaturgia di Pirandello. Durante una festa in maschera, un giovane gentiluomo, che indossa i panni di Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, viene disarcionato dal suo rivale in amore Tito Belcredi. Cadendo da cavallo batte la testa e sprofonda in una follia che lo terrà imprigionato per dodici anni: egli crede di essere davvero il personaggio storico che stava impersonando, e vive assecondato dai suoi servitori in un mondo irreale, fuori dal tempo. Quando all’improvviso rinsavisce, si rende conto di aver perso per sempre la giovinezza e di essere stato defraudato dell’amore della marchesa Matilde Spina, che ora è compagna di Belcredi. Il protagonista decide allora di continuare a recitare la parte a cui tutti ormai da anni lo credono inchiodato, immedesimandosi in una maschera che sostituisce la sua vera identità.

Passano così altri otto anni, quando un giorno Matilde, Belcredi e la figlia Frida, in compagnia di uno psichiatra, tentano di ricostruire la scena della famosa cavalcata nella speranza di dissipare le nebbie della follia del presunto Enrico IV (il cui vero nome non è mai dichiarato). Egli, però, volendo tornare a riappropriarsi di una vita dalla quale aveva scelto di escludersi, rivela la finzione e, spinto da una passione mai sopita per Matilde, abbraccia con slancio Frida, identica alla madre da giovane. Belcredi si avventa su di lui, disgustato dal gesto del suo vecchio rivale, ma Enrico IV estrae la spada e lo ferisce a morte. A questo punto non gli rimane che continuare la recita, tornando a fingersi pazzo, non fosse altro che per sfuggire a un processo e a una condanna per omicidio. La pazzia, però, non è più un gioco, né un’inconsapevole condizione di alienazione mentale, ma una dolorosa necessità.

Dalla caduta nel “pirandellismo” al teatro dei «miti» Sull’onda del successo mondiale che accompagna le rappresentazioni delle sue commedie, Pirandello successivamente si avvia verso una produzione meno originale, che ripete gli schemi drammaturgici del periodo precedente. La vita che ti diedi (1923), L’amica delle mogli (1926), Diana e la Tuda (1927), Quando si è qualcuno (1933) sono drammi in cui l’autore indulge a un facile “pirandellismo”, che si traduce nella stanca e insistente ripetizione degli stessi temi, di tecnicismi collaudati e di forme spesso cerebrali e artificiose.

Un sostanziale cambiamento di direzione è rappresentato, invece, dagli ultimi progetti teatrali, in cui Pirandello abbandona la riflessione metateatrale e prospetta una fuga totale nel mondo della fantasia e della poesia, approdando a grandi tematiche esistenziali e al «mito», termine che egli stesso usa per definire questi lavori. La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1930, incompiuto, rappresentato postumo nel 1937), insieme alla Favola del figlio cambiato (1930), musicata dal compositore Gian Francesco Malipiero, portano l’arte di Pirandello alle soglie del Surrealismo. Luoghi immaginari, eventi soprannaturali e simboli irrazionali campeggiano in queste opere, in cui viene meno ogni residuo elemento realistico e l’atmosfera si fa onirica e fantastica. Che si tratti della rappresentazione di un’utopia, cioè di un “mito sociale”, come è nella Nuova colonia, di una nuova fede, cioè di un “mito religioso”, come in Lazzaro, o di una riflessione sull’arte nella società moderna, minacciata dai “giganti” del potere nei Giganti della montagna, il suo realismo allucinato si trasforma in allegoria e in suggestioni mistiche e trascendenti, evocate da un linguaggio lirico ed enigmatico.

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  I saggi

La produzione saggistica di Pirandello, gli articoli e gli interventi teorici sulle riviste specializzate non presentano, nel complesso, le caratteristiche di rigore e di ampiezza documentaria con cui solitamente vengono redatti studi di questo tipo. Inaugurata da uno scritto apparso nella rivista “Vita nuova” nel 1890, La menzogna del sentimento nell’arte, la riflessione estetica di Pirandello si esprime soprattutto nel fondamentale saggio L’umorismo.

L’umorismo  T1-T2

Pubblicato nel 1908 e, in una seconda edizione rivista e integrata, nel 1920, L’umorismo non solo costituisce la chiave d’accesso all’opera dell’autore, ma può anche essere considerato il manifesto teorico di una nuova poetica, in netta antitesi con quella del Verismo.

L’opera è divisa in due parti; nella prima l’autore analizza il termine “umorismo” e tratteggia una sorta di storia della letteratura umoristica, cercando di dimostrare che questa particolare attitudine del pensiero e della sensibilità estetica è rintracciabile in ogni epoca; la seconda parte, più strettamente teorica, contiene invece una compiuta definizione dell’arte umoristica: qui si trova la formulazione più dettagliata del concetto pirandelliano, corredata di esempi divenuti celebri, passaggi determinanti per la comprensione della poetica dell’autore.

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La vita

 

Le opere

• Nasce a Girgenti 

1867

 

• La famiglia si trasferisce a Palermo 

1879

 

• Si iscrive alle facoltà di Lettere e di Legge 

1886

 

• Si trasferisce a Roma all’Università “La Sapienza”

1887

 

• Si trasferisce a Bonn 

1889

Mal giocondo

Si stabilisce a Roma 

1893

 

Si sposa con Antonietta Portulano 

1894

Amori senza amore (poi Novelle per un anno)

  1895 Elegie renane

• Inizia a insegnare Stilistica e Letteratura italiana all’Istituto Superiore di Magistero di Roma

1897


  1901 Zampogna; L’esclusa
  1902 Beffe della morte e della vita (poi Novelle per un anno
Quand’ero matto
(poi Novelle per un anno); Il turno

Disastro economico e primi segni della malattia della moglie

1903

 
  1904 Il fu Mattia Pascal
  1908 L’umorismo
  1909 I vecchi e i giovani; La giara

Inizia a collaborare con la compagnia di Nino Martoglio

1910

Pensaci, Giacomino!; Lumìe di Sicilia; La morsa

  1911 Suo marito
  1912 Fuori di chiave
  1916 Liolà
  1917 Così è (se vi pare); Il piacere dell’onestà
  1918  La patente; Il giuoco delle parti; Ma non è una cosa seria
  1919 L’uomo, la bestia e la virtù
  1920 Tutto per bene; Come prima, meglio di prima
  1921 Sei personaggi in cerca d’autore
  1922 Novelle per un anno; Enrico IV

Aderisce ufficialmente al fascismo 

1924

Ciascuno a suo modo

Fonda la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma

1925

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

  1926 Uno, nessuno e centomila
  1927 Diana e la Tuda
  1928 La nuova colonia
  1929 Lazzaro
  1930

Questa sera si recita a soggetto

La favola del figlio cambiatoI giganti della montagna (1937 postumo) 

Riceve il premio Nobel per la letteratura 

1934

 

• Muore a Roma 

1936

 

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento