I grandi temi

I grandi temi

1 La concezione della letteratura

La necessità del “vizio” Come abbiamo visto, dopo il silenzio che accompagna i primi due romanzi Svevo si ripromette di rinunciare alla scrittura. Il proposito viene enunciato molto spesso; eppure egli non riesce mai ad abbandonare del tutto quell’attività, sia pure relegandola tra le segrete occupazioni e considerandola come un vizio che distrae dalle incombenze pratiche. La “clandestinità” in cui Svevo relega la scrittura è un modo per non esporsi all’ostilità del proprio mondo familiare e sociale, secondo il quale la letteratura è un passatempo improduttivo adatto a persone inconcludenti senza voglia di lavorare.

La scrittura come trasgressione alla norma D’altra parte, la vocazione alla scrittura costituisce per Svevo un’infrazione della propria identità sociale di uomo di successo ben inserito nell’ambiente borghese. Il profitto, l’attività commerciale, la morale perbenista: tutti i miti di questo mondo vengono minacciati dall’atto, gratuito e autoreferenziale, di scrivere. Quanto più si è integrati, tanto più la letteratura può assumere una valenza dirompente e rivoluzionaria, in quanto strumento capace di mettere a nudo l’uomo.
La rivolta contro i padri Scrivere è dunque una trasgressione verso il mondo dei padri e l’educazione che ne deriva. Svevo, sia pure senza apparenti ribellioni, attua un implicito “rifiuto del padre” ( p. 612), quel padre che lo vorrebbe bravo commerciante: come accade a Luigi Pirandello, a Franz Kafka, a Thomas Mann, la scelta della scrittura è una sorta di rifiuto dell’autoritario sistema dei valori rappresentato dalla figura paterna.
L’etica borghese vista dall’interno Al tempo stesso, se la letteratura va praticata con riserbo, ne consegue che essa potrà sottrarsi ai generi e alle poetiche prestabilite, liberandosi tanto dalle mode quanto dai vincoli istituzionali, poiché è un’esigenza esistenziale, non un mestiere da praticare. Con assoluta libertà Svevo può quindi affondare lo sguardo nel suo mondo, nei risvolti della quotidianità borghese e nei meandri di una mentalità mercantile che egli conosce benissimo perché è la sua.
Il rapporto letteratura-vita Accade così che vita e letteratura si incontrano, fondendosi sulla pagina. Ne scaturisce un’analisi tanto più spietata quanto più diventa autoanalisi che prende per oggetto le stravaganze, i tic, gli impulsi irrazionali dell’autore stesso. In questo senso, si può ben capire che tra l’uomo d’affari Ettore Schmitz, paranoico e nevrotico, e lo scrittore Italo Svevo, corrosivo e inesorabile, non c’è conflitto.

La penna come medicina La scrittura è chiamata pertanto a svolgere un’azione chiarificatrice: l’esistenza può essere svelata solo se fissata sulla pagina scritta, tanto più se ad adempiere questo scopo vi è un intellettuale “inetto”, estraneo ai trucchi e alle finzioni dei letterati di mestiere e sensibile alle assurdità e alle incoerenze della vita.

Come una forma di terapia, la penna, fuori della quale «non c’è salvezza», diviene così uno strumento di igiene interiore e di conoscenza di sé. Attraverso essa, ciascuno potrà capire meglio sé stesso: il presente infatti non è conoscibile, perché manchiamo della distanza necessaria per scorgerne i dettagli, interpretarne le situazioni, intuirne la logica e le relazioni.

Scrittura e malattia Non appare quindi casuale che tutti i personaggi sveviani siano scrittori: Alfonso Nitti scrive poesie, oltre alle lettere private e alla corrispondenza commerciale; Emilio Brentani è autore di romanzi, non solo di polizze d’assicurazione; Zeno Cosini, il protagonista del romanzo La coscienza di Zeno, scrive la propria autobiografia su indicazione dello psicanalista, tra una nota contabile e l’altra.

Si potrebbe pensare che quest’attività determini una condizione di superiorità, se non sociale, almeno culturale e intellettuale. Ma non è così, anzi, per Svevo è esattamente il contrario: la scrittura è posta sempre in relazione con uno stato di inferiorità, di disorientamento, di impotenza. Chi scrive lo fa perché è malato, ma almeno ha il vantaggio di essere cosciente della propria situazione.

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T1

«Fuori della penna non c’è salvezza»

Saggi e pagine sparse

In questo brano di diario, datato 2 ottobre 1899, Svevo riflette sulla funzione conoscitiva della scrittura.

Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio

che di scribacchiare1 giornalmente. Si deve tentar di portare a galla dall’imo2 del

proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di

qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma

5      bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e

non di più.3 Altrimenti, facilmente si cade, – il giorno in cui si crede d’esser autorizzati

di prender la penna – in luoghi comuni o si travia4 quel luogo proprio che non

fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza. Chi crede

di poter fare il romanzo facendone la mezza pagina al giorno e null’altro, s’inganna

10    a partito.5 Ma d’altronde questa paginetta scritta sotto l’impressione di un dato

momento, del colore del cielo, del suono della voce di un proprio simile, non diverrà

mai altro di quello ch’è; la pagina più sincera

ma di un’impressione troppo immediata e violenta.

Non bisogna pensare di rappezzare6 con

15    tali pagine qualche cosa di maggiore. Napoleone

usava notare quanto non voleva più dimenticare

su un foglietto di carta che poi stracciava. Stracciate

anche voi le vostre carte oh! formiche letterarie.

Fate in modo che il vostro pensiero riposi

20    sul segno grafico col quale una volta fissaste un

concetto, e vi lavori intorno alterandone a piacere

parte o tutto, ma non permettete che questo

primo immaturo guizzo di pensiero si fissi subito

e incateni ogni suo futuro svolgimento.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

In questo breve brano di diario, Svevo condensa la sua poetica fondata sull’atto quotidiano dello scrivere.

Dobbiamo tenere presente che il suo consiglio di scribacchiare (r. 2, un verbo riduttivo, che sembra suggerire l’idea di un’attività priva di uno scopo e di un progetto definiti) nasce dalla sua stessa condizione: l’irresistibile vocazione alla scrittura è repressa dall’ambiente e dal suo stesso desiderio di mantenere un’immagine di uomo rispettabile, buon padre di famiglia, dedito a occupazioni ben più importanti che riempire la pagina bianca di frasi inutili.

Per Svevo dunque l’esercizio della scrittura non può coincidere con il mestiere e tanto meno con la creazione fantasiosa di vicende romanzesche, composte e ordinate grazie a una meditata strategia artistica: la letteratura appare invece un’alternativa al non senso e alla menzogna dell’esistenza.

Scrivere perciò significa conoscersi, “anatomizzandosi” a pezzetti, abbozzando, seppure in modo del tutto dilettantesco, brandelli di verità da sottrarre all’oblio: solo così è possibile salvare la verità dei fatti dalle deformazioni della memoria.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Svevo indica due errori che non si devono commettere se si vuole arrivare a scrivere sul serio (r. 1). Rintraccia nel testo quali sono.

Analizzare

2 Il brano presenta un tono assertivo e argomentativo. Individua le parole e le espressioni utilizzate per ottenere tale risultato.

INTERPRETARE

3 A chi si riferisce Svevo quando chiama in causa le formiche letterarie (rr. 18-19)?


4 Alla luce del profilo biografico, in che cosa l’attività di portare a galla dall’imo (r. 2) frammenti di ricordi, immagini, riflessioni ecc. può essere in conflitto con l’etica o le regole borghesi?

Produrre

5 Scrivere per argomentare. In una società come la nostra in cui domina l’immagine e la distinzione tra sfera pubblica e privata è sempre più sfumata per la presenza massiccia dei social network, una scrittura privata quale quella di un diario può ancora avere una funzione? Esponi le tue riflessioni al riguardo in un testo argomentativo di circa 30 righe.

2 L’autobiografia di un uomo comune

La vita vera sulla pagina Abbiamo già notato come una componente fondamentale dell’opera di Svevo sia il nesso esistente tra l’arte e la vita. La componente autobiografica è infatti facilmente individuabile nei suoi romanzi: le circostanze di Una vita e il suo protagonista, impiegato presso la filiale triestina di una grande banca, rimandano direttamente alla biografia dell’autore; dietro la sagoma di alcuni personaggi di Senilità si possono cogliere uomini e donne conosciuti realmente da Svevo (la figura di Angiolina è ispirata alla prima fidanzata dello scrittore, mentre Balli è modellato in larga parte sull’amico pittore Umberto Veruda); le stesse caratteristiche psicologiche di Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno, risultano per molti versi affini a quelle dell’autore stesso.

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Uno sguardo universale Sarebbe tuttavia sbagliato ridurre la produzione di Svevo al semplice resoconto di una personale vicenda esistenziale. In una lettera scritta nel 1926 a Eugenio Montale, lo scrittore triestino riconosce che la sua opera è in sostanza un’autobiografia, ma aggiunge ambiguamente che non è la sua. Egli intende dire che la vita privata rappresenta per lui un pretesto, un punto di partenza per analizzare i comportamenti dell’uomo in generale, ingrandire particolari a prima vista irrilevanti, registrare gli atti inconsci delle persone in relazione a loro stesse, agli eventi e al mondo che le circonda. Solo andando in fondo a sé stessi si è in grado di distinguere quelli che costituiscono i connotati essenziali e in questo modo di riconoscerli anche negli altri: si può qui individuare l’influenza dell’autore russo Fëdor Dostoevskij ( p. 287).
Un realismo dell’interiorità Lo studio dell’io era un aspetto già ampiamente presente nel romanzo naturalista, ma il realismo di Svevo si concentra sui movimenti interni più che sul mondo esterno ed è interessato a cogliere le incoerenze dei comportamenti, i meccanismi involontari che guidano l’agire individuale, il fallimentare venir meno di ogni coerenza logica.

L’assenza di alternative consolatorie Tale volontà di conoscere si accompagna al rifiuto di ogni ipotesi precostituita. Svevo infatti respinge l’ottimismo e la fiducia nel progresso di stampo positivistico e non crede nella scienza come base oggettiva per comprendere il reale, molto più frammentario e ingannevole.

Per questa ragione, se la sua opera costituisce uno dei punti più alti di quella condizione antropologica e culturale primonovecentesca che chiamiamo “coscienza della crisi”, va aggiunto che essa non indica alcuna soluzione.

L’indifferenza ideologica dell’autore gli impedisce di coltivare utopie: il socialismo, a cui pure in gioventù aveva guardato con simpatia, lo spaventa; il nazionalismo è del tutto estraneo al suo temperamento; il fascismo disturba con il suo sfoggio di saluti romani e retoriche parole d’ordine la sua indole di moderato liberale, ma non incrina la sua silenziosa accettazione.

Svevo è piuttosto uno scettico che fa fatica a nascondere la propria misantropia e la cronica difficoltà a entrare in comunicazione con il prossimo. Il compito che si assegna è esclusivamente quello di rappresentare il disfacimento di un sistema a cui appartiene e di cui accetta assurdità e mancanze, riconoscendo però a sé stesso la capacità di guardarlo con la consapevolezza che il male di vivere è una condizione che tocca l’intera umanità. Non a caso l’esistenza è per l’autore «una malattia che, a differenza delle altre, non sopporta cure: è sempre mortale».

Una società di uguali Svevo dunque archivia il conflitto tra l’individuo e la società; al suo posto presenta il dualismo tra vita e coscienza, da cui nascono a cascata tutti gli altri contrasti: tra forma e sostanza, tra ipocrisia e verità, tra onestà e malafede.

Ciò spiega perché il suo universo di uomini e ambienti sia, in fondo, piuttosto uniforme: popolani e borghesi soffrono della stessa crisi, senza alcuna differenza di classe. E su questi individui, così come sulle vicende di cui sono protagonisti, l’autore non pronuncia alcun giudizio: a lui interessa esprimere l’ambiguità dei personaggi, facendone affiorare le ipocrisie e le menzogne.

Romanzi senza eroi In Svevo non vi sono eroi: per denunciare l’assurdità della vita, l’autore sceglie di rappresentare l’uomo comune, privo di qualità, caratterialmente incoerente e inetto: dal mediocre impiegato di banca Alfonso Nitti a Emilio Brentani, scrittore fallito che conduce una vita apatica, privo di qualsiasi energia vitale.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento