L’influenza pascoliana
Per molti decenni il dibattito critico intorno alla posizione storico-letteraria di Pascoli è stato dominato da una domanda ricorrente: l’autore di Myricae ha chiuso l’Ottocento o aperto il Novecento? In altre parole, la sua poesia va messa in relazione con le tendenze del tardo-Romanticismo, del Positivismo e del Simbolismo di fine secolo, è da considerare in una posizione di cerniera tra due epoche o va intesa come il fondamentale punto di avvio di alcuni, successivi filoni della lirica italiana novecentesca?
Come suggerisce la studiosa Niva Lorenzini, cercare parentele vincolanti con la produzione successiva determina «confuse e interessate assimilazioni»: sottrarre Pascoli al suo tempo significa, per paradosso, togliere forza alla novità della sua poetica in una stagione della nostra letteratura ancora legata ai modelli classicheggianti della produzione carducciana. D’altro canto, se è vero che molti motivi e caratteri dei versi di Pascoli appartengono a un orizzonte geografico e cronologico limitato (si pensi alla rappresentazione del mondo contadino), è altrettanto vero che il debito che molti poeti delle generazioni successive scontano nei suoi confronti è innegabile: dai Crepuscolari a Saba fino ad Ungaretti e oltre.