La vita
Un’esistenza segnata dal dolore
La breve felicità dell’infanzia Quarto figlio di una famiglia numerosa piuttosto agiata, Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli) il 31 dicembre del 1855. Cresce circondato dagli affetti e a stretto contatto con la natura e i paesaggi della campagna romagnola, temi e visioni che saranno cardini del suo immaginario poetico. Il padre, Ruggero, amministratore della tenuta La Torre di proprietà dei principi Torlonia, lungo il Rio Salto, lo manda a studiare a Urbino, nel Collegio Raffaello, gestito dai padri Scolopi, ecclesiastici noti per la loro erudizione e, soprattutto, eccellenti latinisti.
Da studente a docente
L’incontro con Carducci a Bologna I risultati scolastici di Pascoli sono assai scoraggianti, ma la vittoria in un concorso per una borsa di studio indetto nel 1873 dalla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna gli apre una strada imprevista. Presidente della commissione esaminatrice è Giosuè Carducci, il maestro di un’intera generazione di letterati italiani.
Il «nido», la poesia, la fama
La ricostruzione del nucleo familiare e il legame con le sorelle Nel 1884 Pascoli viene trasferito al liceo di Massa, dove riesce a portare con sé le sorelle, che le vicende familiari avevano relegato prima in un convento nel Forlivese, poi presso una zia. L’ormai trentenne Giovanni può così ricostituire il nucleo familiare, che mantiene unito anche dopo il suo trasferimento nel liceo di Livorno, dove insegna fino al 1895.
Il legame con le sorelle, strette intorno a lui all’interno del tanto desiderato «nido», perpetua – o almeno così vorrebbe Giovanni – la condizione infantile, recuperata con un affetto totalizzante, quasi maniacale, che esclude ingerenze esterne ed esige la castità e il culto della memoria dei genitori.
Il “tradimento” di Ida Alla fine del 1894, però, Ida si fidanza e pochi mesi dopo si sposa: Pascoli ne è sconvolto, considera il matrimonio della sorella come un affronto, un tradimento e, cosa ancora più grave, un attentato all’integrità del «nido». Costretto a Roma da un incarico ministeriale, riversa su Maria la propria disperazione: «Come farò a dormire questa notte? queste altre notti? Come passerò questi giorni? Oh! povero Giovanni!».
Il 1895, anno delle nozze di Ida, diventa per Giovanni «l’anno terribile»: «Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre».
Gli ultimi anni All’insegnamento, Pascoli affianca lo studio e il lavoro poetico, a cui ama dedicarsi nella casa di Castelvecchio (oggi Castelvecchio Pascoli, nel comune di Barga) in Garfagnana, dove si è trasferito con Maria fin dal 1895. Qui Pascoli vive, come in un rifugio, la sua esistenza di poeta e insieme di contadino. A questa dimensione si sottrae solo nelle rare uscite pubbliche, in occasione di discorsi celebrativi che lo vedono nei panni del letterato ufficiale, ereditati dal maestro Carducci. Celebre, in particolare, è l’orazione intitolata La grande proletaria si è mossa, con cui nel novembre 1911 si schiera a favore dell’impresa coloniale in Libia.
Malato di cirrosi epatica, Pascoli muore a Bologna nel 1912 e viene sepolto a Castelvecchio, dove Maria resterà sino alla fine dei suoi giorni (1953), gelosa custode delle memorie e delle carte del fratello.
il CARATTERE
Una personalità complessa
Per avere un’idea della complessa personalità di Pascoli basterebbe affidarsi alla sua biografia o, meglio ancora, alla lettura dei suoi versi, in cui un diffuso simbolismo e oscuri sottintesi rivelano gli elementi della sua sofferenza esistenziale: ansia, inquietudine, vergogna, sessualità repressa, senso di colpa.
Il vittimismo
Duramente segnato dal trauma della morte del padre, Giovanni vive nel costante angoscioso ricordo di quel lutto mai risolto e nel rimpianto della perduta condizione infantile, su cui proietta desideri e nostalgie. L’età adulta lo spaventa, con il suo carico di responsabilità, e ad essa egli oppone il disperato bisogno di un ancoraggio sicuro al proprio piccolo universo privato: solo il «nido» lo preserva dal mondo e dalle sue stesse pulsioni. Quel microcosmo, condiviso con le sorelle, il cane Gulì, un merlo dall’ala rotta e una capretta, e consacrato con altarini e reliquie al ricordo ossessivo dei cari scomparsi, può sembrare una macabra “prigione” di campagna dove, più che la protezione, Pascoli cerchi la segregazione. Non c’è dubbio, d’altronde, che la sensibilità del poeta abbia molte caratteristiche nevrotiche e maniacali, e non a caso è diventata oggetto di studi e indagini psicanalitiche.
L’ansia sotto la superficie
Le sue esigenze affettive, soddisfatte dal rapporto con le sorelle-madri, il senso del proibito che avvolge e inibisce ogni espressione della sessualità, la tutela del «nido» da cui allontanare ogni minaccia di profanazione, il rifiuto delle “tentazioni” sociali e mondane sono ossessioni che lo legano a pochi salvifici valori: l’innocenza, il candore, l’amore per la semplicità e per le piccole cose che affiorano dai suoi versi apparentemente semplici. Sta a noi lettori cogliere dietro le sue immagini infantili di pace e serenità il drammatico groviglio di una personalità irrisolta.
CRONACHE dal PASSATO
Pascoli sovversivo
La breve stagione di passione politica di Pascoli terminata con un processo per oltraggio e attività sediziose
Il 17 novembre 1878 la famiglia reale è in visita a Napoli e la città è addobbata a festa per l’evento. Qualche politico, di fede repubblicana, ha contestato in consiglio comunale le spese sostenute per accogliere trionfalmente i Savoia e non mancano le polemiche degli agitatori internazionalisti (anarchici e socialisti), che nei giorni precedenti hanno organizzato manifestazioni, subito represse dalle autorità. Ma quando Umberto I, la moglie Margherita e il figlio - il futuro Vittorio Emanuele III - sfilano per le strade della città, nessuno ci pensa più: una calca di uomini e donne fa ressa presso la carrozza reale, molti per chiedere favori e porgere suppliche. Tra i presenti c’è anche un giovane lucano, di professione cuoco. Il suo nome è Giovanni Passannante e ha già alle spalle mesi di carcere per la sua attività di sovversivo, prima come repubblicano poi come anarchico. Passannante attende che la carrozza lentamente gli sfili davanti, quindi sale sul predellino, tira fuori un coltello avvolto in un fazzoletto rosso e colpisce il re gridando: «Viva la Repubblica Universale!».
L’attentato fallisce: il re, protetto dal primo ministro Benedetto Cairoli, viene solo ferito a un braccio. Passannante viene subito arrestato e morirà nel 1910 nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino dopo una detenzione di inaudite sofferenze.
Una poesia perduta
Pascoli, che l’amicizia con Andrea Costa ha portato sulla strada della militanza politica, è coinvolto nelle manifestazioni che repubblicani e anarchici organizzano a Bologna. Tiene lui stesso qualche comizio: in uno, dal palco, recita un’ode a Passannante, che ha composto in onore dell’attentatore del re. Fa in tempo a declamare «Colla berretta d’un cuoco, faremo una bandiera»: poi, prima che arrivi la forza pubblica a disperdere la folla, strappa il foglio su cui ha scritto i versi. Di questo testo non rimane dunque traccia, ma solo l’intrigante mistero del suo contenuto.
Il poeta in carcere
L’autore non rinuncia però alla militanza: tra l’agosto e il settembre del 1879 si tiene un processo contro alcuni rivoluzionari di Imola. Pascoli è tra i più assidui a partecipare alle udienze. Il 7 settembre, davanti al carcere in San Giovanni in Monte, dove sono stati portati gli imputati, urla insieme ai compagni: «Viva la Comune, viva l’Internazionale, viva i malfattori, avanti vigliacchi sgherri», e viene arrestato per grida sediziose e oltraggio. Tre mesi dopo, al processo è assolto, ma abbandona la partecipazione alla politica attiva.
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento