I Malavoglia come romanzo storico? di Pierluigi Pellini

LETTURE critiche

I Malavoglia come romanzo storico?

di Pierluigi Pellini

Nell’universo arcaico di Aci Trezza irrompe, con una violenza distruttiva, la Storia: le vite dei personaggi che popolano la comunità sono travolte da eventi e circostanze che maturano ben al di là del chiuso orizzonte del paese. In queste pagine, Pierluigi Pellini (n. 1970) si interroga su una questione che non riguarda solo l’individuazione del genere letterario a cui appartiene I Malavoglia, ma investe anche il rapporto problematico di Verga con gli esiti del Risorgimento e con la costruzione del suo mito collettivo.

Storia o mito? Tempo ciclico o tempo lineare? Solo ’Ntoni è «mutato», o anche la comunità arcaica «muta faccia», come constata al suo ritorno Alfio Mosca?1 L’evocazione di un paese-famiglia ideale è, fin dall’inizio (e sempre più nel corso del romanzo), ideologia e sogno. Ben diversa la realtà: l’irruzione del tempo moderno, con il trionfo della logica economicista, ha ormai stravolto Aci Trezza. Se perciò vengono a tratti ripresi, per l’ultima volta nell’opera verghiana i topoi del racconto rusticale romantico, è soltanto per sgretolarli e decretarne l’inevitabile fine. Perché I Malavoglia sono anche un romanzo storico: oltre la circolarità di un tempo etnografico, misurato dagli eventi naturali e dalle ricorrenze religiose – nel testo, le vicende sono quasi sempre scandite dal ritmo delle stagioni e dei lavori agricoli, o dalle feste dei principali santi –, si può ricostruire il flusso della grande storia, che pur svolgendosi interamente altrove (nelle città, sul “continente”), paradossalmente investe con irreversibile violenza la vita del villaggio.

Un’unica data è esplicitamente citata nel testo: il 1863, anno in cui – prima dell’inizio della vicenda romanzesca – ’Ntoni è chiamato alle armi. Il viaggio della Provvidenza, con il carico di lupini, si svolge due anni più tardi, nel settembre del ’65. A Natale dello stesso anno, mentre il fratello maggiore ha potuto ridurre la ferma in seguito alla morte del padre, parte militare Luca, che qualche mese dopo muore nella battaglia di Lissa: è una seconda data, implicita (20 luglio 1866); ma con lieve incongruenza se ne dà notizia alla festa di San Giovanni, il 24 giugno: quando Mena, nata nell’anno del terremoto (1848), ha diciotto anni, e per obbedire al nonno si fidanza controvoglia con Brasi Cipolla. La Longa muore nel 1867, l’anno del colera; al capitolo XV, s’è visto, Mena ha ventisei anni: il ritorno di Alfio Mosca dalla Bicocca (dove infatti è rimasto otto anni) si colloca perciò nel 1874. Le ultime pagine del libro, in scorciato sommario, coprono alcuni anni: quanto basta perché Nunziata abbia due o più figli e ’Ntoni faccia ritorno dal carcere. Secondo gli appunti preparatori di Verga (che non sempre corrispondono, però, al testo definitivo), ’Ntoni è condannato nel 1872: torna perciò, dopo cinque anni, nel 1877 (o forse nel 1878).

In generale, si assiste a una progressiva accelerazione della velocità del racconto: i primi quattro capitoli (dalla partenza della barca, di sabato, ai funerali di Bastianazzo, il martedì successivo) coprono un periodo di quattro giorni; nel capitolo II, tutto occupato da una scena corale (le chiacchiere del sabato sera), tempo della storia e tempo del racconto tendono addirittura a coincidere. A partire dal capitolo V, il tempo del racconto si abbrevia, quello della storia si allunga: in cinque capitoli, vengono raccontati circa quattordici mesi (ottobre 1865-dicembre 1866); il X, con il secondo naufragio della Provvidenza e la salatura delle acciughe, conduce all’estate del ’67. Nell’ultimo gruppo di capitoli (XI-XV) si registra un’ulteriore, decisa, accelerazione del tempo del racconto); la storia copre una decina d’anni, dal colera dell’autunno 1867 al definitivo esilio di ’Ntoni. In quest’ultima parte del romanzo, il ruolo di protagonista passa dal nonno al giovane ’Ntoni; e le minute vicende collettive della quotidianità al villaggio hanno uno spazio meno importante: per questo, la prevalenza dell’imperfetto è bilanciata da una più cospicua presenza del passato remoto.

Con questa sommaria ricostruzione della fabula e dei suoi tempi – e con la precisazione che i primi nove capitoli, più lenti, intrecciano vicenda familiare e storie di paese in una narrazione volutamente sfilacciata e corale; il decimo, quasi isolato pezzo di bravura (infatti messo a partito dall’autore per l’unica anticipazione su rivista, sulla «Nuova Antologia» del gennaio ’81, con il titolo Poveri pescatori!), racconta il secondo naufragio della Provvidenza e le sue conseguenze; mentre gli ultimi capitoli si concentrano prevalentemente sulla vicenda di ’Ntoni – con questa ricostruzione, si diceva, avrebbe dovuto iniziare un’ordinata presentazione del romanzo. Sennonché I Malavoglia sono «un romanzo che non si riassume» (Giglioli): dove la storia (quella dei grandi eventi nazionali, ma non di rado anche quella dei protagonisti) è relegata in secondo piano, quasi nascosta da una profluvie di dettagli apparentemente inessenziali. Per dirla con il linguaggio dei formalisti russi: i motivi “sciolti” (o apparentemente tali) prevalgono su quelli “legati”. Come ha scritto Romano Luperini, «la maggior parte del romanzo non è occupata né dai sentimenti né dall’azione dei protagonisti ma dalle innumerevoli minuzie della quotidianità, uno scialo di pettegolezzi e di triti fatti posti sulla scena da personaggi secondari».

Con il risultato di promuovere a tema di romanzo, per la prima volta in Italia, «la serietà dell’inessenziale», riconoscendo dignità letteraria alla «minutaglia di ogni giorno» (ancora Luperini): in perfetta coerenza con il magistero di Flaubert e Zola. Ma anche di costringere il lettore a ricostruire faticosamente, a posteriori, quella cronologia e quei nessi causali che il testo, filtrando e deformando sistematicamente i fatti attraverso lo sguardo miope o interessato dei narratori popolari, sembra ingegnarsi a occultare. Anche al lettore, come all’autore, s’impone uno sguardo «da lontano», una «ricostruzione intellettuale». Da cui risulta inequivocabilmente che la sconfitta dei Malavoglia non è effetto di ambizione e insoddisfazione (l’affare dei lupini, la ribellione di ’Ntoni, la “caduta” di Lia). È la grande storia – con la complicità delle calamità naturali: tempesta, epidemia, carestia – a sconvolgere l’esistenza (già miserabile) dei Toscano: la leva sottrae alla pesca prima ’Ntoni e poi Luca (il figlio obbediente, che muore prima di diventare a tutti gli effetti personaggio di romanzo); il colera, contro cui le autorità non svolgono alcuna seria prevenzione, uccide la Longa; la crisi commerciale fa crollare il prezzo del pesce, quella agricola provoca penuria di viveri; le tasse impoveriscono i ceti produttivi (quella sulla pece è particolarmente odiosa per chi ha barche da rattoppare). Mentre l’universo arcaico è progressivamente invaso dai simboli del moderno progresso (treno, telegrafo, battelli a vapore), vince in realtà un ceto parassitario; l’usuraio (zio Crocifisso) rovina il piccolo proprietario (padron’Ntoni); la corruzione dilaga nella pubblica amministrazione: don Silvestro si arricchisce nell’esercizio delle sue funzioni; don Michele ha rapporti quantomeno ambigui con i contrabbandieri.

Le piaghe della società siciliana sono le stesse denunciate dall’inchiesta di Franchetti e Sonnino e dalle Lettere meridionali di Villari. Verga, che di suo è piccolo (o medio-piccolo) proprietario terriero, è particolarmente sensibile alla crisi di un ceto travolto, nella realtà come nel romanzo, dall’arroganza di gruppi sociali considerati, spesso a ragione, improduttivi (usurai, grandi proprietari assenteisti, amministratori corrotti). Ma proprio l’origine storica o naturale, non morale, dei flagelli che si abbattono sui Malavoglia – naufragi, guerra, colera, balzelli erariali – mostra che la «morale dell’ostrica» e la «religione della famiglia» sono rimedi illusori, quasi risibili; e che il ritorno all’antico status di proprietari, per i discendenti di padron ’Ntoni (per tutti, anche per il pio Alessi: non solo per chi traligna, come Lia o il giovane ’Ntoni), è utopia, irrealizzabile in un mondo moderno regolato dal ferreo interesse.

Se ha un senso cercare un’ideologia (del testo, non dell’autore) in un romanzo fondato sull’effetto d’impersonalità, sarà certo più facile trovarla nella logica sotterranea e dissimulata della storia narrata, che nelle dichiarazioni d’intenti della Prefazione, o di Fantasticheria. L’uomo Verga crede nella funzione positiva dello Stato unitario e nella forza travolgente del progresso – sia pure nel quadro di un’antropologia radicalmente pessimista, che di entrambi sottolinea quelli che oggi definiremmo gli “effetti collaterali”. Ma I Malavoglia sono il primo “romanzo antistorico” (la categoria, di Vittorio Spinazzola, è stata coniata per I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello e quel loro tardo epigono che è Il Gattopardo): implicita decostruzione del mito risorgimentale, esplicita negazione di ogni ottimismo progressista.


Pierluigi Pellini, Verga, il Mulino, Bologna 2012

Comprendere il pensiero critico

1 Quali sono i riferimenti storici che troviamo nei Malavoglia? Fai una cronologia degli eventi basandoti sulle date che compaiono nel testo.


2 Riassumi perché, secondo Pellini, la disfatta dei Malavoglia non derivi dalla loro ambizione, ma dall’impatto della Storia sulle loro vite.

 >> pagina 219 

I proverbi nei Malavoglia

di Alberto Mario Cirese

Il contributo dell’antropologo Alberto Mario Cirese (1921-2011) si sofferma su unaspetto centrale del tessuto stilistico del romanzo, che esplicita molto anche il suoorizzonte ideologico: la presenza di numerosissimi proverbi. Essi contribuiscono arendere atemporale e non soggetto ai cambiamenti della Storia un mondo i cui valoririsultano stabili e immutabili.

Più di una volta, come ci dicono le sue lettere, Verga cercò raccolte di proverbi e di modi di dire; e che annettesse notevole importanza a questa ricerca e la conducesse con notevole scrupolo obbiettivo ce lo dimostrano non solo il centinaio e mezzo di proverbi che s’incontrano nel romanzo, e dei quali si può trovare riscontro nelle raccolte, ma anche quel suo manoscritto, che non abbiamo potuto esaminare, ma di cui sappiamo che è un minuzioso elenco assai nutrito e scrupoloso dei proverbi «che più s’attagliavano al suo punto di vista e ai suoi scopi» (Perroni). Qui la natura stessa dell’elemento documentario ricercato dichiara la sua inerenza interiore. Anche oggettivamente, anche su un piano di ricerca storica, i proverbi contengono un alto grado di capacità individuatrice di quel mondo di “povera gente” che i Malavoglia intendevano esprimere: essi sono non soltanto enunciazione di contenuti morali, di pratici convincimenti, di norme che lumeggiano un certo orizzonte culturale, ma sono anche e soprattutto connotazione caratteristica di una tonalità psicologica e, correlativamente, fatti di lingua e di “stile”. […] In effetti il proverbio è l’espressione di una fissità ideologica che si traduce in una fissità di formula: di rime,di cadenze metriche, di numero di sillabe. Ogni proverbio ha la sua propria formula,ma tutti ne hanno una, ed un’aria comune, pur nella diversità del metro e delle assonanze.E in questa formula, in questi schemi metrici e sintattici si può ritrovare agevolmente, io credo, il corrispondente stilistico di quell’ “ingenuità morale” (per riprendere l’espressione crociana1), di quella assenza di dialettica, di quel sembrare ma non essere conclusione di un lungo investigare filosofico, di quell’essere o meglio di quel presentarsi come verità date tutte d’un colpo e non conquistate per successivi sviluppi, che è appunto l’essenziale della loro natura. E la varietà dei contenuti che le formule proverbiali possono racchiudere illustra anch’essa questo fondamentale loro carattere. Giacché, se alcune fissano consuetudini sociali o giuridiche, ed altre si legano all’avvicendarsi delle piogge e del sole o delle operazioni agricole, ed altre ancora giudicano dei caratteri o suggeriscono i comportamenti, tutte però esprimono in forma apodittica2 il convincimento, e sono così immobili e salde nella loro interiore staticità che sopportano, senza frantumarsi ma senza evolvere, le contraddizioni più palesi. […] La pretesa di assolutezza che interiormente le governa consente loro di fermare solo aspetti parziali della verità e delle cose, ed altri aspetti parziali di necessità si contrappongono ai primi, e tutti si fronteggiano egualmente statici e senza possibilità di integrazione in mobili verità più ampie. E poi, giacché il più dei proverbi soccorre nelle varie e mutabili contingenze non tanto a determinare il comportamento, quanto a rivestire di autorità quasi sacrale le decisioni già prese per ben più immediate ragioni, la varietà e mobilità di queste ragioni di necessità deve produrre formule diverse e magari contraddittorie, che rendano appunto ciascuna di esse conforme ad una saggezza extratemporale. […] Naturalmente, ogni proverbio è in realtà il risultato di un certo processo mentale: di osservazioni, di esperienze, di connessioni che non si sono date per mitica rivelazione ma che sono nate da una storia, entro una storia. Tuttavia la storia vi è come inavvertita, non se ne ha più coscienza; ed ogni proverbio, perchi lo ripete con intima adesione, è ab aeterno;3 un detto “antico” appunto. La storia vi si è contratta, fino ad annullarsi; cristallizzata, proprio come in quei sali di cui gli scienziatici insegnano il lento sedimentarsi di piani e di angoli, ma che per noi, non intendenti,sono fatti da sempre a quel modo. La storia c’è, ma nascosta e, ciò che più conta, negata:«il motto degli antichi mai mentì», come dice padron ’Ntoni. L’esperienza interiore di questo tono fondamentale sembra aver offerto un obbiettivo ideologico e stilistico al romanzo. Ed i proverbi che vi si addensano […] stanno ad attestarlo non tanto come residuo non demolito della impalcatura costruttiva della narrazione,quanto per le cadenze interiori che riescono a dare allo svolgersi dei sentimenti e dei discorsi con il loro ritmo che quasi ogni volta attinge e diffonde il suo tono al di là delle virgolette che lo chiudono. La formula, entro cui le sentenze sono fissate, esprime e general’immobile antichità di quella dimensione psicologica; e ad essa si torna come a un punto certo e mai fallace. E così i discorsi si infittiscono delle gravi cadenze che rivestono d’un tono uniforme e ripetuto la varietà e il movimento. «L’ideale dell’ostrica» si traduce e trasfigura in «melanconia soffocante» (lettera del 23-11-1881 al Capuana); la tonalità psicologica della saggezza senza sviluppi, del sentenziare senza dialettica, dell’irrigidirsi rituale dei convincimenti si fa procedimento stilistico interiormente ispirato a quei modelli.Il modulo proverbiale documentabile nelle raccolte si colorisce ed individua volta a volta nelle relazioni con tutto il contesto, ma mantiene quel suo essenziale sapore di atemporalità e lo diffonde tutto intorno. In questa dimensione psicologica l’esperienza storica ha bisogno di riconoscersi nella formula.


Alberto Mario Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1976

Comprendere il pensiero critico

1 Perché i proverbi sono un’importante fonte storica da cui ricavare informazioni sulla “povera gente” descritta nei Malavoglia

 
2 Quale rapporto viene individuato dal critico tra i proverbi e la Storia? 

 
3 Quale valore apportano i proverbi al tono generale dei Malavoglia?

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento