T2 - Rosso Malpelo (Vita dei campi)

T2

Rosso Malpelo

Vita dei campi

Primo testo verista verghiano, la novella è pubblicata in quattro puntate nell’agosto del 1878 nel supplemento domenicale del quotidiano romano “Fanfulla”, e sarà inserita due anni dopo nella raccolta Vita dei campi. La vicenda vede come protagonista un ragazzo impiegato nel duro lavoro di una cava, disprezzato da tutti e costretto a confrontarsi senza consolazioni con la violenza che domina i rapporti umani e la realtà.

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Audiolettura

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché

era un ragazzo malizioso e cattivo,1 che prometteva di riescire2 un fior di birbone.

Sicché tutti alla cava della rena3 rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre

col sentirgli dir sempre a quel modo4 aveva quasi dimenticato il suo nome di

5       battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei

pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse

un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore

gli faceva la ricevuta a scapaccioni.5

10    Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e

in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe

voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso,6 e lo accarezzavano

coi piedi,7 allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,

15    mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio8 la loro minestra,

e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello9 fra

le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue

pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo,10 e gli tiravan dei sassi, finché il

soprastante11 lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei12 c’ingrassava fra i calci13

20    e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre

cencioso e lordo14 di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa,15 e aveva altro

pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica16 per tutto Monserrato17 e

la Carvana,18 tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di Malpelo”, e

cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e

25    perché mastro Misciu,19 suo padre, era morto nella cava.

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo,

di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva

più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra20 di rena. Invece

mastro Misciu sterrava21 da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata

30    del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione22 come mastro Misciu

aveva potuto lasciarsi gabbare23 a questo modo dal padrone; perciò appunto lo

chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto24 di tutta la cava. Ei, povero

diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi25 il pane colle sue braccia,

invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio

35    come se quelle soperchierie26 cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era

aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va’ là, che tu non ci morrai nel

tuo letto, come tuo padre».

Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché27 fosse una buona

bestia. Zio Mommu28 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe

40    tolto per venti onze,29 tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle

cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.

Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria

era suonata30 da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e

se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone,

45    e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio.31 Ei, che c’era avvezzo alle beffe,

non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in

pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la

gonnella di Nunziata!»32 e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i

denari del suo appalto – il cottimante!33

50    Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava

al pari di un arcolaio;34 ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa,

contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi!

anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone,

il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava

55    dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto

dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo,

che si era voltato a riporre i ferri35 nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato,

come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.

Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i

60    lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona

con un trono, perch’era gran dilettante.36 Rossi rappresentava l’Amleto, e c’era un

bellissimo teatro.37 Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato,

che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia

ch’era toccata a comare Santa,38 la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva

65    i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era

accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro

ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento,39 ma passarono altre due ore, e

fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto

ci voleva una settimana.

70    Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta

fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere

il doppio di calce.40 Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare

di mastro Bestia!

L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia;41 e gli altri minatori si strinsero

75    nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran

chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla

di umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!». «To’!», disse lo sciancato «è

Malpelo! Da dove è venuto fuori Malpelo? Se tu non fossi stato Malpelo, non te la

saresti scappata,42 no!». Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea

80    il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio43 duro a mo’ dei gatti. Malpelo non

rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena,

dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col

lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati,44 e tale schiuma alla

bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte

85    in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più

graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per

tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando

ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non si

90    può andare a cercarlo di qua e di là.45 Anzi non volle più allontanarsi da quella

galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul46

petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa

in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare

qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della

95    montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente

che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di

Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale

dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta,47 sopportava

tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico

100 della zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!».

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava

al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo

che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva

una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba,

105 o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti

ei si pigliava le busse48 senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che

curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura

crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che

s’immaginava49 gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano

110 diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano

fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era

solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché

ei non faceva così!». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con

un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarì!».50 E un’altra volta, dietro allo

115 sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!».

Per un raffinamento51 di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero

ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da

un ponte52 s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto,

quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava

120 ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano

messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo

pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di

tiranneggiarlo, dicevano.53

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza

125 misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore

accanimento, e gli diceva: «To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo54 di

difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da

questo e da quello!».

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici:

130 «Così, come ti cuocerà55 il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!». Quando

cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare

gli zoccoli, rifinito,56 curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva

senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi

e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma

135 stremo57 di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il

quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora

confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei

potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».

Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi;

140 così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro,58 e ne avrai tanti di meno

addosso».

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’

di uno che l’avesse59 con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli

ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce;

145 «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte,

o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva

sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena

se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio

150 piagnuccolava a guisa di60 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo

sgridava: «Taci pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano,

dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli

dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva

nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».

155 Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile,

o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi,

colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era

avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva

che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non

160 costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento,

con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò

ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se

non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro

sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava

165 piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e

nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto

di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua

fosse salvatichezza o timidità.61 Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta

mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

170 Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini

e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano62 addosso da ogni parte, la

sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese,63 ché

avrebbe fatto scappare il suo damo64 se avesse visto che razza di cognato gli toccava

sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a

175 rannicchiarsi sul suo saccone65 come un cane malato. Adunque, la domenica, in

cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a

messa o per ruzzare66 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar

randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali

non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro

180 le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,67 come

dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi

dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le

gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati

185 e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e

sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere

persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano68 se vedevano 

il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza

uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan

190 colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o

tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja,69 a strangolarli; ma pel lavoro che

hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se

veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla

fune,70 e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

195 Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare

cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena

– o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della

cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe,71 colla pipa in bocca, e andava tutto

il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il

200 contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi,72 e

il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il

mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava

a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della

rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi

205 sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe

trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi

nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da

bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove

il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra,

210 e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi

dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara73 nera e desolata,

sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati,

o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter

scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida

215 disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro

Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi,

proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento.74 Però non si poterono

trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici75

220 asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era

rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente76

come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le

scarpe da una parte e i piedi dall’altra.

Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder

225 comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi

un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un

altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni

dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso

bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto

230 stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva

seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato

istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie

rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!», ripeteva lo sciancato, «ei scavava di qua,

mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione

235 che lo sapevano maligno e vendicativo.

Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava

dalla rena caduta e dagli asini morti, ché77 stavolta oltre al lezzo del carcame,78

c’era che il carcame era di carne battezzata;79 e la vedova rimpiccolì i calzoni e la

camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima

240 volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi

le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute

di scarpe del morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva

che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i

245 capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo,

sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava

in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra,

e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle

ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.80

250 Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone

e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per

l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati

come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico

colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti

255 di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.

In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era

andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa», brontolava Malpelo; «gli arnesi

che non servono più si buttano lontano». Ei andava a visitare il carcame del grigio

in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe

260 voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere

in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di

un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le

carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano

ustolando81 sui greppi82 dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li

265 scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera», gli diceva, «che non ha paura delle tue

sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!». Adesso

non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese,

e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le

ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la

270 schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in

corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose!

Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche,83 e anch’esso quando

piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle

occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora

275 gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con

quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva

e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un

uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro

280 che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta

scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una

volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi,

e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva

udirlo. «Egli solo ode le sue stesse grida!», diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il

285 cuore più duro della sciara, trasaliva.

«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma

io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà».

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla

sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo,

290 stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a

godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto;84 perciò odiava le notti di luna,

in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente

– allora la sciara sembra più brulla e desolata. «Per noi che siamo fatti per vivere

sotterra», pensava Malpelo, «ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto». La civetta

295 strideva sulla sciara, e ramingava85 di qua e di là; ei pensava: «Anche la civetta

sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli».

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava

perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino

grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano

300 più il dolore di esser mangiate.

«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti», gli diceva, «e allora era tutt’altra

cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver

paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno

volentieri in compagnia dei morti».

305 Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero

a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno

a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori.

«Chi te l’ha detto?», domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva

detto la mamma.

310 Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da

monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei

calzoni, tu dovresti portar la gonnella».

E dopo averci pensato su un po’:

«Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano

315 Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni

qui che ho indosso io».

Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in

modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe,86

tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo

320 non ne avrebbe fatto osso duro87 a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera

senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di

esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti

quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua

maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio

325 fu colto da uno sbocco di sangue,88 allora Malpelo spaventato si affannò

a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea

potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava

dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente,

gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo,

330 eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse:

«Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!».

Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre

tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli

del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo

335 coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse,

e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo89 della febbre, né con sacchi, né

coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.90 Malpelo se ne stava

zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei

suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto,91 e allorché lo udiva gemere

340 sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello

dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli

borbottava: «È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che

tu crepi!». E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel

ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.

345 Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne

lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che

d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero

Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il

suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

350 Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché

sua madre strillasse a quel modo, mentre che92 da due mesi ei non guadagnava nemmeno

quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava

che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto.93 Allora il Rosso si diede ad

almanaccare94 che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo

355 era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che

non si slattano95 mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre

non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta 

adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate

360 del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio

non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato

così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo

s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata

un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali;96 anche la sorella si era maritata e avevano

365 chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e

a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non

avrebbe sentito più nulla.

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si

teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato

370 dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e

degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si

mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e

guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata

375 la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò

chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di

stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva

tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si

fanno mettere in prigione?», domandò Malpelo.

380 «Perché non sono malpelo come te!», rispose lo sciancato. «Ma non temere, che

tu ci andrai e ci lascerai le ossa».

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso.

Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col

pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata

385 una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era

il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia

voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo per

tutto l’oro del mondo.

Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per

390 la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata

e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La

porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese

al chiodo; perciò gli commettevano97 sempre i lavori più pericolosi, e le imprese

più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente

395 per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne98 del

minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al

buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto

a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna,

il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.

400 Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la

voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire

dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La storia di Malpelo è quella di uno sfruttato: nella sua breve vita ha conosciuto soltanto il disprezzo della madre e della sorella, le angherie del padrone e dei compagni della miniera e l’implacabilità della sorte che ha ucciso, nella stessa cava in cui lavora, il padre, Misciu Bestia, l’unico al mondo che gli voleva bene (r. 54). Dalle sue esperienze, il ragazzo ha tratto una concezione dei rapporti umani che li vuole dominati da una sorta di legge della giungla, quasi una selezione darwiniana nella quale a prevalere è sempre il più forte. Mentre gli altri subiscono questo spietato sistema senza esserne consapevoli, egli ha compreso la brutalità del mondo, accettando con lucida dignità l’ingiustizia come un’immodificabile legge di natura. A tale legge nessuno può sottrarsi: tanto vale adeguarsi, adottando gli stessi strumenti violenti dei carnefici per insegnare ai più deboli (in questo caso, al suo unico amico Ranocchio) come reagire all’ineluttabile prepotenza della vita.

La sorte di Malpelo non è individuale. Accanto a lui compaiono nella novella altri personaggi che condividono la stessa condizione di esclusione. Mastro Misciu, Ranocchio e l’asino grigio sono anch’essi dei reietti, destinati a trovare prevedibilmente la morte nell’indifferenza generale. Il narratore, che fa da portavoce della mentalità paesana, assegna loro, non a caso, lo stesso epiteto: sono, infatti, rispettivamente un povero diavolaccio (rr. 32-33), un povero ragazzetto (rr. 116-117) e una povera bestia (r. 98). Invece Rosso Malpelo non è gratificato dalla stessa compassione poiché egli ha l’orgoglio, la rabbia e la consapevolezza. Malpelo, brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico (r. 14), respinge la pietà del mondo (compresa la nostra), non intende suscitare compassione e non lancia patetici appelli ai buoni sentimenti.
Mai sfiorato dalla tentazione del vittimismo, Malpelo ha acquisito una visione disincantata e impietosa della realtà: animali, persone, perfino le cose (come la rena traditora, r. 144) combattono tra loro per esercitare la violenza del più forte. L’indifferenza che gli manifestano la madre e la sorella, le quali lo considerano come una bestia da fatica, e la perdita del padre, il solo che era capace di dedicargli attenzioni, lo hanno indotto a credere di non meritare l’amore degli altri. Egli si è perfino convinto di essere cattivo come tutti pensano e di dover ricoprire l’unico ruolo che il prossimo gli ha riservato, sia pure negativo (Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, rr. 102-103). Ciò spiega perché, nonostante la generosa protezione che cerca di garantire a Ranocchio (comportamento che il coro paesano interpreta come un malvagio esercizio di superiorità: le sue attenzioni sarebbero solo un modo per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, rr. 122-123), sceglie di infierire sui più deboli con lo stesso spirito di sopraffazione che subisce lui stesso, in modo da insegnare le dure regole della vita (Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, rr. 139-140).

Tale accettazione fatalistica dei rapporti umani si riverbera anche sulla percezione che Rosso Malpelo ha della morte. Le leggende sulla miniera, il ricordo di chi vi era entrato e spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo (rr. 283-284) e il buio nelle viscere della terra fanno sedimentare nel suo animo un’angoscia incombente, che le morti del padre, dell’asino e di Ranocchio accrescono in modo sinistro. Né il ragazzo fa nulla per liberarsene, anzi: il compiacimento macabro che lo porta ripetutamente alle pendici della sciara a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone (rr. 258-259) sembra assecondare un’inconsapevole vocazione alla morte. Non a caso l’immagine del minatore smarrito gli si riaffaccia alla mente come una sorta di presagio e allo stesso tempo come un invito a non sottrarsi al destino. Quando si tratta di avventurarsi in una difficile ispezione nella cava, egli non rifiuta l’incarico: obbedendo a un intimo desiderio di annullamento, si perde nei cunicoli di sabbia per fuggire lontano dalla violenza del mondo, lasciando di sé soltanto un inquietante e infausto alone di leggenda.

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Le scelte stilistiche

Verga delinea la tragica visione del mondo del suo protagonista rinunciando a ogni interferenza personale. Per questo affida la rappresentazione emotiva e caratteriale di Rosso Malpelo alla comunità dei paesani, dei familiari e dei minatori, di cui assume il punto di vista, secondo quel procedimento di “delega” della narrazione a un soggetto rappresentativo dell’ambiente dei personaggi che è una delle principali innovazioni tecniche realizzate dal Verismo. Il narratore, cioè, regredisce al loro livello, assumendone acriticamente i pregiudizi e la mentalità. È proprio dal coro paesano che conosciamo il marchio negativo impresso sul ragazzo, di cui i capelli rossi sono, per così dire, il suggello superstizioso: Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone (rr. 1-2). In tal modo il carattere malvagio del protagonista viene legato al suo aspetto fisico. La voce narrante ci presenta dunque un personaggio cattivo e “comprensibilmente” emarginato.

Al tempo stesso, tuttavia, l’ostilità di tale giudizio viene introdotta per sviluppare un procedimento che lo mette in discussione e ne prende le distanze: ricorrendo a un processo di straniamento (che determina uno scarto tra l’opinione del narratore e quella, implicita, dell’autore), Verga non intende davvero accreditare la fondatezza del pregiudizio del popolo, ma al contrario mostrarne l’ottusità e l’ignoranza. Starà al lettore capovolgere il punto di vista del narratore e cogliere nei comportamenti di Malpelo non una cattiveria gratuita, ma la logica lucida e disperata con cui affronta la vita. L’eroe malvagio o il demone infernale che, secondo le fantasticherie dei ragazzi della cava, può ricomparire sottoterra con i suoi capelli rossi e gli occhiacci grigi (r. 402) si tramuta, nella coscienza di chi legge, in un personaggio dai gesti umanissimi e dal grande affetto filiale. Anzi, quanto più le parole del narratore esprimono una concezione del mondo rigida e rozza, che deforma la realtà e le motivazioni del comportamento di Rosso Malpelo, tanto più il personaggio si rivela nella sua acuta sensibilità e nel suo quasi eroico atteggiamento nei confronti della vita. Emblematica, per esempio, è la sua scelta di percorrere fino in fondo il proprio destino di morte piuttosto che continuare ad accettare un’esistenza invivibile, soggetta al bieco sfruttamento da parte del padrone.
Il linguaggio adottato da Verga nella novella rispecchia un canone a cui l’autore vincolerà tutta la produzione verista. Si tratta di una forma mista di italiano colto ed espressioni dialettali (nell’uso della sintassi più che del lessico): una commistione che vuole dare un “tono locale” alla narrazione evitando l’adozione del dialetto vero e proprio (non a caso, proverbi o termini che il pubblico nazionale non conosce vengono evidenziati con il corsivo). Per accentuare la verosimiglianza linguistica del testo e imitare il parlato popolare, Verga ricorre al “che” polivalente* (mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, rr. 42-43), al frequente uso di “gli” o “le” pleonastico (e cotesto al padrone gli seccava assai, r. 24; a mio padre gli dicevano Bestia, r. 112 ecc.), al discorso indiretto libero* e a un meccanismo molto efficace. Si tratta della “concatenazione”, grazie alla quale una delle ultime parole o espressioni del periodo precedente viene ripresa all’inizio di quello successivo (mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. Era morto così, rr. 25-26; «Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre». Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, rr. 36-38; «… tu ci andrai e ci lascerai le ossa». Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, rr. 381-382 ecc.): un artificio che accentua la tendenza all’imitazione e permette di tornare ossessivamente sugli stessi vocaboli e sulle stesse frasi, sottolineando l’immutabilità di una condizione umana che si ripete sempre uguale, senza possibilità di riscatto.

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Vicende come quelle di Rosso Malpelo erano all’ordine del giorno nella Sicilia del tempo. L’autore, oltre a conoscerle direttamente, ne aveva letto sulle pagine della famosa inchiesta parlamentare di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, pubblicata nel 1877, che dedicava ampio spazio alla piaga del lavoro minorile ( p. 162). L’attenzione alla cronaca e alla documentazione, tuttavia, non deve far passare in second’ordine la qualità letteraria del testo, ricco di echi e riferimenti intertestuali. Significativi, per esempio, sono i rimandi all’Inferno dantesco, che sottintendono la comunanza del destino dei minatori con quello dei dannati. Quando Malpelo descrive a Ranocchio il labirinto dei cunicoli della cava, fa riferimento ai lavoratori che prima o poi si perderanno in esso senza poter udire le strida disperate dei figli (rr. 214-215), con un’espressione che richiama le parole usate da Virgilio per descrivere a Dante l’oltretomba infernale («ove udirai le disperate strida», I, 115). Precedentemente, quando Malpelo racconta di avere sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano (rr. 208-209), la scena fa venire alla mente il paterno gesto di Virgilio che prende per mano Dante al momento del suo ingresso nell’Inferno («E poi che la sua mano a la mia puose», III, 19). Il buco nero della miniera può essere assimilato alla «valle d’abisso» che Dante definisce «oscura e profonda» (IV, 10). Quello dantesco, però, è un inferno dei morti e dei peccatori; Verga, invece, descrive un inferno dei vivi, dove la morte rappresenta al tempo stesso una condanna ma anche una liberazione.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto della novella in circa 15 righe.


2 Prima di quella di Malpelo, la novella è scandita da tre morti: quali?


3 Concentrando la tua attenzione sulla “lezione” che Rosso Malpelo impartisce a Ranocchio, sintetizza la sua filosofia di vita.


4 Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai (rr. 168-169). Che significato ha questa frase? Quale immagine restituisce del rapporto che intercorre tra Malpelo e sua madre? Com’è, invece, il rapporto di Ranocchio con la madre?

ANALIZZARE

5 Nel primo periodo troviamo la presenza di due perché. Spiega il loro diverso significato logico.


6 Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo (rr. 386-387). Sangue suo è una figura retorica: quale?

  • a Catacresi.
  • b Metafora.
  • c Sineddoche.
  • d Paronomasia.


7 Trova nel testo almeno due esempi di discorso indiretto libero e trasformali in discorso diretto.


8 Individua parole ed espressioni dialettali riconducibili all’ambiente siciliano.


9 Rintraccia nel testo i paragoni e le metafore che assimilano il protagonista a una bestia e al diavolo.


10 Nella novella, la fabula e l’intreccio coincidono oppure Verga utilizza flash back e anticipazioni?


11 Secondo un costume tipicamente popolare, le persone vengono chiamate con un soprannome, che ne fissa un carattere o una peculiarità. Individua i soprannomi dei personaggi e spiegane il possibile significato.


12 La novella annovera dieci personaggi, alcuni oppressori di Malpelo, altri oppressi come lui. Individuali e indica il loro ruolo riempiendo la seguente tabella.


 Oppressori

Oppressi


 


 


 
   
   
   
   

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INTERPRETARE

13 Perché verso la fine del racconto viene inserito l’episodio dell’evaso? Che cosa intuisce Malpelo dalle parole di questo personaggio?


14 Nella novella Verga ricorre molto spesso all’uso dei colori. Quali sono quelli principali e quale valore simbolico è possibile attribuire loro?

COMPETENZE LINGUISTICHE

15 Pur senza ricorrere al dialetto, Verga utilizza un linguaggio caratterizzato da un lessico e da una sintassi popolare. Trova un corrispettivo in italiano standard per i seguenti termini presenti nella novella.


sciancato gabbare minchione crepare • busse scapaccioni di soppiatto • ruzzare rimpiccolire impiccio

Produrre

16 Scrivere per argomentare. Capovolgendo l’opinione del coro paesano, sostieniin un testo argomentativo di circa 20 righele ragioni per le quali Malpelo è anche capace digesti di bontà e generosità.

Dibattito in classe

17 La piaga del lavoro minorile, purtroppo, non è affatto scomparsa: anzi, è diffusa in numerosi paesi del mondo, soprattutto in Africa, in Asia e in Sudamerica; anche in Italia, tuttavia, esistono ancora realtà in cui i bambini vengono sfruttati. Svolgi una ricerca su questo importante tema, aiutandoti con i dati che trovi in Rete. Confronta con i tuoi compagni le informazioni raccolte e discutetene in classe.

Per approfondire L’inchiesta di Franchetti e Sonnino e i “carusi”

Le novelle di Vita dei campi, a partire da Rosso Malpelo, e la successiva stesura dei Malavoglia, sono anche il frutto della collaborazione prestata da Verga ai gruppi politici più attenti e sensibili che in quegli anni avevano posto all’attenzione del dibattito pubblico la cosiddetta “questione meridionale”.

Tra questi si segnalarono in particolare la capacità analitica e l’azione riformatrice di alcuni ambienti della Destra storica, uniti intorno alle figure di due aristocratici, esperti di problemi agrari: Leopoldo Franchetti (1847-1917) e Sidney Sonnino (1847-1922). Nell’autunno del 1873 e in quello del 1874, il primo aveva perlustrato a cavallo le province continentali del Mezzogiorno per verificare di persona una realtà che si sosteneva fosse conosciuta meglio dai viaggiatori stranieri che dalla classe dirigente italiana. Ne aveva tratto, oltre che il volume Condizioni economiche ed amministrative delle provincie napoletane (1875), la convinzione della necessità di allargare il campo delle conoscenze mediante un’inchiesta parlamentare. Nel 1876 compì dunque con Sonnino un secondo viaggio, questa volta in Sicilia, dal quale nacquero i due volumi, editi nel 1877, dal titolo La Sicilia nel 1876. Uno dei problemi indagati con maggiore attenzione era quello relativo allo sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di zolfo: grazie all’osservazione diretta, ma anche a testimonianze raccolte sul campo, gli autori documentarono – non senza accenti di umana pietà – le condizioni di vita dei ragazzi lavoratori, i “carusi”, in pagine che costituiranno per Verga fonti preziose.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento