T18 - Il «sugo di tutta la storia»

T18

Il «sugo di tutta la storia»

Cap. 38

Celebrate finalmente le nozze, i due sposi lasciano il lecchese e si stabiliscono al di là dell’Adda, presso il paese dove Renzo si era rifugiato una volta abbandonata Milano. Qui però una serie di commenti malevoli sulla modesta bellezza di Lucia amareggia la vita del giovane. Quando si presenta l’occasione di rilevare un filatoio alle porte di Bergamo, in società con il cugino Bortolo, egli non esita e si trasferisce. La coppia trova finalmente la pace tanto desiderata, e si dispone a ragionare sul senso da attribuire alle proprie peripezie. Estratto il sugo di tutta la storia, il narratore può chiudere il romanzo.

Non crediate però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì. L’uomo (dice il

nostro anonimo: e già sapete per prova1 che aveva un gusto un po’ strano in fatto

di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima), l’uomo,

fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o

5       meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura

che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel

nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca2 che lo punge, lì un bernoccolo

che lo preme: siamo in somma, a un di presso,3 alla storia di prima. E per questo,

soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si

10    finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani,4 e proprio da secentista;5

ma in fondo ha ragione. Per altro, prosegue, dolori e imbrogli della qualità e

della forza di quelli che abbiam raccontati, non ce ne furon più per la nostra buona

gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle

più invidiabili; di maniera che, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte.

15    Gli affari andavan d’incanto: sul principio ci fu un po’ d’incaglio6 per la scarsezza

de’ lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni7 de’ pochi ch’eran rimasti.

Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest’aiuto,

le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò

da Venezia un altro editto, un po’ più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da

20    ogni carico reale e personale8 ai forestieri che venissero a abitare in quello stato.

Per i nostri fu una nuova cuccagna.

Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e,

come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua

magnanima promessa,9 fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria.

25    Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese

affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e

stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E

furon tutti ben inclinati;10 e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo

che, giacché la c’era questa birberia11, dovevano almeno profittarne anche loro.

30    Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le

gran cose che ci aveva imparate, per governarsi12 meglio in avvenire. «Ho imparato», 

diceva, «a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza:

ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito:13

ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte,14 quando c’è lì d’intorno

35    gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede,15

prima d’aver pensato quel che possa nascere». E cent’altre cose.

Lucia però, non che trovasse la dottrina16 falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le

pareva, così in confuso,17 che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa

canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io», disse un giorno al suo moralista,18

40    «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che

sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire», aggiunse, soavemente sorridendo,

«che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi».

Renzo, alla prima, rimase impicciato.19 Dopo un lungo dibattere e cercare insieme,

conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione;20 ma

45    che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando

vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili

per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa

così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo21 di tutta la storia.

La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche

50    un pochino a chi l’ha raccomodata.22 Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi,

credete che non s’è fatto apposta.

 >> pagina 913 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Alla fine dei Promessi sposi il malvagio muore, mentre i due protagonisti riescono a sposarsi e di lì in poi conducono un’esistenza serena e operosa. Manzoni appronta un lieto fine, che tuttavia – come ha scritto il critico Ezio Raimondi – non scivola nell’idillio. Un simile esito infatti sarebbe stato in contrasto con la concezione cristiana dell’esistenza, per la quale non è possibile sperimentare il paradiso in Terra, ma anche con gli eventi vissuti da Renzo e Lucia, che hanno scoperto a loro spese come non vi sia luogo o comportamento in grado di mettere per sempre al sicuro dal male.

La conclusione del romanzo non riporta i personaggi alla casella di partenza, secondo uno schema circolare. Renzo e Lucia decidono di abbandonare il paese dove tanto hanno patito, ma la prima meta si rivela inferiore alle aspettative. Solo con il secondo trasferimento trovano un equilibrio soddisfacente, per quanto non privo di qualche fastidiuccio (r. 1). Di più non si può chiedere, perché è nella natura dell’uomo l’incontentabilità, come osserva l’anonimo, che si avventura in un paragone con il malato che trova il letto scomodo. Il narratore, di solito ironico nei suoi confronti, stavolta concorda esplicitamente con la morale secondo cui si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio (rr. 9-10).

 >> pagina 914 
Manzoni non insiste sulla rappresentazione della felicità domestica, convinto che seccherebbe a morte (r. 14) i lettori, ma precisa come da operaio Renzo riesca a trasformarsi in piccolo imprenditore, rilevando e conducendo alla prosperità un filatoio, con l’aiuto di un beneficio fiscale decretato dalla Repubblica di Venezia. Emerge così chiaramente l’ideologia cattolico-liberale dello scrittore milanese, rilevabile anche sul versante educativo, dove la lotta contro la piaga dell’analfabetismo si traduce nella volontà di Renzo di istruire i figli, nella convinzione che l’ignoranza favorisca i soprusi. È, questo, uno dei molti insegnamenti ricavati dall’esperienza, che si aggiunge a quelli elencati nel lungo elenco di divieti appresi: non farsi coinvolgere nei tumulti, non predicare in piazza, non ubriacarsi, e così via. È un Renzo molto diverso dal giovane che all’inizio del romanzo meditava di farsi giustizia da sé: un uomo cauto, conscio che la violenza e la ribellione non portano a nulla, incapace però di ricavare una morale che vada al di là delle sue vicende personali.
Insoddisfatta dei ragionamenti del marito, Lucia osserva che i guai spesso colpiscono anche chi, come lei, non ha fatto nulla per procurarseli, per cui le spiegazioni di Renzo non sono sufficienti. Insieme concludono che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore (rr. 45-47). È questo il sugo di tutta la storia (r. 48). Al male non c’è riparo, ma la fede in Dio trasforma inesplicabili disgrazie in prove da superare per accedere alla felicità eterna: solo la religione può rendere il dolore accettabile.

Le scelte stilistiche

Nel finale del romanzo il narratore fa sentire la propria presenza con particolare intensità, utilizzando in dosi massicce la consueta ironia. Evita di proporre un’interpretazione personale della vicenda, ma commenta puntualmente le riflessioni di Renzo, di Lucia e prima ancora dell’anonimo. Il gioco di specchi con quest’ultimo dura sino al congedo, quando Manzoni lo chiama a dividere con lui gli applausi, in un saluto ai lettori a sipario chiuso: vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata (rr. 49-50). Ma è davvero finita la storia? Nella “quarantana”, alle ultime righe del romanzo fa riscontro nella pagina successiva l’inizio della Storia della colonna infame, legata al romanzo da un nesso inestricabile: solo alla sua conclusione Manzoni fa scrivere la parola «Fine».

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Perché l’esenzione dalle tasse decisa a Venezia è una cuccagna (r. 21)?


2 Perché Lucia non è soddisfatta dai racconti di Renzo?

Analizzare

3 Spiega la similitudine dell’infermo che apre il brano e che Manzoni attribuisce all’anonimo.


4 Il brano presenta un registro ironico: individua le espressioni e le parole più significative di tale registro.

Interpretare

5 L’anonimo, Renzo e Lucia si sforzano di ricavare una morale dalla storia. Con quali interpretazioni il narratore concorda maggiormente?

Produrre

6 Scrivere per esporre. Concludere una narrazione in modo efficace è una vera e propria arte: pensa ad altri esempi di opere letterarie o artistiche in generale (per esempio, film e canzoni) che hanno un finale “memorabile” e parlane in un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento