T10 - I bravi minacciano don Abbondio

T10

I bravi minacciano don Abbondio

Cap. 1

È l’inizio del romanzo. Il narratore dapprima descrive lo scenario della vicenda, tratteggiando un pittoresco paesaggio lombardo, incastonato fra le montagne e il lago di Como; poi fa entrare in scena don Abbondio, un parroco di campagna che la sera del 7 novembre 1628, di ritorno da una passeggiata, si trova di fronte due loschi figuri che hanno in serbo per lui una grave minaccia.

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno,1 tra due catene non interrotte

di monti,2 tutto a seni3 e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di

quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra

un promontorio a destra, e un’ampia costiera4 dall’altra parte; e il ponte, che ivi

5      congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione,

e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi

nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e

rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre

grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui,5 l’uno detto di san Martino,

10    l’altro, con voce6 lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in

vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia

di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione,

non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli

altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.7 Per un buon pezzo, la

15    costa8 sale con un pendìo lento e continuo;9 poi si rompe in poggi e in valloncelli,

in erte e in ispianate,10 secondo l’ossatura11 de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il

lembo estremo,12 tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni;

il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali;13 in qualche parte boschi,

che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà

20    nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla14 riva del lago, anzi viene in

parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa:15 un gran borgo al giorno

d’oggi, e che s’incammina16 a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che

prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello,17 e

aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una

25    stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e

alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a

qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne,

per diradar l’uve,18 e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una

all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono

30    tuttavia,19 strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate,

sepolte tra due muri, donde,20 alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di

cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la

vista spazia per prospetti21 più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa

nuovi,22 secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante,

35    e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce

a vicenda.23 Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e

variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito

in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra

altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti,

40    co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora,

che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur24 tra’ monti che l’accompagnano,

degradando25 via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso

da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di

cui passeggiate le falde,26 vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze,27

45    distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi

ciò che v’era sembrato prima un sol giogo,28 e comparendo in vetta ciò che poco

innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico29 di quelle falde

tempera30 gradevolmente il selvaggio, e orna vie più31 il magnifico dell’altre vedute.

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello32 dalla passeggiata verso casa,

50    sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato33 d’una

delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non

si trovan nel manoscritto, né a questo luogo34 né altrove. Diceva tranquillamente

il suo ufizio,35 e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario,36 tenendovi

dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro

55    la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un

piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il

viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte,

dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi37 del monte opposto,

si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora.38

60    Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio,39 giunse a

una voltata40 della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e

di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada

correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia41

d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura:42 l’altra

65    scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che

all’anche del passeggiero.43 I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad

angolo, terminavano in un tabernacolo,44 sul quale eran dipinte certe figure lunghe,

serpeggianti, che finivano in punta,45 e che, nell’intenzion dell’artista, e agli

occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme,

70    cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire46 anime del purgatorio:

anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo,47 con qualche

scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando,48 com’era solito,

lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe

voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente,49

75   per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso,

con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della

strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul

petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si

poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.

80    Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero50 sinistro,

terminata in una gran nappa,51 e dalla quale usciva sulla fronte un enorme

ciuffo: due lunghi mustacchi52 arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e

a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,53 cascante sul

petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino

85    degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia54 traforata

a lamine d’ottone, congegnate come in cifra,55 forbite56 e lucenti: a prima vista si

davano a conoscere57 per individui della specie de’ bravi.

[…]

[Una digressione storica chiarisce come i bravi fossero dei soldatacci al servizio dei nobili,

che nella società del tempo godevano di un’impunità pressoché totale, nonostante i provvedimenti

presi contro di essi dal governo spagnolo.]


Che i due descritti di sopra stessero ivi58 ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo

evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per

90    certi atti,59 che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in

viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un

tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua

gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro.

Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva

95    lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio

incontro, fu assalito a un tratto60 da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se

stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e

gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche

potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio61

100 consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano,

guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come

per raccomodarlo;62 e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia

all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin

dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata,

105 al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta63 sulla strada

dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo:64

darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare

il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così

penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò

110 un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté,

fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini,65

disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.

«Signor curato», disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.

«Cosa comanda?», rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che

115 gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.

«Lei ha intenzione», proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi

coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia,66 «lei ha intenzione di

maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!».

«Cioè...», rispose, con voce tremolante, don Abbondio: «cioè. Lor signori son

120 uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato

non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come

s’anderebbe a un banco67 a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune».68

«Or bene», gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando,

«questo matrimonio non s’ha da69 fare, né domani, né mai».

125 «Ma, signori miei», replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di

chi vuol persuadere un impaziente, «ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’

miei panni. Se la cosa dipendesse da me... vedon bene che a me non me ne vien

nulla in tasca...».70

«Orsù», interruppe il bravo, «se la cosa avesse a decidersi a ciarle,71 lei ci metterebbe

130 in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito...

lei c’intende».

«Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...»

«Ma», interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin

allora, «ma il matrimonio non si farà, o...», e qui una buona bestemmia, «o chi lo

135 farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...», un’altra bestemmia.

«Zitto, zitto», riprese il primo oratore:72 «il signor curato è un uomo che sa il viver

del mondo;73 e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché

abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la

riverisce caramente».

140 Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte74 d’un temporale

notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti,

e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: «Se mi sapessero

suggerire...».

«Oh! suggerire a lei che sa di latino!»,75 interruppe ancora il bravo, con un riso

145 tra lo sguaiato e il feroce. «A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo

avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm.... sarebbe lo stesso

che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo

signor don Rodrigo?»

«Il mio rispetto...»

150 «Si spieghi meglio!»

«... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza». E, proferendo queste parole,

non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero,

o mostraron di prenderle nel significato più serio.

«Benissimo, e buona notte, messere»,76 disse l’un d’essi, in atto di partir col

155 compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio

per iscansarli,77 allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative.

«Signori...», cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più

dargli udienza,78 presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando

una canzonaccia che non voglio trascrivere.79 Il povero don Abbondio rimase

160 un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette

che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che

parevano aggranchiate.80

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Dopo un’iniziale sequenza descrittiva (su cui torneremo a proposito dello stile), il primo a capo segnala l’inizio di una nuova sequenza, di taglio prettamente narrativo. Una delle stradicciole (r. 49) vede la presenza di un pacifico parroco di campagna, che torna bel bello (r. 49) da una passeggiata. Il nome del prete, Abbondio (frequente in quelle zone), suggerisce un’idea di calma e bonarietà: sennonché la precisa indicazione cronologica – è la sera del 7 novembre 1628 – riporta ai tempi cupi della dominazione spagnola.

In quella via, e in quella giornata, sta per avviarsi la faccenda su cui verte l’intero romanzo. Ma don Abbondio lo ignora: avanza per la sua strada al tramonto, recitando come di consueto le preghiere. Gli avverbi (tranquillamente, r. 52; oziosamente, r. 57) sottolineano la situazione di routine, che si incrina solo quando, alzati gli occhi verso un crocicchio, vede due uomini fermi in attesa, nei pressi di un tabernacolo. La scena è condotta secondo il suo punto di vista: il prete si accorge subito del loro atteggiamento ambiguo e dell’aspetto poco rassicurante. Ben curati nella persona, a partire dai baffi arricciati e dal ciuffo, portano indosso, in bella vista, una serie di armi, a modo loro eleganti: le pistole attaccate al lucido cinturone di cuoio, il corno con la polvere da sparo pendente sul petto come una collana, il coltello che spunta dagli ampi e gonfi calzoni (r.  5), lo spadone dalla splendida guardia, traforata a lamine d’ottone (rr. 85-86). Sono due bravi: cioè due uomini appartenenti a una delle tante milizie private messe in piedi dai nobili del Seicento, perfetti rappresentanti di un’epoca caratterizzata dal dilagare della violenza e dal gusto dell’esibizione sfarzosa.

A questo preciso ritratto Manzoni aggiunge una digressione storica, che spiega la presenza di questi individui nella società lombarda del XVII secolo, e nel contempo accresce la suspense nel lettore, impaziente di scoprire cosa ci stiano a fare, in una stradicciola di campagna. Quando si ritorna alla narrazione il punto di vista è sempre quello di don Abbondio, che si rende conto di essere atteso. I due si guardano fra loro e gli si fanno incontro. Il parroco si guarda intorno ma non ha vie d’uscita, né persone alle quali chiedere aiuto. È disarmato e solo, come rimarca la triplice anafora di nessuno (rr. 104, 105, 106). Decide allora di affrettare il passo, e dissimulare la paura che lo pervade.

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Ci siamo (r. 112), dice mentalmente don Abbondio quando si trova di fronte i due bravi. “Ci siamo”, potrebbe ripetere il lettore, che si trova di fronte al momento chiave del romanzo, in cui l’ingiustizia dei tempi si concretizza in un episodio preciso. Inizia infatti un dialogo nel quale compare l’ostacolo che mette in moto la vicenda: i bravi gli vietano di celebrare le nozze fra i due promessi sposi, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella (questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai, r. 124). Il parroco non si ribella, né difende i diritti dei due malcapitati, anzi li accusa di aver fatto i loro pasticci (r. 121) senza pensare a nient’altro. Subito dopo precisa di non avere alcun interesse materiale nella questione: a me non me ne vien nulla in tasca (rr. 127-128).

Affiora così il carattere vigliacco e volgare di don Abbondio, in dubbio sul da farsi, come evidenzia la frequenza di frasi lasciate a mezzo e chiuse con i puntini, che troviamo nelle battute dei bravi solo per intimidire: Uomo avvertito… (r. 130). I due sgherri ricorrono piuttosto a frasi esclamative. L’uno apre la bocca per sbraitare bestemmie e minacce, l’altro – sprezzante e sarcastico – porge un saluto per conto dell’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone (r. 138). Don Abbondio capisce al volo, e si profonde in un inchino istintivo al mandante, un pericoloso signorotto locale che conosce di fama. Il dialogo, iniziato con un formale cosa comanda? (r. 114), si conclude con una professione di “ubbidienza” che lascia soddisfatti i bravi. Le figure sacre del tabernacolo sono testimoni del tradimento di don Abbondio, che invece di restare fedele ai doveri imposti dal suo ruolo si piega alla legge della violenza. Questo parroco, commenta poco oltre il narratore con un’ironica litote, «non era nato con un cuore di leone».

Le scelte stilistiche

Lo scenario della vicenda, nei primi capitoli dei Promessi sposi, è il pittoresco paesaggio dei borghi sul versante orientale del lago di Como, stretti fra l’acqua e le montagne. Dove terminano golfi e insenature, le sponde si stringono e sorge il ponte di Lecco: là punta lo sguardo del narratore, che percorre minuziosamente il panorama dall’alto, quasi fosse in volo, o lo esaminasse su una carta geografica dettagliata; poi si distanzia, sino a immaginare un osservatore che da Milano riconosca l’inconfondibile profilo frastagliato del Resegone. Ma subito la prospettiva si riavvicina e mette a fuoco la città di Lecco, precisando che la storia si svolge in tempi lontani, quando la Lombardia era sotto il giogo degli spagnoli, sui quali viene espresso un giudizio fortemente negativo.

Emerge così il tema dell’ingiustizia, che sarà cruciale nel romanzo, temperato spesso dall’ironia, come avviene già qui, quando si dice che i soldati insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre (rr. 25-27) e saccheggiavano in autunno le vigne, per alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia (r. 28). Dopodiché il narratore torna alla descrizione dei luoghi, concentrandosi sulle stradine che s’intersecano a mezza collina, offrendo magnifici scorci del lago, con i paesetti che vi si riflettono capovolti. Ogni riga lascia intuire l’ammirato affetto di Manzoni, che in quelle terre trascorse buona parte dell’infanzia.

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Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Dividi il brano letto in quattro sequenze principali, dando a ciascuna un titolo e indicando di che tipo sono.


2 A quale manoscritto si fa riferimento alla riga 52?


3 Da quali segni don Abbondio comprende che i due bravi stavano aspettando proprio lui?


4 Qual è la prima reazione di don Abbondio alla vista dei bravi?

ANALIZZARE

5 Individua, nella sequenza descrittiva iniziale, almeno un esempio delle seguenti figure retoriche:

a) anafora;

b) poliptoto;

c) allitterazione.


6 La descrizione iniziale è costruita su numerose antitesi? Quali riesci a individuare? Rispondi facendo opportuni esempi.


7 Quali caratteristiche di don Abbondio emergono dalla sua descrizione? Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo.


8 Nel colloquio con don Abbondio, i due bravi fanno grande uso della strategia della reticenza: in quali punti? Che scopo ha questa strategia?

INTERPRETARE

9 A proposito del matrimonio che non s’ha da fare (r. 124), don Abbondio dice ai bravi: Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune (rr. 120-122). Quale concezione dell’amore e del ruolo del sacerdote emergono da queste parole di don Abbondio? Esponi le tue considerazioni.


10 Dalla descrizione iniziale e dal comportamento dei bravi, quale giudizio emerge sul dominio spagnolo in Italia e sul modo in cui esso gestisce il potere?


11 Quali sono i motivi per cui, secondo te, Manzoni fa così spesso ricorso all’arma dell’ironia? Quali scopi si propone?


12 Per quale motivo, a tuo giudizio, il narratore si esprime con apparente, indulgente bonarietà, quando evidenzia le miserie morali di don Abbondio?

Produrre

13 Scrivere per rielaborare. Ricostruisci in circa 15 righe e in forma indiretta il dialogo tra il curato e i bravi.


14 Scrivere per raccontare. Riscrivi il passo in cui il narratore descrive la dominazione spagnola, ma con aspri toni di denuncia, facendo emergere chiaramente le prevaricazioni e le prepotenze subite dalla popolazione.


15 Scrivere per argomentare. Chi sono, oggi, i “bravi” e perché? Argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento