T5 - Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti (Adelchi)

T5

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti

Adelchi, coro dell’atto III

Posto alla fine del terzo atto, è il primo dei due cori della tragedia. I franchi invadono la Pianura padana, mettendo in fuga i longobardi, che da tempo vi spadroneggiavano. Le popolazioni italiche assistono ansiose nella speranza che la sconfitta degli antichi oppressori si traduca nella loro emancipazione. Ma la voce del coro si incarica di dissipare le illusioni: un padrone sostituisce l’altro e la libertà non può arrivare per mano straniera.

Composto in pochi giorni, nel gennaio del 1822, il testo venne sottoposto a un lungo lavoro di correzione per eliminare i riferimenti troppo espliciti alle strategie politiche della Restaurazione, che non avrebbero passato il vaglio della censura austriaca.


Metro 11 strofe di doppi senari, rimati AABCCB (la rima in B è sempre tronca).

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,

dai boschi, dall’arse fucine stridenti,

dai solchi bagnati di servo sudor,

un volgo disperso repente si desta;

5      intende l’orecchio, solleva la testa

percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

qual raggio di sole da nuvoli folti,

traluce de’ padri la fiera virtù:

10    ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto

si mesce e discorda lo spregio sofferto

col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante

per torti sentieri, con passo vagante,

15    fra tema e desire, s’avanza e ristà;

e adocchia e rimira scorata e confusa

de’ crudi signori la turba diffusa,

che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,

20    irsuti per tema le fulve criniere,

le note latebre del covo cercar;

e quivi, deposta l’usata minaccia,

le donne superbe, con pallida faccia,

i figli pensosi pensose guatar.

25    E sopra i fuggenti, con avido brando,

quai cani disciolti, correndo, frugando,

da ritta, da manca, guerrieri venir:

li vede, e rapito d’ignoto contento,

con l’agile speme precorre l’evento,

30    e sogna la fine del duro servir.

Udite! quei forti che tengono il campo,

che ai vostri tiranni precludon lo scampo,

son giunti da lunge, per aspri sentier:

sospeser le gioie dei prandi festosi,

35    assursero in fretta dai blandi riposi,

chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciâr nelle sale del tetto natio

le donne accorate, tornanti all’addio,

a preghi e consigli che il pianto troncò:

40    han carca la fronte de’ pesti cimieri,

han poste le selle sui bruni corsieri,

volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,

cantando giulive canzoni di guerra,

45    ma i dolci castelli pensando nel cor:

per valli petrose, per balzi dirotti,

vegliaron nell’arme le gelide notti,

membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,

50    per greppi senz’orma le corse affannose,

il rigido impero, le fami durâr:

si vider le lance calate sui petti,

a canto agli scudi, rasente agli elmetti,

udiron le frecce fischiando volar.

55    E il premio sperato, promesso a quei forti,

sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

d’un volgo straniero por fine al dolor?

Tornate alle vostre superbe ruine,

all’opere imbelli dell’arse officine,

60    ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,

col novo signore rimane l’antico;

l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti;

65     si posano insieme sui campi cruenti

d’un volgo disperso che nome non ha.

 >> pagina 834

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Come spiega nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni nelle sue tragedie riprende dai modelli classici l’espediente dei cori, piegandoli però ad assumere una diversa funzione: ne fa dei «cantucci» che si riserva per commentare le vicende, sostituendo la propria voce a quella dei personaggi. In questa occasione, interrotta l’azione nel momento in cui i franchi trionfano, il poeta non propone in partenza una meditazione personale, ma ripercorre gli eventi adottando il punto di vista di una terza componente rimasta sinora nell’ombra, ovvero i popoli italici che assistono sbigottiti alla sconfitta dei loro signori longobardi (vv. 1-30).

In armonia con lo spirito evangelico, Manzoni concentra la propria attenzione sugli umili, in opposizione alla prospettiva della tragedia classica, per la quale si dovrebbero ritenere degne d’interesse soltanto le gesta di eroi e grandi personaggi. Egli realizza così, allo stesso tempo, gli obiettivi delineati nella lettera a Chauvet e nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica: completa cioè il nudo referto dei documenti storici integrandoli con i sentimenti di una massa di uomini passati sulla terra senza lasciare traccia. Il volgo disperso (vv. 4 e 66), le «genti meccaniche» che nell’Adelchi restano relegate nel coro del terzo atto balzeranno in primo piano nei Promessi sposi, in tutta la loro vitale individualità.

Il poeta si rivolge con forza agli italici, che fanno da spettatori al corso della Storia (vv. 31-66). In primo luogo propone un flash back* sulle rinunce, sulle fatiche e sui rischi affrontati dai franchi nel corso della campagna militare. Nel descrivere gli invasori giunti da Oltralpe, Manzoni a tratti sembra cedere al fascino della saga barbarica, ma in realtà l’insistenza sul loro coraggio e vigore risulta funzionale al passaggio successivo, in quanto essa alimenta l’interrogativo retorico rivolto agli italici: perché illudersi? A che pro sperare che un esercito straniero intervenga gratuitamente per restituire la libertà a un popolo che ha dimenticato le antiche glorie, ormai ridotto a volgo disperso in stato di schiavitù?

Incapaci di agire, gli italici non possono che assistere agli avvenimenti, con il cuore in tumulto. Ma questa è già una sconfitta: ancora una volta gli autentici vinti, al di là delle apparenze, sono loro. I longobardi, che non si sono mai fusi con le popolazioni locali (ma la storiografia moderna ha poi smussato questa tesi troppo netta), troveranno presto un accordo con i nuovi oppressori: col novo signore rimane l’antico; / l’un popolo e l’altro sul collo vi sta (vv. 62-63).

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In tal modo Manzoni lancia un evidente rimprovero ai patrioti a lui contemporanei, che – un millennio più tardi – si trovavano a fronteggiare situazioni non troppo dissimili. Tramontato il Regno d’Italia, satellite della Francia napoleonica, il ritorno degli Asburgo aveva dissipato molti generosi sogni d’autonomia. L’Adelchi, scritto all’indomani della repressione violenta con cui l’Austria aveva reagito ai moti del 1821, risente fortemente del clima di tensione che allora si respirava a Milano.

Le conseguenze politiche della Restaurazione e il dominio repressivo dell’Austria insegnano come libertà e rispetto si debbano conquistare con le proprie forze, ma non solo: le sconfitte dei carbonari sono le sconfitte di un progetto elitario, che non aveva cercato né trovato vasta condivisione popolare. Manzoni, indifferente al mito romantico dell’eroe solitario, ritiene invece che sia fondamentale suscitare il più possibile la volontà del popolo intorno all’idea di nazione. Il rinnovamento della società italiana e la conquista dell’indipendenza devono essere perseguiti da tutti gli italiani, non solo dagli intellettuali, ai quali pure spetta il compito di sensibilizzare l’opinione pubblica.

Le scelte stilistiche

L’uso di versi parisillabi quali i doppi senari*, in cui gli accenti sono fissi, conferisce al coro cadenze regolari e incalzanti, molto adatte a scene belliche e di folla. Questo ritmo, che mima l’andamento di una poesia popolare, ricalca i caratteri della ballata romantica. Se il lessico si mantiene su un registro elevato, con abbondante presenza di aulicismi (tema, desire, brandi, latebre, speme), scarseggiano tuttavia le perifrasi auliche, e soprattutto la sintassi appare molto lontana dalla tendenza all’uso delle subordinate secondo il costrutto latino tipica di poeti come Parini o Monti.

Alla semplicità della metrica fa riscontro infatti la semplicità della sintassi, in cui prevalgono le proposizioni coordinate per asindeto* (si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa, vv. 4-5), mai troppo estese: nessun periodo oltrepassa la misura della strofa. Insieme alle numerose figure della ripetizione (inaugurate dall’insistita anafora* dei primi tre versi), sono questi i mattoni su cui Manzoni costruisce i continui crescendo che danno al lettore l’impressione complessiva di una drammatica concitazione.

 >> pagina 836 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Sintetizza in 10-15 righe il contenuto informativo del testo.

Analizzare

2 Individua gli aggettivi e le espressioni utilizzate per descrivere i tre diversi popoli. Quali atteggiamenti e caratteristiche di ciascuno emergono?


3 Quale similitudine viene usata nella quarta e quinta strofa per descrivere la fuga dei Longobardi inseguiti dai Franchi? Che effetto produce?


4 Quali elementi ricordano la passata gloria e grandezza dei popoli Italici? A quale periodo storico si allude?


5 A chi si rivolge, in realtà, l’autore ai vv. 31 e 58?

Interpretare

6 Quale giudizio complessivo sulle popolazioni italiche emerge dal testo?


7 Confronta la situazione storica descritta nel brano con quella in cui scrive Manzoni: quali analogie e quali differenze cogli?

Produrre

8 Scrivere per argomentare. Quale pittore o disegnatore (anche di fumetti)a tuo parere potrebbe efficacemente ritrarre las cena a cui gli italici assistono? Spiega i motivi della tua scelta in un testo argomentativo di circa 20 righe.

5 Storia e Provvidenza

La letteratura e gli oppressi La meditazione sulla Storia ha un ruolo fondamentale in tutta l’opera creativa e saggistica di Manzoni, che a essa guarda per comporre tanto le due tragedie, Il conte di Carmagnola e Adelchi (ambientate la prima nel XV secolo, la seconda nell’VIII), quanto il romanzo I promessi sposi (situato nel XVII secolo). Dagli idéologues francesi frequentati in gioventù, lo scrittore milanese prende spunto per guardare al passato in modo non tradizionale. Lungi dal ridurre la Storia a celebrazione di imprese militari e di vicende politiche, egli mira a una ricostruzione più ampia, che non si limiti a proiettare in primo piano le gesta di principi e generali, ma tenga conto dell’esistenza di chi nel tempo si sia trovato a subire le ragioni della forza, dunque anche degli appartenenti alle classi più umili.

Questa impostazione, sottesa al disegno dei Promessi sposi, è chiaramente espressa da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, scritto e pubblicato a margine dell’Adelchi, nel 1822. Trovatosi dinanzi alla mancanza di testimonianze sulla vita degli italici durante la dominazione longobarda, ai fini di una rappresentazione corretta l’autore si dice convinto dell’esigenza di dar voce ai «desideri, i timori, i patimenti» di quei milioni di uomini che sulla Terra passarono senza lasciare traccia, come comparse invisibili e salgono adesso sul palcoscenico della letteratura e della storiografia.

«Far torto o patirlo» A ossessionarlo è la questione relativa alla presenza del male nella Storia, a causa del quale, in ultima analisi, nella vita terrena non vi è spazio per azioni nobili o disinteressate, ma solo per la violenza che divide il mondo in «oppressori» e «oppressi». Come dice con amarezza Adelchi, agli uomini «non resta / che far torto o patirlo».

La Grazia divina si presenta allora nei confronti degli eroi manzoniani sotto forma di «provida sventura», ovvero di una disgrazia terrena che li colloca fra gli «oppressi»: sconfitte e umiliazioni portano la salvezza eterna ad Adelchi, alla sorella Ermengarda, come anche a Napoleone nel Cinque maggio. Da buon cattolico, l’autore vede nella Storia il compimento del volere divino. La Provvidenza agisce in modo imperscrutabile, ma ciò non diminuisce d’altra parte le responsabilità degli uomini.

 >> pagina 837

La Storia della colonna infame La più alta e intensa riflessione di Manzoni su quest’ultimo punto è costituita dal saggio Storia della colonna infame, dove rifiuta le opinioni espresse da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura. Verri aveva ricondotto l’esito del processo agli untori che ebbe luogo nella Milano del 1630, devastata dalla peste, all’ignoranza diffusa in un’epoca violenta e alle leggi sbagliate, che giustificarono le torture e procurarono condanne ingiuste.

Manzoni, tornando sul medesimo processo, sostiene che ridurre quel risultato abominevole a «un effetto de’ tempi e delle circostanze» è inaccettabile per un credente. Il peso della responsabilità a suo parere ricade interamente sui giudici che punirono degli innocenti, calpestando ogni regola: «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa».

Il mistero della Grazia Al di là di ogni condizionamento, dunque, l’uomo risponde pienamente delle sue azioni. I comportamenti morali nei Promessi sposi sono ampiamente valutati e commentati, senza attenuanti. Nel romanzo la Provvidenza trasforma il male in una serie di prove che consentono di verificare e temprare la fede dei personaggi, che la chiamano in causa a più riprese, a differenza del narratore onnisciente che non la nomina mai esplicitamente.

T6

Sparsa le trecce morbide

Adelchi, coro dell’atto IV

Ripudiata da Carlo Magno, Ermengarda è stata relegata a Brescia, nel monastero di San Salvatore. La prima parte dell’atto quarto e il coro sono incentrati sull’inesorabile agonia della donna, vittima designata della ragion di Stato, che muore incolpevole, ricordando l’amore perduto dello sposo. Accudita dalle suore e confortata dalla presenza della sorella Ansberga, Ermengarda spira illuminata dalla luce della fede.


METRO Sestine di settenari, alternativamente sdruccioli e con il verso finale tronco, con schema di rime ABCBDE.

Sparsa le trecce morbide

sull’affannoso petto,

lenta le palme, e rorida

di morte il bianco aspetto,

5      giace la pia, col tremolo

sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime

s’innalza una preghiera:

calata in su la gelida

10    fronte, una man leggiera

sulla pupilla cerula

stende l’estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

15    leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

fuor della vita è il termine

del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile

20    era quaggiuso il fato:

sempre un obblìo di chiedere

che le saria negato;

e al Dio de’ santi ascendere

santa del suo patir.

25    Ahi! nelle insonni tenebre,

pei claustri solitari,

tra il canto delle vergini,

ai supplicati altari,

sempre al pensier tornavano

30    gl’irrevocati dì;

quando ancor cara, improvida

d’un avvenir mal fido,

ebbra spirò le vivide

aure del Franco lido,

35    e tra le nuore Saliche

invidiata uscì:

quando da un poggio aereo,

il biondo crin gemmata,

vedea nel pian discorrere

40    la caccia affaccendata,

e sulle sciolte redini

chino il chiomato sir;

e dietro a lui la furia

de’ corridor fumanti;

45    e lo sbandarsi, e il rapido

redir dei veltri ansanti;

e dai tentati triboli

l’irto cinghiale uscir;

e la battuta polvere

50    rigar di sangue, colto

dal regio stral: la tenera

alle donzelle il volto

volgea repente, pallida

d’amabile terror.

55    Oh Mosa errante! oh tepidi

lavacri d’Aquisgrano!

Ove, deposta l’orrida

maglia, il guerrier sovrano

scendea del campo a tergere

60    il nobile sudor!

Come rugiada al cespite

dell’erba inaridita,

fresca negli arsi calami

fa rifluir la vita,

65    che verdi ancor risorgono

nel temperato albor;

tale al pensier, cui l’empia

virtù d’amor fatica,

discende il refrigerio

70    d’una parola amica,

e il cor diverte ai placidi

gaudii d’un altro amor.

Ma come il sol che reduce

l’erta infocata ascende,

75    e con la vampa assidua

l’immobil aura incende,

risorti appena i gracili

steli riarde al suol;

ratto così dal tenue

80    obblìo torna immortale

l’amor sopito, e l’anima

impaurita assale,

e le sviate immagini

richiama al noto duol.

85    Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

nel suol che dee la tenera

90    tua spoglia ricoprir,

altre infelici dormono,

che il duol consunse; orbate

spose dal brando, e vergini

indarno fidanzate;

95    madri che i nati videro

trafitti impallidir.

Te dalla rea progenie

degli oppressor discesa,

cui fu prodezza il numero,

100 cui fu ragion l’offesa,

e dritto il sangue, e gloria

il non aver pietà,

te collocò la provida

sventura in fra gli oppressi:

105 muori compianta e placida;

scendi a dormir con essi:

alle incolpate ceneri

nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime

110 si ricomponga in pace;

com’era allor che improvida

d’un avvenir fallace,

lievi pensier virginei

solo pingea. Così

115 dalle squarciate nuvole

si svolge il sol cadente,

e, dietro il monte, imporpora

il trepido occidente:

al pio colono augurio

120 di più sereno dì.

 >> pagina 841

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Partendo dalla narrazione della vicenda storica, Manzoni s’inoltra nell’analisi dei sentimenti: da una parte l’ideale morale incarnato dalla virtù incontaminata dei principi Adelchi ed Ermengarda, dall’altra la realtà politica dominata dalla smania di potere del re longobardo Desiderio e del re franco Carlo Magno. Ermengarda appare come vittima incolpevole del potere politico e delle sue dinamiche, ma proprio il dolore che essa è costretta a subire la redime dalle colpe della sua gente, i Longobardi, che – prima dell’arrivo dei Franchi – hanno a lungo oppresso le popolazioni italiche.

Come spesso accade con le maggiori liriche manzoniane, anche questo testo, che rappresenta una pausa nello sviluppo narrativo della tragedia, può essere suddiviso in tre parti. La prima (vv. 1-24) è occupata dalla raffigurazione di Ermengarda morente, alla quale il poeta rivolge pietose parole di conforto: la terza strofa, attraverso l’apostrofe al personaggio (Sgombra, o gentil, dall’ansia / mente i terrestri ardori ecc., vv. 13-14 e ss.), segna il passaggio alla sezione più propriamente lirica del coro.

La seconda parte (vv. 25-60) illustra, dopo una strofa di raccordo e di commento (vv. 19-24), il dramma morale della donna, combattuta tra il desiderio di dimenticare il passato e il continuo ripresentarsi della memoria del suo amore per Carlo: le strofe dalla quinta alla nona (vv. 25-54) formano sintatticamente un unico periodo, costruito sull’affollarsi incalzante dei ricordi; le patetiche esclamazioni della decima strofa (vv. 55-60), in cui vengono rievocati i momenti di intimità dei bagni termali, segnano una più diretta immedesimazione del poeta con l’animo di Ermengarda.

Nella terza e ultima parte (vv. 85-120), dopo una lunga similitudine che occupa ben quattro strofe (vv. 61-84, Come rugiada al cespite / dell’erba inaridita ecc.), attraverso la ripresa (ai vv. 85-88) delle parole già in precedenza rivolte dal poeta a Ermengarda (vv. 13-16) viene sviluppato il motivo della provida sventura (vv. 103-104): lei, discesa dalla rea progenie (v. 97) degli oppressori, ora purificata dalla sofferenza (santa del suo patir, come era stato anticipato al v. 24) può morire compianta e placida (v. 105), con il volto finalmente rasserenato.

Tuttavia, a garantire la coerenza e la compattezza del testo, sono presenti diversi legami tra le varie parti: per esempio, oltre alla ripetizione dello stesso gruppo di versi (vv. 13-16 e 85-88), ai vv. 31 e 111 Ermengarda viene definita improvida, aggettivo al quale fa da contrappunto provida (v. 103) riferito alla sventura; al v. 51 è indicata come la tenera, aggettivo ripreso ai vv. 89-90 nel sintagma la tenera / tua spoglia.

Le scelte stilistiche

In passato gli interpreti hanno a lungo dibattuto sull’identità della voce che parla nel coro. A parlare sono le suore del convento bresciano di San Salvatore che accudiscono Ermengarda? Oppure è il poeta in prima persona? Si tratta, in realtà, di un falso dilemma: se sul piano drammatico, quello dell’azione scenica in senso stretto, a parlare possono essere le monache, su un piano poetico più profondo non c’è dubbio che Manzoni sovrappone la propria voce a quella delle donne, interloquendo intimamente con la sventurata Ermengarda. Il poeta esprime così i propri sentimenti di pietà e di compassione, innalzando il dramma terreno della donna a un livello trascendente, nell’ambito, cioè, di una riflessione sulla fede religiosa e sul significato che essa può conferire all’esito estremo di una vita umana tanto travagliata.

 >> pagina 842

Come in tutti i testi lirici manzoniani di maggior impegno morale e religioso, anche qui il tono è alto e solenne. Per esempio, spesso gli aggettivi sono anteposti ai sostantivi e molte volte collocati in posizione rilevata (alla fine del verso) tramite gli enjambement, che peraltro dilatano in un ritmo solenne la cadenza ritmata dei settenari: ansia / mente (vv. 13-14); candido / pensier (vv. 15-16); immobile / ... fato (vv. 19-20); insonni tenebre (v. 25); irrevocati dì (v. 30); vivide / aure (vv. 33-34); empia / virtù d’amor (vv. 67-68); placidi / gaudii (vv. 71-72); tenue / obblìo (vv. 79-80); provida / sventura (vv. 103-104); incolpate ceneri (v. 107). Ancora, in numerosi casi – attraverso l’artificio dell’inversione sintattica – il verbo è posto alla fine della frase (invidiata uscì, v. 36; trafitti impallidir, v. 96) e il complemento oggetto viene collocato prima del predicato (sempre un obblìo di chiedere, v. 21; il cor diverte, v. 71; l’anima / impaurita assale, vv. 81-82; le sviate immagini / richiama al noto duol, vv. 83-84; la tenera / tua spoglia ricoprir, vv. 89-90; lievi pensier virginei / solo pingea, vv. 113-114).

A impreziosire il dettato, al quale l’autore vuole evidentemente conferire movenze classicheggianti, sono da notare gli accusativi alla greca (già segnalati in nota) e i numerosi chiasmi nelle coppie aggettivo-sostantivo: trecce morbide [...] affannoso petto (vv. 1-2); insonni tenebre [...] claustri solitari (vv. 25-26); erba inaridita [...] arsi calami (vv. 62-63). Il lessico, poi, è ricco di latinismi: lenta (v. 3), aereo (v. 37), discorrere (v. 39), ansia come aggettivo (vv. 13 e 85), claustri (v. 26), redir (v. 46), tentati triboli (v. 47), orrida (v. 57), calami (v. 63), diverte (v. 71), rea progenie (v. 97), incolpate ceneri (v. 107).

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Perché al v. 36 Ermengarda viene detta invidiata?


2 Qual è l’altro amor di cui si parla al v. 72?


3 Quali sono le sviate immagini del v. 83?


4 Perché le vergini del v. 93 sono state indarno fidanzate (v. 94)?

ANALIZZARE

5 Il testo è articolato su tre piani temporali (passato, presente e futuro): evidenzia i tre momenti nelle diverse parti del testo.


6 Rintraccia nel coro ed elenca tutti gli aggettivi impiegati dal poeta in riferimento a Ermengarda. Quale immagine del personaggio ne scaturisce?


7 Individua nel testo almeno altri due esempi di chiasmo nelle coppie aggettivo-sostantivo oltre a quelli già segnalati nel nostro commento.


8 Quale figura retorica troviamo ai vv. 23-24 (e al Dio de’ santi ascendere / santa del suo patir)?

  • a Un chiasmo.
  • b Un poliptoto.
  • c Una metonimia.
  • d Un parallelismo.


9 Al v. 91 il verbo dormono è utilizzato per

  • a metafora. 
  • b sineddoche.
  • c eufemismo. 
  • d similitudine.

INTERPRETARE

10 Come possiamo spiegare l’immagine finale del coro (quella del sole che al tramonto squarcia le nuvole)? Quale può essere il suo valore simbolico?

COMPETENZE LINGUISTICHE

11 Individua nel testo almeno cinque esempi di participiocon valore verbale e trasformali nella corrispondentesubordinata. Segui l’esempio.


supplicati altari (v. 28) → altari dove sono stateinnalzate preghiere di supplica

Produrre

12 Scrivere per argomentare. Ha scritto Riccardo Bacchelli: «La morte d’Ermengarda, drammaticamente un episodio, anziun fuor d’opera, fa sbiadire il regio furore di Desiderio contro papa Adriano, la missione imperiale e sacra di Carlo, l’eroismo di Adelchi, grande, ma più elegiaco che drammatico». Commenta questo giudizio critico e spiega in che senso esso può essere più o meno condiviso.

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
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Dal Seicento al primo Ottocento