T1 - La morte di Saul (Saul)

T1

La morte di Saul

Saul, atto V, scene III-V

Siamo alle battute finali della tragedia. Mentre l’esercito di Israele combatte contro i Filistei, a Saul appaiono i fantasmi del profeta Samuele e del sacerdote Achimelech, che gli predicono l’imminenza della fine. Il re tenta invano di placarli, finché il generale Abner gli annuncia la sconfitta dei suoi soldati e la morte dei suoi figli maschi. È a questo punto che Saul riacquista per un attimo la lucidità perduta: affidata la figlia Micol ad Abner, affinché la ricongiunga al marito David, rifiuta di fuggire e si dà eroicamente la morte. 


METRO
 Endecasillabi sciolti.

Scena terza


Saul, Micol.

SAUL Ombra adirata, e tremenda, deh! cessa:

lasciami, deh!… Vedi: a’ tuoi piè mi prostro…

Ahi! dove fuggo?… – Ove mi ascondo? O fera

120 ombra terribil, plàcati… Ma è sorda

ai miei preghi; e m’incalza?… Apriti, o terra,

vivo m’inghiotti… Ah! pur che il truce sguardo

non mi saetti della orribil ombra…

MICOL Da chi fuggir? Niun ti persegue. O padre,

125 me tu non vedi? Me più non conosci?

SAUL O sommo, o santo sacerdote, or vuoi

ch’io qui mi arresti? O Samuél, già vero

padre mio, tu l’imponi? ecco, mi atterro

al tuo sovran comando. A questo capo

130 già di tua man tu la corona hai cinta;

tu il fregiasti; ogni fregio or tu gli spoglia;

calcalo or tu. Ma… la infuocata spada

d’Iddio tremenda, che già già mi veggo

pender sul ciglio,… o tu che il puoi, la svolgi

135 non da me, no, ma da’ miei figli. I figli,

del mio fallir sono innocenti…

MICOL                                            O stato,

cui non fu il pari mai! – Dal ver disgiunto,

padre, è il tuo sguardo: a me ti volgi…

SAUL                                                             Oh gioja!…

Pace hai sul volto? O fero veglio, alquanto

140 miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo,

se tu i miei figli alla crudel vendetta

pria non togli. – Che parli?… Oh voce! «T’era

David pur figlio; e il perseguisti, e morto

pur lo volevi». Oh! che mi apponi?… Arresta…

145 sospendi or, deh!… Davidde ov’è? si cerchi:

ei rieda; a posta sua mi uccida, e regni:

sol che a’ miei figli usi pietade, ei regni… –

Ma, inesorabil stai? Di sangue hai l’occhio;

foco il brando e la man; dalle ampie nari

150 torbida fiamma spiri, e in me l’avventi…

Già tocco m’ha; già m’arde: ahi! dove fuggo?…

Per questa parte io scamperò.

MICOL                                             Né fia,

ch’io rattener ti possa, né ritrarti

al vero? Ah! m’odi: or sei…

SAUL                                        Ma no; che il passo

155 di là mi serra un gran fiume di sangue.

Oh vista atroce! sovra ambe le rive,

di recenti cadaveri gran fasci

ammonticati stanno: ah! tutto è morte

colà: qui dunque io fuggirò… Che veggo?

160 Chi sete or voi? – D’Achimeléch siam figli.

«Achimeléch son io. Muori, Saulle,

muori». – Quai grida? Ah! lo ravviso: ei gronda

di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve.

Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra?

165 Tu, Samuél? – Che disse? Che in brev’ora

seco tutti saremo? Io solo, io solo

teco sarò; ma i figli… – Ove son io? –

Tutte spariro ad un istante l’ombre.

Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei?

170 Qual fragor odo? Ah! di battaglia parmi:

pur non aggiorna ancor: sì, di battaglia

fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta,

tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme,

l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo.

175 MICOL Padre, che fai? Ti acqueta… Alla tua figlia…

SAUL L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci.

L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli.

MICOL Io non ti lascio, ah! no…

SAUL                                                 Squillan più forte

le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando

180 basta solo. – Tu, scostati, mi lascia;

obbedisci. Là corro: ivi si alberga

morte, ch’io cerco.

Scena quarta


Saul, Micol, Abner con pochi soldati fuggitivi.

ABNER                       Oh re infelice!… Or dove,

deh! dove corri? Orribil notte è questa.

SAUL Ma, perché la battaglia…?

ABNER                                              Di repente,

185 il nemico ci assale: appien sconfitti

siam noi…

SAUL          Sconfitti? E tu, fellon, tu vivi?

ABNER Io? Per salvarti vivo. Or or qui forse

Filiste inonda: il fero impeto primo

forza è schivare: aggiornerà frattanto.

190 Te più all’erta quassù, fra i pochi miei,

trarrò…

SAUL     Ch’io viva, ove il mio popol cade?

MICOL Deh! vieni… Oimè! cresce il fragor: s’inoltra…

SAUL Gionata,… e i figli miei,… fuggono anch’essi?

Mi abbandonano?…

ABNER                        Oh cielo!… I figli tuoi,…

195 no, non fuggiro… Ahi miseri!…

SAUL                                              T’intendo:

morti or cadono tutti…

MICOL                               Oimè!… I fratelli?…

ABNER Ah! più figli non hai.

SAUL                                          – Ch’altro mi avanza?…

Tu sola omai, ma non a me, rimani. –

Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo:

200 e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo

de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi

in securtà.

MICOL        No, padre; a te dintorno

mi avvinghierò: contro a donzella il ferro

non vibrerà il nemico.

SAUL                              Oh figlia!… Or, taci:

205 non far, ch’io pianga. Vinto re non piange.

Abner, salvala, va: ma, se pur mai

ella cadesse infra nemiche mani,

deh! non dir, no, che di Saulle è figlia;

tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa;

210 rispetteranla. Va; vola…

ABNER                                S’io nulla

valgo, fia salva, il giuro; ma ad un tempo

te pur…

MICOL     Deh!… padre… Io non ti vo’, non voglio

lasciarti…

SAUL         Io voglio: e ancora il re son io.

Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola:

215 teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi.

MICOL Padre!… E per sempre?…

Scena quinta


SAUL                                                     Oh figli miei… – Fui padre. –

Eccoti solo, o re; non un ti resta

dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,

d’inesorabil Dio terribil ira? –

220 Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,

fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli

dell’insolente vincitor: sul ciglio

già lor fiaccole ardenti balenarmi

veggo, e le spade a mille… – Empia Filiste,

225 me troverai, ma almen da re, qui…* morto. –


* Nell’atto ch’ei cade trafitto su la propria spada, soprarrivano in folla i Filistei vittoriosi con fiaccole incendiarie e brandi insanguinati. Mentre corrono con alte grida verso Saul, cade il sipario.

 >> pagina 481 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Nelle tre scene qui proposte domina l’impeto visionario e delirante di Saul, che nella sua follia mescola i dati della realtà e la coscienza ancora lucida dei propri atti con le deformazioni del delirio, che prendono la forma di fantasmi e voci. Prima Saul riconosce di essere un re sconfitto, poi vorrebbe nuovamente riconquistare il prestigio perduto, gettandosi un’ultima volta in battaglia. Questa alternanza di sentimenti arriva al punto di rottura alla notizia della morte dei figli: sopraggiunge allora una solitudine immensa e totale, senza più alcuno scampo per il protagonista, al quale non rimane che rivolgere parole estreme a sé stesso (Eccoti solo, o re, v. 217), a Dio (Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?, vv. 218-219), alla propria spada (Ma, tu mi resti, o brando, v. 220) e ai nemici (Empia Filiste, v. 224). Il suicidio si prospetta in tal modo come una liberazione, che ribadisce la grandezza dell’eroe: rifiutando di fuggire e di salvarsi, egli recupera la dignità regale dinanzi a sé stesso, all’umanità e a Dio.

Il crescendo della follia di Saul è sapientemente gestito da Alfieri. Il protagonista vive sin dall’inizio della tragedia un forte contrasto di sentimenti, che aumenta fino a creare una tensione interna e sfocia nei primi segni di squilibrio; ma è solo nella parte finale che le passioni si trasformano in delirio. Lo stato di fragilità psichica non impedisce a Saul di ribellarsi alla propria sorte: nell’ultimo atto egli assume un atteggiamento eroico, che appare come un disperato tentativo di sottrarsi a un’angoscia opprimente. Tuttavia, egli rimane di fatto una vittima, uscendo tragicamente sconfitto dallo scontro con il destino.

Le scelte stilistiche

Nelle scene riportate domina incontrastata la figura di Saul, prossimo alla morte. A mano a mano che ci si avvicina alla conclusione, la lingua solenne del re, che prima si articolava in periodi ampi e complessi, si frantuma in frasi continuamente interrotte. Nelle battute finali aumentano le ripetizioni (Or dove, / deh! dove corri?, vv. 182-183; E tu, fellon, tu vivi?, v. 186), le invocazioni e le personificazioni*, che servono all’autore per riepilogare gli eventi cruciali e per rappresentare con efficacia i fantasmi che assillano la mente del protagonista.

Il lessico è solenne e il tono vibrante e teso: a dare risalto all’eloquenza del protagonista contribuiscono le numerose inversioni* e i chiasmi*, con un uso frequente dell’asindeto* per dare ritmo alle battute e al mutamento degli stati d’animo. Nel discorso di Saul, sempre più frammentato e disarticolato, prevalgono sostantivi e verbi isolati, quasi a rappresentare il disperato tentativo di dare forma a un’angoscia destinata però a restare inesprimibile.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Nel suo delirio, Saul ha tre diverse visioni: quali?


2 Distingui con diversi colori:

  • i dialoghi di Saul con persone reali;
  • i dialoghi con le immagini della propria mente;
  • i monologhi.

Analizzare

3 Individua nel brano esempi di inversioni sintattiche. A quale scopo sono state introdotte?


4 Nei discorsi di Saul sono più frequenti i sostantivi, gli aggettivi o i verbi? perché, secondo te?


5 Trova alcuni enjambement e spiega quali concetti evidenziano.

 >> pagina 482 

Interpretare

6 Da queste scene emerge un rapporto profondo tra il padre Saul e la figlia Micol: descrivilo sinteticamente.


7 Perché il suicidio appare a Saul l’unica soluzione? Che cosa crede di poter salvare uccidendosi?

Produrre

8 Scrivere per argomentare. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento la Rai ha prodotto e trasmesso sceneggiati tratti da importanti opere letterarie: è anche il caso di Saul, di cui nel 1959 venne realizzata, per la regia di Claudio Fino, una versione televisiva con gli attori Salvo Randone (Saul), Gianmaria Volonté (David) e Valentina Fortunato (Micol). Recupera sul web le scene finali corrispondenti al brano, guardale e immagina di essere un critico televisivo: prepara una recensione di circa 20 righe delle scene viste.

T2

La confessione di Mirra

Mirra, atto V, scena II

Siamo nel punto più drammatico della tragedia: Pereo viene rifiutato dalla sua promessa sposa, Mirra, nel giorno del matrimonio, e per il dolore si uccide; il padre di Mirra, Ciniro, obbliga la figlia a confessare il travaglio interiore che le si legge in volto, e che lei vive con un atroce senso di colpa. Dopo una vana lotta con sé stessa, Mirra si tradisce, facendo intendere al padre l’amore incestuoso che prova verso di lui. A quel punto si getta sulla spada di Ciniro, per liberarsi definitivamente da un dolore a lungo nascosto in un cupo silenzio.


Metro Endecasillabi sciolti.

Ciniro, Mirra.

CINIRO – Mirra, che nulla tu il mio onor curassi,

creduto io mai, no, non l’avrei; convinto

me n’hai (pur troppo!) in questo dì fatale

40    a tutti noi: ma, che ai comandi espressi,

e replicati del tuo padre, or tarda

all’obbedir tu sii, più nuovo ancora

questo a me giunge.

MIRRA                          … Del mio viver sei

signor, tu solo… Io de’ miei gravi,… e tanti

45    falli… la pena… a te chiedeva;… io stessa,…

or dianzi,… qui… – Presente era la madre;…

deh! perché allor… non mi uccidevi?…

CINIRO                                                         È tempo,

tempo ormai, sì, di cangiar modi, o Mirra.

Disperate parole indarno muovi;

50    e disperati, e in un tremanti, sguardi

al suolo affissi indarno. Assai ben chiara

in mezzo al dolor tuo traluce l’onta;

rea ti senti tu stessa. Il tuo più grave

fallo, è il tacer col padre tuo: lo sdegno

55    quindi appien tu merti; e che in me cessi

l’immenso amor, che all’unica mia figlia

io già portai. – Ma che? tu piangi? e tremi?

e inorridisci?… e taci? – A te fia dunque

l’ira del padre insopportabil pena?

60    MIRRA Ah!… peggior… d’ogni morte…

CINIRO                                                         Odimi. – Al mondo

favola hai fatto i genitori tuoi,

quanto te stessa, coll’infausto fine

che alle da te volute nozze hai posto.

Già l’oltraggio tuo crudo i giorni ha tronchi

65    del misero Peréo…

MIRRA                       Che ascolto? Oh cielo!

CINIRO Peréo, sì, muore; e tu lo uccidi. Uscito

del nostro aspetto appena, alle sue stanze

solo, e sepolto in un muto dolore,

ei si ritrae: null’uomo osa seguirlo.

70    Io, (lasso me!) tardo pur troppo io giungo…

dal proprio acciaro trafitto, ei giacea

entro un mare di sangue: a me gli sguardi

pregni di pianto e di morte inalzava;…

e, fra i singulti estremi, dal suo labro

75    usciva ancor di Mirra il nome. – Ingrata…

MIRRA Deh! più non dirmi… Io sola, io degna sono,

di morte… E ancor respiro?…

CINIRO                                          Il duolo orrendo

dell’infelice padre di Peréo,

io che son padre ed infelice, io solo

80    sentir lo posso; io ’l so, quanto esser debba

lo sdegno in lui, l’odio, il desio di farne

aspra su noi giusta vendetta. – Io quindi,

non dal terror dell’armi sue, ma mosso

dalla pietà del giovinetto estinto,

85    voglio, qual de’ padre ingannato e offeso,

da te sapere (e ad ogni costo io ’l voglio)

la cagion vera di sì orribil danno. –

Mirra, invan me l’ascondi: ah! ti tradisce

ogni tuo menom’atto. – Il parlar rotto;

90    lo impallidire, e l’arrossire; il muto

sospirar grave; il consumarsi a lento

fuoco il tuo corpo; e il sogguardar tremante;

e il confonderti incerta; e il vergognarti,

che mai da te non si scompagna:… ah! tutto,

95    sì tutto in te mel dice, e invan tu il nieghi;…

son figlie in te le furie tue… d’amore.

MIRRA Io?… d’amor?… Deh! nol credere… T’inganni.

CINIRO Più il nieghi tu, più ne son io convinto.

E certo in un son io (pur troppo!) omai,

100  ch’esser non puote altro che oscura fiamma,

quella cui tanto ascondi.

MIRRA                                Oimè!… che pensi?…

Non vuoi col brando uccidermi;… e coi detti…

mi uccidi intanto…

CINIRO                      E dirmi pur non l’osi,

che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo

105  anco ardiresti, io ti terria spergiura. –

Ma, chi mai degno è del tuo cor, se averlo

non potea pur l’incomparabil, vero,

caldo amator, Peréo? – Ma, il turbamento

cotanto è in te;… tale il tremor; sì fera

110  la vergogna; e in terribile vicenda,

ti si scolpiscon sì forte sul volto;

che indarno il labro negheria…

MIRRA                                             Vuoi dunque…

farmi… al tuo aspetto… morir… di vergogna?…

E tu sei padre?

CINIRO               E avvelenar tu i giorni,

115  troncarli vuoi, di un genitor che t’ama

più che se stesso, con l’inutil, crudo,

ostinato silenzio? – Ancor son padre:

scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma,

(pur ch’io potessi vederti felice!)

120  capace io son d’ogni inaudito sforzo

per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo

tuttor, (misera figlia!) il generoso

contrasto orribil, che ti strazia il core

infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo

125 festi, immolando al tuo dover te stessa:

ma, più di te possente, Amor nol volle.

La passïon puossi escusare; ha forza

più assai di noi; ma il non svelarla al padre,

che tel comanda, e ten scongiura, indegna

130 d’ogni scusa ti rende.

MIRRA                            – O Morte, Morte,

cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda

sempre sarai?…

CINIRO                 Deh! figlia, acqueta alquanto,

l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato

contra te più vedermi, io già nol sono

135 più quasi omai; purché tu a me favelli.

Parlami deh! come a fratello. Anch’io

conobbi amor per prova: il nome…

MIRRA                                                    Oh cielo!…

Amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi;

io disperatamente amo, ed indarno.

140 Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,

né persona il saprà: lo ignora ei stesso…

ed a me quasi io ’l niego.

CINIRO                                  Ed io saperlo

e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda

esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii

145 più ai genitori che ti adoran sola.

Deh! parla; deh! – Già, di crucciato padre,

vedi ch’io torno e supplice e piangente:

morir non puoi, senza pur trarci in tomba. –

Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo.

150 Stolto orgoglio di re strappar non puote

il vero amor di padre dal mio petto.

Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,

cangiar ben ponno ogni persona umìle

in alta e grande: e, ancor che umìl, son certo,

155 che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami.

Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva,

ad ogni costo mio.

MIRRA                        Salva?… Che pensi?…

Questo stesso tuo dir mia morte affretta…

Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto

160 da te… per sempre… il piè… ritragga…

CINIRO                                                          O figlia

unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni

fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto

di forsennata or mi respingi? Il padre

dunque abborrisci? e di sì vile fiamma

165 ardi, che temi…

MIRRA                 Ah! non è vile;… è iniqua

la mia fiamma; né mai…

CINIRO                                 Che parli? iniqua,

ove primiero il genitor tuo stesso

non la condanna, ella non fia: la svela.

MIRRA Raccapricciar d’orror vedresti il padre,

170 se la sapesse… Ciniro…

CINIRO                               Che ascolto?

MIRRA Che dico?… ahi lassa!… non so quel ch’io dica…

Non provo amor… Non creder, no… Deh! lascia,

te ne scongiuro per l’ultima volta,

lasciami il piè ritrarre.

CINIRO                            Ingrata: omai

175 col disperarmi co’ tuoi modi, e farti

del mio dolore gioco, omai per sempre

perduto hai tu l’amor del padre.

MIRRA                                               Oh dura,

fera orribil minaccia!… Or, nel mio estremo

sospir, che già si appressa,… alle tante altre

180 furie mie l’odio crudo aggiungerassi

del genitor?… Da te morire io lungi?…

Oh madre mia felice!… almen concesso

a lei sarà… di morire… al tuo fianco…

CINIRO Che vuoi tu dirmi?… Oh! qual terribil lampo,

185 da questi accenti!… Empia, tu forse?…

MIRRA                                                                    Oh cielo!

che dissi io mai?… Me misera!… Ove sono?

Ove mi ascondo?… Ove morir? – Ma il brando

tuo mi varrà…*

CINIRO               Figlia… Oh! che festi? il ferro…

MIRRA Ecco,… or… tel rendo… Almen la destra io ratta

190 ebbi al par che la lingua.

CINIRO                                 … Io… di spavento,…

e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,

immobil resto.

MIRRA                Oh Ciniro!… Mi vedi…

presso al morire… Io vendicarti… seppi,…

e punir me… Tu stesso, a viva forza,

195 l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti…

Ma, poiché sol colla mia vita… egli esce…

dal labro mio,… men rea… mi moro…

CINIRO                                                         Oh giorno!

Oh delitto!… Oh dolore! – A chi il mio pianto?…

MIRRA Deh! più non pianger;… ch’io nol merto… Ah! sfuggi

200 mia vista infame;… e a Cecri… ognor… nascondi…

CINIRO Padre infelice!… E ad ingojarmi il suolo

non si spalanca?… Alla morente iniqua

donna appressarmi io non ardisco;… eppure,

abbandonar la svenata mia figlia

205 non posso…


* Rapidissimamente avventatasi al brando del padre, se ne trafigge.

 >> pagina 488 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Quest’opera della maturità – appartenente al gruppo delle ultime tragedie alfieriane – presenta un dramma diverso dagli altri: privo di contenuti politici, è intessuto su un’azione pressoché inesistente e concentrato in dialoghi appassionati che definiscono la complessa psicologia della protagonista. Non assistiamo dunque a un conflitto di potere, ma a un dramma dell’anima, che Mirra prova inutilmente a soffocare dietro un muro di silenzio. La donna non ha nulla di eroico: il suo dolore sembra piuttosto testimoniare la concezione pessimistica che Alfieri ha della vita umana, che non risparmia un’anima delicata e innocente dal travaglio di una misteriosa colpa che la consuma.

La fanciulla, del resto, è cosciente dell’abnormità del suo sentimento incestuoso, moralmente inaccettabile perché in conflitto con le radici stesse della convivenza civile, contraddicendo la legge naturale del sangue su cui si basano i rapporti familiari e sociali. Eppure Mirra non è in grado di reprimere il proprio amore e di cancellare il lato oscuro e terribile di sé che lo ispira: la condanna sta nella sua stessa complessa personalità e in una condizione esistenziale che fa convivere nel suo animo la razionalità e l’inconscio, la luce e il buio, un lato del carattere solare e un altro tenebroso.

Anche il padre Ciniro è una figura complessa e articolata, che oscilla tra riprovazione e comprensione, tra severità e compassione, e che è al tempo stesso, per Mirra, oggetto del desiderio e nemico da respingere. L’ambiguità e il dramma della contraddizione sconvolgono tutti gli equilibri, rendendo le persone irresolute e incapaci di agire: Mirra ora si abbandona al dolore, ora rimprovera il padre di non comprenderla, ora rifiuta il suo sposo, ora lo piange sinceramente. Solo quando il padre comprende la realtà, la tensione si libera in un grido di dolore.

La progressione che porta alla confessione di Mirra può essere letta come una sorta di climax*. Ciniro prima è sdegnato per il rifiuto della figlia e parla da genitore autoritario, nell’ottica dell’onore regale e familiare. Poi, per indurla a dichiarare le cause del suo comportamento, fa leva sui sensi di colpa della figlia, rivelandole il suicidio di Pereo: siamo qui di fronte al punto di vista della pietà e della giustizia. Infine assume l’aspetto del padre amorevole, dotato di una sensibilità acuta nel cogliere i segni dell’amore (sensibilità che, come prevede la concezione stilnovistica, egli possiede avendo conosciuto l’amore per prova, cioè in prima persona). È, quest’ultima, la prospettiva degli affetti e della passione amorosa, ed è proprio su questo terreno che Mirra, quando Ciniro minaccia di negarle il suo amore, capitola, tradendo il proprio segreto.

Le scelte stilistiche

In queste scene finali Ciniro svolge discorsi ampi, che formano nuclei compatti e si articolano su più versi tramite un uso frequente dell’enjambement*. L’indecisione che attanaglia l’animo di Mirra è resa invece con un verso spezzato e una sequenza fitta di punti di sospensione, che indicano la difficoltà a confessare. Le battute della ragazza sono brevi e continuamente interrotte: l’assedio inquisitore delle domande paterne la induce a un balbettio di difficile comprensione, composto quasi esclusivamente da interiezioni e da pause sempre più lunghe. Si tratta di un vero e proprio “linguaggio della reticenza” reso anche da altri strumenti retorici, come le negazioni, le elusioni e le ambiguità (Del mio viver sei / signor, tu solo…, vv. 43-44).

 >> pagina 489 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Descrivi la figura paterna di Ciniro nel suo rapporto con la figlia Mirra, così come emerge da questi versi.


2 Fai la parafrasi dei vv. 150-155.

Analizzare

3 Quale figura retorica è presente nell’espressione dell’infelice padre di Peréo, / io che son padre ed infelice, io solo (vv. 78-79)?


4 I puntini di sospensione lasciano quasi sempre intuire alcune parole sottintese (soggetti, verbi, complementi oggetti): rintraccia almeno cinque esempi e spiega a che cosa di volta in volta si allude.


5 Evidenzia alcuni esempi di espressioni ambivalenti da cui la passione di Mirra traspare anche senza essere affermata esplicitamente.

Interpretare

6 Confronta il personaggio di Saul con quello di Mirra, mettendo in evidenza analogie e differenze.


7 A che cosa si riferiscono i versi Il duolo orrendo / dell’infelice padre di Peréo, / io che son padre ed infelice, io solo / sentir lo posso (vv. 77-80)?

Competenze linguistiche

8 Individua nel testo i termini afferenti al campo semantico della colpa e della vergogna.

2 La tensione antitirannica

La condanna delle monarchie assolute I personaggi delle tragedie e la vita stessa di Alfieri sono attraversati, come si è visto, da un perenne istinto di ribellione, che si rivolge ora contro figure concrete, ora contro forze oscure avvertite come un limite per l’autonomia dell’individuo. Il bisogno di libertà da qualsiasi vincolo e condizionamento si esprime nel rifiuto di ogni costrizione, morale e politica. Lo scrittore non mette in dubbio la legittimità del principio di autorità, ma è insofferente, per indole, ai confini che esso impone. Ai suoi occhi, in questo senso, tutte le forme di governo – siano esse monarchiche, oligarchiche o democratiche – minacciano di ingabbiare la personalità degli esseri umani e di inibirne desideri e impulsi.

Le tirannidi contro cui si scaglia la polemica alfieriana sono soprattutto le monarchie assolute del Settecento, alla cui condanna egli unisce quella verso la letteratura servile prodotta dai letterati che gravitavano attorno alle corti. Tuttavia, in una prospettiva più ampia, che trascende il proprio tempo, Alfieri attribuisce il nome di tirannide a qualsiasi regime che imponga la propria forza con l’arbitrio, soffocando le virtù dei temperamenti individuali: tirannide è per Alfieri ogni sistema organizzato che annulla la libertà del singolo, generando paura e terrore.

La tirannide come metafora La lotta del poeta contro questa forma di autoritarismo non può però definirsi davvero una battaglia politica. Il pensiero illuminista su cui egli si è formato non lo porta a elaborare una coerente visione ideologica: come ha scritto Elio Gioanola, «nessuna opera è forse meno politica di quella dell’Alfieri, nel senso che ci si muove sempre tra idee assolute, contrapposizioni radicali, scelte eroiche, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla realtà concreta e da qualsiasi articolazione teorica».

Il tiranno di cui parla Alfieri si delinea come una figura della fantasia poetica, come l’incarnazione di un potere sospettoso e crudele, corrotto e corruttore, non limitato da alcuna legge esterna alla sua volontà. In altri termini, l’autore non conduce un’analisi razionale o storica della tirannide, ma una descrizione cupa e terribile dell’oppressione, mettendo sotto accusa, con impeto libertario, la figura astratta del tiranno ed esaltando, al contrario, il coraggio della ribellione e lo spirito di libertà del singolo, senza alcuna proposta di azione collettiva.

 >> pagina 490 

Una visione aristocratica Per sconfiggere la tirannide, infatti, Alfieri non fa affidamento sul popolo, che considera un «turpissimo armento» (cioè una mandria spregevole), né sulle pratiche riformatrici elaborate nel secolo dei Lumi. Egli riserva invece la propria ammirazione a pochi individui eccezionali dotati di «forte sentire»: personalità che si elevano sul volgo e che, grazie al loro coraggioso antagonismo, scelgono l’ipotesi del tirannicidio o del suicidio piuttosto che tollerare di vivere in schiavitù.

La posizione ideologica alfieriana è quella di un aristocratico d’ancien régime, la cui idea di virtù è modellata su Plutarco e sui classici latini, cioè sul culto degli eroi e delle personalità straodinarie. Il disprezzo della tirannide e del popolo, in Alfieri, sono due facce di una stessa medaglia: l’idea del popolo come entità organizzata, portatrice di diritti e di una volontà legittima, è una parte della riflessione politica illuminista che gli rimane sostanzialmente estranea. Il suo individualismo esasperato e la sua titanica ( titanismo, p. 532) opposizione al proprio tempo lo avvicinano semmai alla sensibilità romantica, che si affermerà di lì a qualche decennio (e che vedrà in Alfieri un proprio precursore).

Lo scrittore eroe In questa irriducibile lotta per mantenere l’integrità morale in un universo degradato e liberticida, lo scrittore stesso è un eroe tragico. Nel trattato Del principe e delle lettere il nemico del tiranno è lo scrittore eroe: l’artista libero nell’animo, sganciato da qualsiasi vincolo con il potere e dotato di «una sete insaziabile di bel fare e di gloria». Alfieri procede anche a una rigida distinzione degli scrittori, dividendoli tra servi del potere e ribelli al potere: nel primo gruppo si trova per esempio Virgilio (colpevole di essere sceso a patti con la politica ufficiale), nel secondo Dante e naturalmente lo stesso Alfieri.

Si afferma in tal modo un’immagine di scrittore sempre controcorrente, che rifiuta l’ideale illuministico del letterato riformatore e collaboratore del potere, e sceglie invece di diffondere un messaggio ideale e assoluto, che spesso gli provoca l’incomprensione dei contemporanei e lo condanna – ma nell’ottica di Alfieri è un privilegio – a un’ascetica e sdegnosa solitudine. Si tratta di una concezione ispirata allo stesso individualismo eroico e antisociale che ritroviamo nei personaggi delle sue tragedie.

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento