La vita

La vita

Le origini familiari e i primi studi La biografia di William Shakespeare è assai lacunosa: le poche testimonianze certe parlano quasi esclusivamente di un suo legame intenso con i teatri di Londra. Sappiamo che nasce a Stratford-upon-Avon nel 1564. Suo padre, John, ha abbandonato il mestiere contadino della famiglia d’origine per cercare migliore fortuna come guantaio e commerciante di lana. La madre, Mary Arden, è di condizione sociale più agiata, essendo figlia di un possidente di campagna.

Il giovane Shakespeare studia alla grammar school di Stratford, dove si insegnano grammatica e retorica latine.

L’adolescenza e il matrimonio Nella biografia di Shakespeare adolescente vi è, tra il 1576 e il 1582, un periodo oscuro, corrispondente a una fase di difficoltà economica del padre. Lo ritroviamo nel 1582, fidanzato con Anne Hathaway, figlia di contadini benestanti, che sposa lo stesso anno. Al momento del matrimonio la donna è incinta di tre mesi; la bambina, che nasce l’anno seguente, è chiamata Susannah. Anne darà alla luce anche due gemelli, Hamnet (l’unico figlio maschio della coppia, che morirà appena undicenne) e Judith.

Londra e il teatro Nel 1588 o 1589, Shakespeare lascia Stratford per stabilirsi a Londra, dove intraprende con fortuna la professione di attore, ma moglie e figli non lo seguono. Nel 1592 è già un artista affermato, non solo come attore, ma anche come autore di opere teatrali. All’epoca – come oggi, del resto – le due professioni sono per lo più separate; egli le unisce in sé, procurandosi, insieme ai lauti guadagni che gli consentono un’agiatezza sempre più notevole, anche ostilità e invidie.

In questo periodo si lega anche agli ambienti della corte – la regina Elisabetta è amante del teatro e spesso ospita spettacoli a palazzo –, ottenendo la protezione necessaria alla sopravvivenza della sua arte, accusata di immoralità dai puritani.

Gli ultimi anni Nel 1603, alla morte di Elisabetta, sale al trono Giacomo I Stuart: il nuovo sovrano autorizza la compagnia di Shakespeare a fregiarsi del titolo di King’s Men (“Uomini del re”). Per diversi anni la troupe di Shakespeare occupa il palcoscenico del Globe Theatre, per poi eleggere il teatro coperto di Blackfriars a sede degli spettacoli invernali.

Divenuto ricchissimo, nel 1611 Shakespeare si ritira a Stratford, in una grande casa che ha acquistato e fatto restaurare, dove può godere della quiete della campagna nativa, cui anela ormai con la stessa intensità con cui un giorno aveva desiderato lasciarla. Qui vive fino alla morte, avvenuta – secondo l’unica fonte documentaria in nostro possesso, l’iscrizione sul suo monumento funebre – il 23 aprile 1616.

Le opere

  La situazione testuale

L’incertezza di date e attribuzioni Sulla gran parte della produzione di Shakespeare non esistono dati certi. In molti casi gli studiosi sono cauti riguardo al numero delle opere, alle datazioni e alle fonti dei singoli lavori. Complessa è anche l’analisi dello stile, essendo i testi che leggiamo oggi il risultato di un confronto sistematico fra le varianti delle edizioni contemporanee – i cosiddetti  in quarto, limitati a drammi singoli – e di quelle che si sono succedute nel corso del tempo, raccolte in volumi  in folio ed edizioni critiche. Una delle fonti più importanti per la datazione dei drammi di Shakespeare è il cosiddetto First Folio, pubblicato sette anni dopo la sua morte, nel 1623, e curato da due attori suoi colleghi, John Heminge e Henry Condell: la loro suddivisione delle opere in tragedie, commedie e drammi storici è tuttora valida.

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Il problema editoriale I drammi di Shakespeare non nascono come testi firmati dall’autore, ma come copioni privi di suddivisione in atti e in scene. La compagnia li modifica nel corso delle recite e ne è a tutti gli effetti la proprietaria, mentre la pubblicazione avviene soltanto dopo la rappresentazione, spesso clandestinamente e in forma rimaneggiata. Non stupisce dunque l’assenza di manoscritti e di versioni a stampa autorizzate da Shakespeare. La costituzione dell’insieme delle opere shakespeariane è il frutto di un intenso lavoro della critica, iniziato nel XVIII secolo e tuttora in corso.

Il catalogo attuale Attualmente il catalogo è composto da 37 drammi, oltre che da alcune composizioni poe­tiche scritte nell’ultimo decennio del Cinquecento, in un breve periodo di chiusura dei teatri a causa della peste: 2 poemetti narrativi (Venere e Adone, 1592-1593; Lucrezia violentata, 1593-1594  T2) e 154 sonetti costruiti in modo originale sul modello petrarchesco, dominante nel Rinascimento inglese.

  Le quattro fasi della scrittura per le scene

La prima fase: l’apprendistato Per comodità, si è soliti suddividere la carriera di Shake­speare in quattro fasi. La prima, compresa tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, è considerata il periodo di apprendistato. Il giovane autore si va formando su alcuni generi allora in voga: elabora gli elementi truculenti delle tragedie latine di Seneca imperniate sul tema del potere (Tito Andronico) e porta in scena le cronache che in quegli anni ricostruivano la storia d’Inghilterra con l’intento di presentare l’assolutismo come l’unica soluzione all’anarchia delle guerre civili (Riccardo III, Riccardo II).

In questa varietà di temi e di generi, il tratto comune è costituito dall’indifferenza verso una rappresentazione impostata su criteri di realismo, in continuità con la tradizione del dramma medievale. Questa caratteristica, che diverrà parte integrante dello stile di Shakespeare, è evidente nella presenza del soprannaturale e nel trattamento spregiudicato del tempo e dello spazio, senza riguardo per i rigidi criteri classici – le cosiddette unità aristoteliche – in base ai quali l’azione scenica doveva svolgersi in un tempo limitato e in un unico luogo.

Le fasi centrali: i grandi capolavori Alla seconda fase (gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento), che vede Shakespeare attivo con la compagnia dei Lord Chamberlain’s Men (“Uomini del Lord Ciambellano”), risalgono Romeo e Giulietta, Il mercante di Venezia e l’Enrico V, oltre che alcune commedie di grande leggerezza come Sogno d’una notte di mezza estate, mutuate dal gusto italiano per il gioco del travestimento e gli equivoci del linguaggio.

La terza fase (corrispondente all’incirca al primo decennio del Seicento), in cui è impegnato con i King’s Men presso il Globe Theatre, comprende i drammi romani (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra), le grandi tragedie (Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear) e le dark comedies (Troilo e Cressida e Misura per misura), che insieme all’Amleto rientrano nella categoria dei “drammi dialettici”, così definiti in quanto opere aperte, non risolte, prive dell’elemento purificatorio. Anche nelle tragedie più cupe, comunque, non mancano inserti comici, come il dialogo fra i becchini in attesa della sepoltura di Ofelia, nell’Amleto, o il grottesco monologo del portiere dopo il delitto, nel Macbeth; nell’Otello, inoltre, Iago recita spesso la parte del buffone, e un buffone (fool) ha un ruolo importantissimo in Re Lear. D’altro canto, anche le commedie composte in questa fase (Come vi piace, La dodicesima notte) sono più complesse delle precedenti, e il riso assume spesso un sapore amaro.

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La quarta fase: i drammi romanzeschi All’ultima fase (tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del Seicento) della produzione shakespeariana, in cui il commediografo lavora al teatro di Blackfriars, risale la svolta dei drammi romanzeschi, nei quali il motivo del perdono subentra alla soluzione tragica (Il racconto d’inverno, La tempesta). Anche in queste opere, comunque, al lieto fine si intrecciano tinte più fosche, a dimostrazione di come sia impossibile collocare la produzione di Shakespeare nella gabbia dei generi.
Il comico e il tragico La scrittura shakespeariana si caratterizza dunque per la compresenza di elementi tragici e comici. Il comico assolve a diverse funzioni: risponde a esigenze di organizzazione interna del dramma, attraverso l’inserto di scene comiche di sollievo (relief) che alleggeriscono situazioni di forte intensità emotiva; qualifica i personaggi come socialmente e moralmente bassi; si trasforma infine in ironia tragica, come accade nell’episodio del contadino che, portando a Cleopatra l’aspide da lei richiesto per suicidarsi, prova su sé stesso l’efficacia del morso velenoso del serpente.

CRONACHE dal PASSATO

  Genio universale o semplice prestanome?

È davvero esistito un grande drammaturgo di nome Shakespeare?


La biografia di Shakespeare è basata su una serie di ipotesi e leggende. Gli unici documenti firmati da un uomo che risponde al suo nome riguardano sempre aridi episodi della vita di tutti i giorni (atti notarili, contratti di compravendita). Di conseguenza, è sorto il dubbio che il provinciale William Shake­speare da Stratford, venuto a Londra in cerca di fortuna, abbia finito con il fare da prestanome a un personaggio importante, magari un esponente dell’alta aristocrazia elisabettiana, il quale, per ragioni di opportunità, non poteva rivelarsi come autore di teatro. Ma chi sarebbe stato il misterioso personaggio a cui Shakespeare avrebbe accettato di fare da “controfigura”? Sono state avanzate varie ipotesi: il conte di Oxford, quello di Rutland, quello di Derby, o ancora sir Edward Dyer, o addirittura una donna, la contessa di Pembroke.

Bacon…

Nel 1857 Delia Bacon, discendente del filosofo Francis Bacon (1561-1626), formulò la teoria secondo la quale il pensatore sarebbe stato a tempo perso anche un autore teatrale, ma poiché tale attività mal si accordava con la gravità dei suoi studi, avrebbe deciso di ricorrere a uno pseudonimo, William Shakespeare, appunto.

… o Marlowe?

Nel Novecento si è fatta strada un’altra ipotesi, avvincente e insieme rocambolesca: dietro a Shake­speare si celerebbe il drammaturgo e poeta Christopher Marlowe (1564-1593), artista inquieto, figlio di un ciabattino ma educato a Cambridge grazie a una borsa di studio, e morto a ventinove anni in una bettola londinese nel corso di una rissa. Alcuni studiosi ritengono che Marlowe fosse un informatore segreto della Corona britannica, e qualcuno si è spinto a credere che egli non sia morto nella famosa zuffa, ma si sia invece rifugiato in Francia sotto falso nome per mettersi al sicuro o per svolgere qualche incarico riservato per conto di Sua Maestà. Dalla Francia Marlowe avrebbe continuato a scrivere, affidando le sue opere a qualcuno che le facesse passare come proprie: William Shakespeare.

Un’ipotesi meno romanzesca

Una spiegazione delle lacune nella biografia del grande drammaturgo, in realtà, non deve necessariamente calcare strade così romanzesche. All’epoca, il pubblico era interessato soprattutto agli attori, mentre gli autori restavano nell’ombra. Spesso le compagnie compravano i copioni per poco denaro, e da quel momento se ne assicuravano la proprietà esclusiva: l’autore perdeva così ogni diritto sull’opera. Inoltre, Shake­speare non era un attore di primo piano, quanto piuttosto un comprimario, se non un “caratterista”, ricoprendo talvolta, anche nelle rappresentazioni dei suoi drammi, parti decisamente minori (come per esempio lo spettro nell’Amleto, che pare fosse il suo “pezzo forte” come attore). Non deve perciò stupire il fatto che nessun contemporaneo si sia preoccupato di annotare i fatti della sua vita o di conservare i documenti che lo riguardavano.

  Alcuni fra i drammi maggiori

Nell’impossibilità di soffermarci su tutti i drammi shakespeariani, focalizziamo l’attenzione su alcune delle opere di maggior rilievo. Di Amleto, invece, tratteremo diffusamente nella seconda parte dell’Unità (▶ p. 170).

Romeo e Giulietta  T1

La tragedia dell’amore impossibile Come la maggior parte dei drammi shakespeariani, la tragedia Romeo e Giulietta (composta tra il 1594 e il 1597) è caratterizzata dalla compresenza di versi (per lo più endecasillabi) e prosa. I protagonisti sono due giovani veronesi appartenenti a due famiglie nemiche: i Montecchi e i Capuleti. Nella piazza del Mercato, le fazioni appartenenti alle due famiglie si azzuffano; solo l’arrivo del principe della città mette fine ai duelli. Tra i Montecchi manca però Romeo: di animo nobile e pacifico, egli pensa soltanto all’amore per una bella giovinetta di nome Rosalina.

A una festa in maschera a casa Capuleti, alla quale si è recato insieme al cugino Benvolio e al fraterno amico Mercuzio, Romeo incontra Giulietta. I due giovani si innamorano subito, ma si rendono anche conto di appartenere alle due casate rivali. Durante la notte, finita la festa, Romeo scambia parole d’amore con Giulietta, sotto il suo balcone. Prima di salutarsi, i due innamorati hanno già deciso di sposarsi.

Romeo si reca da frate Lorenzo, che, intuendo come quel matrimonio possa porre fine alla faida che insanguina Verona, sposa i due giovani in gran segreto. Quello stesso giorno Romeo incontra Mercuzio e Benvolio proprio mentre sopraggiungono i Capuleti capeggiati dal bellicoso cugino di Giulietta, Tebaldo, che provoca Romeo dandogli del vigliacco. Il giovane non reagisce, ma Mercuzio impugna la spada e, nello scontro, rimane ucciso da Tebaldo (che lo trafigge quasi senza volerlo). Folle di rabbia, Romeo insegue Tebaldo e lo sfida, uccidendolo a sua volta. I cadaveri di Mercuzio e Tebaldo vengono portati al cospetto del principe, che sentenzia l’esilio a Mantova per Romeo. Frate Lorenzo invita il ragazzo a non opporsi, promettendo di risolvere la situazione; Romeo e Giulietta trascorrono così la loro prima e ultima notte d’amore.

Romeo ha appena lasciato la sposa alla volta di Mantova quando madonna Capuleti annuncia alla figlia che le nozze con il conte Paride – che aveva chiesto la mano della ragazza, ottenendo il consenso del padre – si terranno di lì a tre giorni. Disperata, Giulietta si confida con frate Lorenzo, il quale escogita un piano per riunire i ragazzi: consegna a Giulietta una pozione che la ridurrà in uno stato di morte apparente; al suo risveglio, le dice, troverà Romeo, con cui potrà fuggire. Poco prima dei finti funerali, frate Lorenzo invia un fraticello verso Mantova, a dorso di mulo, per avvisare Romeo; ma è più veloce il servo Baldassarre, che, credendo Giulietta morta, raggiunge a cavallo il padrone, comunicandogli la tragica fine dell’amata. Nella tomba dei Capuleti si compie il destino degli amanti: vedendo il corpo di Giulietta, Romeo si avvelena; al risveglio la ragazza scopre lo sposo morto, e segue la sua sorte pugnalandosi al petto.

Le fonti L’opera si ispira ad alcune fonti note a Shakespeare, probabilmente, in traduzione: le novelle di Masuccio Salernitano, Luigi da Porto e Matteo Bandello, ma soprattutto il poema La tragica storia di Romeo e Giulietta (1562) di Arthur Brooke. Come accade in molte altre sue opere, tuttavia, Shakespeare piega i contenuti e i significati della storia alla sua poetica e alla sua visione del mondo.

Un’opera celebre e celebrata Romeo e Giulietta è forse il più popolare e imitato dramma di Shakespeare, il primo in cui la forza creativa dell’autore sembra dispiegarsi liberamente. Esso prelude alla stagione delle grandi tragedie, anche se forse non si può ancora parlare di tragedia in senso propriamente shakespeariano, perché la catastrofe non è strettamente determinata dai personaggi, ma ha luogo in virtù di circostanze esterne e in qualche misura fortuite (l’equivoco per cui Romeo crede morta Giulietta).

Non meno importante dell’elemento tragico è la preziosità dello stile, a tratti molto ricercato e ricco di concetti e immagini raffinate, attinte dal repertorio della poesia cortese e petrarchista. Motivi del successo dell’opera sono infine l’arguzia di alcuni personaggi minori assai riusciti (come Mercuzio, che tende spesso a parodiare la materia amorosa e le forme in cui essa era tradizionalmente espressa) e, soprattutto, la resa del sentimento in termini di esaltazione emotiva e di acceso erotismo.

Per approfondire Un teatro essenziale

L’edificio e l’illusione scenica

La tecnica drammatica di Shakespeare è coerente con il tipo di teatro per il quale scrive. La maggior parte dei suoi drammi è composta per il Globe, un teatro in legno di forma circolare («Questa O di legno», com’è definito nel prologo dell’Enrico V), che fin dal nome suggerisce l’immagine del mondo. Oggi ricostruito fedelmente sulla riva sud del Tamigi, presso il Millennium Bridge, era un edificio a due piani, scoperto e dotato di una piattaforma aggettante verso il pubblico, dietro la quale correvano balconate e si aprivano le porte per l’entrata e l’uscita degli attori. Si trattava di un teatro sostanzialmente povero, pensato per dare risalto alla figura dell’attore: gli scenari erano rudimentali e il sipario assente, sicché la scenografia era quasi interamente creata dalle parole. Proprio alla carenza di realismo scenico si deve lo spessore simbolico del linguaggio, che esigeva un’intensa partecipazione immaginativa degli spettatori all’azione rappresentata sul palcoscenico. Prosegue il prologo dell’Enrico V, rivolgendosi agli spettatori:

Fate conto che entro la cerchia di queste mura siano racchiuse due potenti monarchie e che un pericoloso stretto divida le loro alte fronti, a picco, sul mare. Riempite le nostre lacune col vostro pensiero, dividete in mille parti ogni uomo e create, così, un imponente esercito immaginario. Se si parlerà di cavalli, fate conto di vederli stampare gli zoccoli superbi sul molle terreno che ne riceve le impronte. Il vostro pensiero, infatti, è chiamato ora a fornire ricche vesti ai nostri re e a trasportarli qua e là, saltando lunghe stagioni, riassumendo gli avvenimenti di molti anni in un volger di clessidra…

Attori e pubblico

Mentre gli attori erano esclusivamente uomini, anche per le parti femminili (la recitazione non era infatti permessa alle donne), la composizione del pubblico era mista, anche dal punto di vista sociale: c’erano esponenti della corte, gentiluomini, membri delle classi medie e popolani chiassosi che pagavano un penny all’ingresso. Spiega lo scrittore inglese Peter Ackroyd: «La costruzione misurava 30 metri di diametro e si suppone potesse contenere circa 3300 spettatori. Ognuna delle due gallerie inferiori poteva ospitare un migliaio di persone. In altre parole, c’era una bella calca di corpi elisabettiani, dato che i proprietari permettevano l’ingresso a un pubblico due o tre volte maggiore di quello di un moderno teatro londinese. Ma l’atmosfera doveva essere più quella di uno stadio di football che quella di un teatro, con qualche elemento di luna park».

La presenza assidua di un pubblico così variegato testimonia la diversità di piani di lettura del teatro shakespeariano ed elisabettiano in generale: dall’umile facchino al colto rappresentante della corte, tutti trovavano motivo d’interesse nelle vicende rappresentate sulla scena.

Otello

La tragedia della gelosia Questa tragedia in versi e in prosa – la cui fonte è una novella del 1564 dello scrittore italiano Giovan Battista Giraldi Cinzio – viene rappresentata per la prima volta probabilmente nel 1604 davanti a Giacomo I re d’Inghilterra. 

Due uomini si incontrano, di notte, a Venezia. Discutono della fuga della bella, giovane e ricca Desdemona con Otello, un generale mercenario moro al servizio della Repubblica di Venezia. Entrambi gli uomini hanno motivi di risentimento contro di lui, e avvisano il padre della ragazza. Otello è profondamente innamorato di Desdemona ed è da lei corrisposto, ma il suo luogotenente, Iago, turba questa armonia: dopo il loro trasferimento a Cipro, questi tesse una complicata trama per far credere al suo generale che Desdemona lo tradisce. Accecato dalla gelosia, Otello soffoca la donna nel suo letto, scoprendo troppo tardi la falsità di Iago. Sconvolto, si uccide.

Otello e Iago Otello e Iago rappresentano una coppia tragica: sono due personaggi opposti (l’uomo tradito e il suo ingannatore) ma anche complementari (il generale e il suo uomo di fiducia, «l’onesto Iago», come lo chiama Otello). Le parti dei due protagonisti sono di pari importanza, ed è accaduto spesso che essi fossero interpretati sul palcoscenico da attori di analogo livello.

 Macbeth

La tragedia del potere e del sangue La tragedia, anche in questo caso in versi e in prosa, viene scritta e rappresentata tra il 1605 e il 1608; il testo che ci è pervenuto è invece pubblicato nel 1623, dopo la morte del poeta, ed è costituito probabilmente dal copione più volte usato in teatro, comprendente alcune modifiche apportate dagli attori.

Tre streghe incontrano nella brughiera due generali del re di Scozia, Macbeth e Banquo, che hanno sedato una rivolta. Le streghe preannunciano a Macbeth che diventerà re, e a Banquo che i suoi figli regneranno. Il desiderio del potere, rafforzato dalla predizione e dall’incitamento della moglie ambiziosa e priva di scrupoli, Lady Macbeth, spinge il protagonista a uccidere il re legittimo, Duncan, mentre questi è ospite del suo castello.

Divenuto re, Macbeth sembra progressivamente assuefarsi all’uso della violenza: elimina Banquo, tenta di ucciderne il figlio, fa assassinare la moglie e i figli di un barone ribelle, Macduff. Tuttavia, questa catena di delitti non rimane senza effetto su di lui: profondamente turbato, durante un banchetto vede apparire il terrificante spettro di Banquo. Torna quindi a far visita alle streghe, che emettono però una profezia ambigua: nessun nato da donna potrà mai ucciderlo, né sarà mai sconfitto finché la foresta di Birnam non avanzerà verso di lui; poi gli mostrano la futura stirpe regale di Scozia, che ha i volti dei discendenti di Banquo, e non dei suoi. 

Lady Macbeth, nel sonno, ripete ossessivamente il gesto di lavarsi le mani, compiuto per eliminare il sangue dopo l’assassinio del re, di cui aveva nascosto le tracce. Subito dopo muore, e Macbeth, raggiunto dalla notizia, commenta la sua morte con alcuni tra i più famosi versi della tragedia: «Spegniti, spegniti breve candela! / la vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore / che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena / e del quale poi non si ode più nulla: è una storia / raccontata da un idiota, piena di rumore e furore / che non significa nulla».

Il barone ribelle Macduff e il figlio del vecchio re Duncan muovono con il loro esercito contro Macbeth. Per nascondere la moltitudine dei soldati, li occultano dietro i rami tagliati dalla foresta di Birnam: sembra così che il bosco stesso avanzi, come avevano profetizzato le streghe. Ormai sconfitto, Macbeth viene ucciso dallo stesso Macduff, non prima di aver appreso che questi era stato «strappato» dal ventre di sua madre prima di nascere (e che quindi non era propriamente “nato” da una donna).

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Violenza e soprannaturale Il protagonista si contraddistingue in primo luogo per la sua violenza omicida, progressivamente più spietata, che ben si inserisce nella struttura circolare che caratterizza i drammi storici shakespeariani: la vicenda si apre con la cruenta ascesa del protagonista al trono e si chiude con un epilogo altrettanto violento e un nuovo re in ascesa.

A caratterizzare Macbeth, in secondo luogo, è l’incontro con il soprannaturale: le ambigue profezie delle streghe rappresentano per il protagonista, più che l’incarnazione di un fato inesorabile, il pretesto per l’inizio della sua parabola omicida.

Re Lear  T3

La tragedia del tradimento Scritto in versi e in prosa nel 1605-1606 e messo in scena per la prima volta nel 1606, Re Lear presenta due vicende parallele, simili nelle linee generali: la prima, la principale, è incentrata sulla storia di Lear, re di Britannia, e delle sue tre figlie; la seconda sul conte di Gloucester e dei suoi due figli maschi.

I due anziani padri commettono lo stesso errore: Lear divide il regno tra le due figlie maggiori, Goneril e Regan, fidandosi delle loro false dichiarazioni di amore filiale, mentre la minore, la sua prediletta Cordelia, l’unica davvero sincera nell’affetto verso di lui, è allontanata in seguito al rifiuto di gareggiare con le sorelle nell’adulazione verso il padre; analogamente, Gloucester si fa ingannare dal figlio Edmund, perfido e mentitore, preferendolo all’onesto e fedele Edgar. Entrambi i personaggi, in questo modo, corrono verso la propria rovina.

Quando Lear si accorge della falsità delle due figlie maggiori, che lo hanno circuito con ipocrite esibizioni di affetto solo per accaparrarsi il suo potere, il regno è ormai diviso a metà, ed esse non mantengono fede alla promessa di ospitare il padre, a turno, con la sua scorta. Ridotto a vagabondare senza una dimora, Lear, riparato durante una tempesta in una capanna abbandonata, perde il senno per la disperazione provata di fronte alla crudeltà e all’ingratitudine del mondo.

Nell’infuriare della tempesta, con re Lear c’è anche il conte di Gloucester, che si trova in una simile situazione di rovina. Nella sventura, i due vecchi si ritrovano accanto i figli fedeli, che non serbano loro rancore per le ingiustizie subite: Gloucester è assistito da Edgar; Lear ritrova Cordelia, che, sposatasi con il re di Francia, giunge con un esercito per soccorrere il padre. L’esercito francese, tuttavia, è sconfitto da quello di Edmund, divenuto intanto conte di Gloucester, e, prima che questi paghi le proprie colpe venendo ucciso dal fratello in duello, Cordelia viene impiccata. La morte della figlia rappresenta per Lear l’ultimo, terribile colpo: egli muore sul suo cadavere. Anche le due figlie maggiori sono morte, entrambe vittime di un’insana passione per Edmund: Regan avvelenata dalla sorella, Goneril suicida, dopo che è stato scoperto il suo piano per eliminare il marito. Sopravvivono invece Edgar, reintegrato nei suoi diritti di conte di Gloucester, e il suo vecchio padre, ormai cieco. Al trono di Britannia sale il duca d’Albania, marito di Goneril, da lui odiata.

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La lotta tra bene e male Re Lear, storia di crudeltà e violenza, è forse il dramma shakespeariano più angoscioso e più disperato, i cui protagonisti diventano un’allegoria della condizione umana, presentando al pubblico, attraverso le loro dolorose vicende, la grande questione morale del rapporto tra bene e male. Se dalla vicenda si può ricavare una morale, essa è forse contenuta nelle parole che Edgar rivolge al padre cieco e disperato: «Gli uomini debbono pazientare per uscir di questo mondo come per entrarvi: tutto sta nell’essere pronti» (atto V, scena II). Immagine emblematica di questa triste condizione è la tempesta, che campeggia al centro del dramma travolgendo Lear.

Le fonti e la loro rielaborazione La vicenda di re Lear e delle sue figlie si trova nella Storia dei re di Britannia (1140 ca) dello scrittore medievale Geoffrey di Monmouth, oltre che in diverse opere successive. Essa presenta alcuni tratti comuni con la storia di Cenerentola: «la figura di Cordelia è una delle tante incarnazioni del tipo di fanciulla virtuosa perseguitata» (Praz), mentre Goneril e Regan sono vicine alle “sorellastre” malvagie della protagonista della favola di origine popolare che ha ispirato gli scrittori Charles Perrault (1628-1703) e i fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm. Nelle fonti, tuttavia, il destino di Lear non è così tremendo: egli non muore, ma trascorre serenamente l’ultima vecchiaia accanto alla figlia Cordelia, che riconquista, con l’aiuto del marito, il regno perduto. «Oltre a dimostrare l’assoluta libertà del drammaturgo rispetto alle fonti cui attinge, la variante finale, rovinosa e totale, è un esempio in più del disperato pessimismo della maturità shakespeariana» (Orlandi).
La vita   Le opere
 Nasce a Stratford-upon-Avon 1564  
 Sposa Anne Hathaway 1582  
 Lascia Stratford e si trasferisce a Londra 1588 ca  
  1582-1608 I sonetti
  1594-1597 Romeo e Giulietta
  1600-1601 Amleto
  1602-1604 Otello
 Muore Elisabetta I e sale al trono Giacomo I: Shakespeare fa parte dei King’s Man 1603  
  1605-1606 Re Lear
  1605-1608 Macbeth
 Si ritira a Stratford 1611  
 Muore a Stratford 1616  

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento