Per approfondire - La follia sulla pagina: Orlando e don Chisciotte

Per approfondire La follia sulla pagina: Orlando e don Chisciotte

Il tema della follia attraversa le letterature di tutti i pae­si, ma sicuramente si è cristallizzato in alcune figure che ne sono diventate la rappresentazione simbolica: Orlando (protagonista dell’Orlando furioso di Ariosto) e don Chisciotte aprono e chiudono un secolo che vede il dissolversi della fiducia rinascimentale nelle potenzialità dell’uomo di progettare e trasformare il mondo. Tra le due opere corrono all’incirca cento anni: Ariosto inizia nel 1505 a progettare l’Orlando furioso, che concluderà con l’edizione definitiva del 1532; un secolo dopo, in Spagna, Cervantes pubblica nel 1605 la prima parte del suo romanzo e nel 1615 la seconda.

Le analogie…

Due sono gli elementi macroscopici che legano l’opera di Cervantes al Furioso: la materia cavalleresca e la follia. Questo legame è dichiarato dallo stesso don Chisciotte che, nella prima parte del romanzo, riflettendo su quale possa essere il comportamento migliore per dimostrare al mondo il suo amore per Dulcinea, considera i casi di Orlando e di Amadigi di Gaula, altro archetipo del cavaliere errante, protagonista dell’omonimo poema spagnolo pubblicato nel 1508. A proposito di Orlando, l’hidalgo individua la causa della sua follia nell’«aver letto» i nomi di Angelica e Medoro e nell’«aver ascoltato» il racconto del pastore. L’origine della pazzia di Orlando è dunque analoga a quella dell’alterazione mentale di don Chisciotte: l’essersi nutrito di narrazioni.

… e le differenze

Tuttavia il tema della follia è affrontato nei due capolavori in modo diverso. Quella di Orlando inizia a metà dell’opera e il paladino segue un percorso che va dalla saggezza alla pazzia, per poi tornare all’equilibrio e alla ragione. Il personaggio di don Chisciotte, invece, si identifica totalmente con la condizione di folle.

Orlando viene travolto dalla follia suo malgrado; il suo comportamento successivo è segnato dall’assenza di controllo e termina grazie a un intervento esterno. Alonso Quijano, invece, sceglie di essere don Chisciotte, riflette lucidamente su quale forma di anormalità sia più congeniale al suo scopo e, consapevolmente, ne assume il contegno, così come alla fine guarisce per un’autonoma presa di coscienza, tornando alla propria identità originaria.

Cervantes definisce ironicamente il suo personaggio ingenioso, ovvero “scaltro”, “astuto”. Orlando è invece chiamato «furioso» già nel titolo, e nel proe­mio del poema si sottolinea che la sua follia sarà la materia narrata. Mentre il paladino cristiano è il migliore finché è padrone di sé e diventa moralmente riprovevole quando perde il senso della misura, Alonso Quijano non è nessuno, ma eccelle quando diventa don Chisciotte, proprio nel momento in cui le sue azioni smisurate dimostrano la sua distanza dal mondo rea­le e privo di ideali, di cui non comprende più il senso.

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La morte di don Chisciotte

Parte II, cap. 74

Dopo aver affrontato, folle ed eroico, mille imprese, combattendo contro mostri e giganti immaginari nell’illusoria convinzione di poter raddrizzare le storture del mondo, e dopo essere incorso nelle più strampalate avventure destinate al fallimento, soltanto all’ultimo don Chisciotte rinuncia al proprio sogno cavalleresco. In punto di morte si ravvede, rientra nella comune mediocrità e subito dopo esala l’ultimo respiro.

Poiché le cose umane non sono eterne, ma vanno sempre declinando dai loro

princìpi1 fino a giungere al loro ultimo termine, specialmente la vita degli uomini, 

e poiché quella di don Chisciotte non aveva dal cielo alcun privilegio per

arrestare il proprio corso, giunse il suo ultimo termine quand’egli meno se l’aspettava; 

5      perché, o per l’abbattimento che gli procurava il vedersi vinto, ovvero

per volere del cielo che così disponeva, fu preso da una febbre che lo tenne a letto

sei giorni, durante i quali ricevé molte volte la visita del curato, del baccelliere2 e

del barbiere, suoi amici, e Sancho Panza, il suo devoto scudiero, non gli si staccò

mai dal capezzale. Costoro, credendo che il dispiacere di vedersi vinto e di non

10    veder adempiuto il suo desiderio circa la liberazione e il disincanto di Dulcinea3

lo tenessero in quello stato, cercavano in tutti i modi possibili di rallegrarlo, e

il baccelliere gli diceva che si facesse coraggio e si alzasse per cominciare la sua

vita pastorale, per la quale egli aveva già composto un’ecloga che altro che tutte

quelle scritte dal Sannazzaro,4 e che aveva già comprato a sue spese due cani bravissimi 

15    per sorvegliare il gregge, uno chiamato Barcino e l’altro Butrón, e glieli

aveva venduti un allevatore di bestiame del Quintanar. Ma non per questo don

Chisciotte cessava d’esser triste.

I suoi amici chiamarono il medico: gli tastò il polso ma non ne fu molto soddisfatto 

e disse che, per ogni evenienza, avesse cura della salute dell’anima, perché

20    quella del corpo era in pericolo. Don Chisciotte udì ciò con animo sereno, ma non

così la governante, la nipote e lo scudiero, che cominciarono a piangere accoratamente, 

come se lo avessero già davanti morto. Il parere del medico fu che erano

l’abbattimento e i dispiaceri a finirlo. Don Chisciotte pregò che lo lasciassero solo,

perché voleva dormire un poco. Così fecero, ed egli dormì tutta una tirata, come

25    si dice, più di sei ore, tanto che la governante e la nipote pensarono che dovesse

restarci, nel sonno. Si svegliò in capo al tempo che s’è detto, e gridando forte disse:

«Benedetto l’onnipotente Iddio, che tanto bene mi ha fatto! Davvero le sue

misericordie non hanno limite; né i peccati degli uomini le diminuiscono e 

impediscono!».

30    La nipote stette attenta alle parole dello zio che le parvero più ragionevoli di

quelle ch’egli soleva dire, per lo meno durante quella malattia, e gli domandò:

«Che dice la signoria vostra, signore? C’è qualcosa di nuovo? Di che misericordie si

tratta, e di che peccati degli uomini?».

«Le misericordie», rispose don Chisciotte, «nipote, sono quelle che in quest’istante 

35    ha usato verso di me Dio, al quale, come ho detto, non sono d’impedimento 

i miei peccati. Ormai ho il giudizio libero e chiaro, senza le ombre calignose5

dell’ignoranza in cui me l’aveva avvolto l’incresciosa e continua lettura dei detestabili 

libri di cavalleria. Ormai capisco le loro assurdità e i loro inganni e non mi

dispiace altro se non che il riconoscimento di quest’errore sia giunto così tardi da

40    non lasciarmi tempo di fare alcuna ammenda,6 leggendone altri che siano luce

dell’anima. Io mi sento, nipote, in punto di morte; vorrei morire in modo tale da

far capire che la mia vita non è stata tanto cattiva da lasciarmi nomea di pazzo: ché

sebbene lo sia stato, non vorrei confermare questa verità con la mia morte. Chiamami, 

cara, i miei buoni amici: il curato, il baccelliere Sansón Carrasco e mastro

45    Nicolás, il barbiere, perché voglio confessarmi e far testamento».

Ma la nipote si risparmiò questa fatica, perché entravano tutti e tre. Non appena 

don Chisciotte li vide, disse:

«Congratulatevi con me, signori miei, ché non sono più don Chisciotte della

Mancha, ma Alonso Quijano a cui i retti costumi meritarono il soprannome di

50    Buono. Ormai sono nemico di Amadigi di Gaula7 e di tutta l’infinita caterva della

sua stirpe; ormai mi sono odiose tutte le storie profane della cavalleria errante; ormai 

riconosco la mia stoltezza e il pericolo a cui mi ha esposto l’averle lette; ormai,

per misericordia di Dio, avendo imparato a mie spese, le detesto».

Quando i tre gli ebbero udito dir questo, credettero, senza dubbio, che lo avesse 

55    colto qualche nuova pazzia.8 E Sansón gli disse:

«Proprio ora, signor don Chisciotte, che abbiamo notizia che la signora Dulcinea

è disincantata, se n’esce con tale discorso la signoria vostra? E proprio ora che siamo

lì lì per diventare pastori e passare la vita cantando, da principi, la signoria vostra

vuol farsi eremita? Stia zitto, per carità, ritorni in sé e lasci stare queste sciocchezze».

60    «Quelle commesse finora», replicò don Chisciotte, «che sono state vere sciocchezze 

a mio danno, la mia morte, con l’aiuto del cielo, le convertirà a mio vantaggio. Io,

signori, sento che mi avvicino alla morte a gran passi: lasciamo da parte gli scherzi

e venga qui un sacerdote che mi confessi e un notaio che scriva il mio testamento,

perché in momenti come questi l’uomo non deve prendersi giuoco dell’anima; perciò 

65    vi supplico, mentre il signor curato mi confessa, di andare a chiamare il notaio».

Si guardarono l’un l’altro, meravigliati delle parole di don Chisciotte e, pur in

dubbio, vollero credergli; e uno dei segni da cui arguirono che ormai moriva fu

l’essersi mutato con tanta facilità da pazzo in savio, perché alle parole già dette ne

aggiunse molte altre così ben espresse, così cristiane e così logiche, da toglier loro

70    del tutto i dubbi e convincerli che era in senno.

Il curato fece uscire tutti e, rimasto solo con don Chisciotte, lo confessò. Il baccelliere 

andò a chiamare il notaio e di lì a poco tornò con lui e con Sancho Panza; e

Sancho (che già sapeva, informato dal baccelliere, in che stato era il suo padrone),

trovate la nipote e la governante che piangevano, cominciò a contrarre la bocca e

75    giù a spargere lacrime. Finita la confessione, il curato venne fuori dicendo:

«Muore davvero, e davvero è in senno Alonso Quijano il Buono; ben possiamo

entrare perché faccia testamento».

Questa notizia fu un tremendo incentivo per gli occhi pieni di lacrime della governante, 

della nipote e di Sancho Panza, suo devoto scudiero, così che li fece scoppiare 

80    in pianto dirotto ed emettere mille profondi sospiri dal petto; perché davvero,

come talvolta si è detto, sia quando don Chisciotte fu solamente Alonso Quijano

il Buono, sia quando fu don Chisciotte della Mancha, fu sempre di carattere mite e

di modi piacevoli e per questo era benvoluto non solo da quelli di casa sua, ma da

quanti lo conoscevano. Entrò il notaio con gli altri e, dopo ch’egli ebbe scritto l’intestazione 

85    del testamento, don Chisciotte, raccomandata la sua anima con tutte quelle

particolari formule cristiane che si richiedono, giunto ai legati,9 disse:

«Item,10 è mia volontà che di certi denari che ha Sancho Panza, ch’io nella mia

pazzia feci mio scudiero, essendoci stati tra lui e me certi conti di dare e avere, non

gli si faccia carico, né gli si chieda alcun conto, anzi se, dopo che si sarà pagato di

90    ciò che gli devo, avanzerà qualcosa, tale rimanenza, che sarà ben poca, sia sua, e

buono pro gli faccia.11 E se come, da pazzo, contribuii a fargli dare il governo dell’isola, 

potessi ora, da savio, dargli quello di un regno, glielo darei, perché la semplicità12 

della sua indole e la fedeltà del suo comportamento lo meritano».

Poi, volgendosi a Sancho, gli disse:

95    «Perdonami, amico, di averti messo nella condizione di sembrare pazzo come

me, facendoti cadere nell’errore in cui io sono caduto, cioè che vi siano stati e vi

siano cavalieri erranti nel mondo».

«Ah!» rispose Sancho, piangendo. «Non voglia morire la signoria vostra, signor

mio, ma accetti il mio consiglio e campi molti anni, perché la maggior pazzia che

100  un uomo può fare in questa vita è di lasciarsi morire così, su due piedi, senza che

nessuno l’uccida e non lo finisca altra mano che quella della malinconia. Cerchi

di non esser pigro e si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da

pastori, come siamo rimasti d’accordo: chissà che dietro qualche cespuglio non

troviamo la signora donna Dulcinea disincantata, in modo che non si possa vedere

105 niente di più bello. Se è che se ne muore dal dispiacere di vedersi vinto, getti la

colpa su di me, dicendo che la scavalcarono perché io avevo messo male le cinghie

a Ronzinante, tanto più che la signoria vostra avrà visto nei suoi libri di cavalleria

che è una cosa ordinaria che i cavalieri si scavalchino a vicenda e quello che è vinto

oggi sarà vincitore domani».

110  «Proprio così», disse Sansón, «e il buon Sancho Panza è bene informato sulla

verità di questi casi».

«Signori», disse don Chisciotte, «andiamo molto adagio; ché nei nidi d’or è un

anno, non v’ha uccelli più quest’anno.13 Io sono stato pazzo e ora sono savio: sono

stato don Chisciotte della Mancha e ora sono, come ho detto, Alonso Quijano il

115  Buono. Possa la mia sincerità e il mio pentimento ridarmi presso di voi la stima

in cui ero tenuto, e il signor notaio vada avanti. Item, lascio ogni mio avere, interamente, 

ad Antonia Quijana mia nipote, qui presente, dopo che sia stato detratto

dalla parte che rende di più quello che sarà necessario per soddisfare i legati da me

istituiti; e il primo da soddisfare voglio che sia il pagamento alla mia governante del

120 salario che le devo per il tempo in cui mi ha servito, più venti ducati per un vestito.

Lascio per miei esecutori testamentari il signor curato e il signor baccelliere Sansón

Carrasco qui presenti. Item, è mio volere che se mia nipote Antonia Quijana vorrà

sposarsi, si sposi con un uomo di cui prima si sia accertato che non sa che cosa siano

i libri di cavalleria; e se mai si accertasse che lo sa e, con tutto ciò, mia nipote volesse

125 sposarselo, e se lo sposasse, perda tutto quanto le ho lasciato, che i miei esecutori

testamentari potranno distribuire in opere pie, a loro beneplacito. Item, scongiuro i

suddetti signori miei esecutori testamentari che se la buona sorte li portasse a conoscere 

l’autore che si dice abbia composto una storia la quale va in giro col titolo di

Seconda parte delle imprese di don Chisciotte della Mancha, gli chiedano da parte mia,

130 quanto più caldamente potranno, che mi perdoni per l’occasione che, senza volerlo,

gli ho dato di scrivere tante e così enormi balordaggini quante in essa ne scrive, perché 

parto da questa vita con lo scrupolo di avergli dato motivo di scriverle».

Con ciò chiuse il testamento e, preso da un deliquio,14 cadde lungo disteso nel

letto. Tutti si misero in agitazione e corsero in suo aiuto; egli, nei tre giorni che

135 visse dopo quello in cui aveva fatto testamento, ebbe a svenire molto spesso. La

casa era tutta in subbuglio, ma, ciò nonostante, la nipote mangiava, la governante

beveva e Sancho Panza se la godeva, perché il fatto di ereditare cancella un po’ o

attenua il rimpianto e la pena che è naturale che il morto lasci. Infine, dopo che

don Chisciotte ebbe ricevuto tutti i sacramenti ed esecrato15 con molte ed efficaci

140 parole i libri di cavalleria, giunse la sua ultima ora. Si trovò presente il notaio, e

disse di non aver mai letto in nessun libro di cavalleria che alcun cavaliere errante

fosse morto nel suo letto così tranquillamente e così cristianamente come don

Chisciotte; il quale, fra il compianto e le lacrime di coloro che si trovavano lì, esalò

il suo spirito: vale a dire che morì.

 >> pagina 136 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il baccelliere cerca di spingere don Chisciotte verso occupazioni più “normali”, come la vita pastorale (r. 13), giacché quel tipo di esperienza si esprimeva in una produzione letteraria (il romanzo pastorale) giudicata evidentemente meno “pericolosa” di quella cavalleresca: insomma, un’altra forma di pazzia libresca, ma tutto sommato non così grave. Eppure il protagonista è ormai proiettato in un’altra dimensione, non più di eroismo, bensì di bilancio esistenziale. La febbre lo risana dalla follia e lo dispone ad affrontare l’ultimo viaggio con serena lucidità.

Egli manifesta un’autocoscienza del cambiamento che si è operato in lui e della prima origine del proprio male: Ormai ho il giudizio libero e chiaro, senza le ombre calignose dell’ignoranza in cui me l’aveva avvolto l’incresciosa e continua lettura dei detestabili libri di cavalleria (rr. 36-38). Quella compiuta da don Chisciotte in punto di morte è una vera e propria abiura, cioè un abbandono completo e senza remore della fede cavalleresca: Ormai sono nemico di Amadigi di Gaula e di tutta l’infinita caterva della sua stirpe (rr. 50-51).

Per il medico, la morte inevitabile di don Chisciotte giunge a causa dell’abbattimento e dei dispiaceri (r. 23), vale a dire per la fine dei suoi sogni di onore e di gloria. Vicino al momento estremo, il cavaliere, dopo essere vissuto da pazzo, ora vuole spirare da savio. Tuttavia è come se, in tal modo, perdesse la propria identità. Ed è per questo che l’unica scelta che gli resta è la fine, mesta e pensosa conclusione di un’esistenza (e di un libro) trascorsa alla ricerca di un’alternativa alla meschina ragionevolezza del mondo.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Che cosa dispone don Chisciotte nel testamento?


2 Quali sono le caratteristiche del marito che l’hidalgo desidererebbe per sua nipote?

Analizzare

3 In quali punti del testo si può rilevare l’ironia del narratore?


4 Individua nel brano la presenza di un motivo metaletterario e spiegane il significato in relazione all’intero romanzo.

interpretare

5 Confronta questo brano con gli altri due antologizzati e spiega per quali aspetti il tono generale del testo può essere definito diverso.


6 In che modo la morte di don Chisciotte suggella la sua vicenda personale? Ti sembra che essa avvenga all’insegna di una vittoria o di una sconfitta? Motiva la tua risposta.

Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Volti e luoghi della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento