T6 - I principati nuovi che si acquistano con le armi proprie e la virtù (VI)

T6

I principati nuovi che si acquistano con le armi proprie e la virtù

Il Principe, VI

In questo capitolo Machiavelli affronta un tema centrale dell’opera: la formazione dello Stato nuovo. Gli esempi, desunti dalla Storia e dalla leggenda, sono rappresentati dalle grandi personalità giunte al potere grazie alla virtù e a milizie proprie.

De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur1

         Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e
di principe e di stato,
2 io addurrò grandissimi esempli. Perché, camminando gli
uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le 

5      imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere3 né alla virtù di quegli che
tu imiti aggiugnere,
4 debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute
da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la
sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore;
5 e fare come gli arcieri 
prudenti,6 a’ quali parendo el loco dove desegnano ferire troppo lontano,
7 e conoscendo 

10    fino a quanto va la virtù8 del loro arco, pongono la mira assai più alta
che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza,
9 ma
per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro.
Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si
truova a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso 

15    colui che gli acquista. E perché questo evento, di diventare di privato10 principe,
presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighino
in parte molte difficultà;
11 nondimanco,12 colui che è stato meno in su la fortuna
si è mantenuto più.
13 Genera ancora facilità essere el principe constretto, per non
avere altri stati, venire personalmente ad abitarvi.
14

20    Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati
principi, dico che e’ più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo
15 e simili. E
benché di Moisè non si debba ragionare,
16 sendo suto17 uno mero esecutore delle
cose che gli erano ordinate da Dio, tamen
18 debbe essere ammirato, solum19 per
quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma considerato Ciro e li altri 

25    che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili;20 e se si considerranno
le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti
21 da quegli 
di Moisè, che ebbe sì gran precettore.22 Ed esaminando le azioni e vita loro non
si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro
materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse
23 loro: e sanza quella 

30    occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione
sarebbe venuta invano.


Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo24 e
oppresso da li Egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo.25
Conveniva che Romulo non capessi in Alba,
26 fussi stato esposto al nascere,27 

35    a volere che28 diventassi re di Roma e fondatore di quella patria.29 Bisognava che
Ciro trovassi e’ Persi malcontenti dello imperio de’ Medi,
30 ed e’ Medi molli ed
effeminati per la lunga pace. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non
trovava gli Ateniesi dispersi.
31 Queste occasioni per tanto feciono32 questi uomini
felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta:
33 donde la 

40    loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima.34
Quelli e’ quali per vie virtuose, simili a costoro, diventono principi, acquistano
el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli
35
hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi
che sono forzati
36 introdurre per fondare lo stato loro e la loro sicurtà. E debbasi 

45    considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né
più pericolosa a maneggiare, che farsi capo
37 di introdurre nuovi ordini. Perché lo
introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene,
38 e ha
tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene: la quale tepidezza
nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte 

50    da la incredulità39 degli uomini, e’ quali non credono in verità40 le cose nuove, se
non ne veggono nata una ferma esperienza.
41 Donde nasce che, qualunque volta
quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente,
42 e
quelli altri
43 difendono tiepidamente: in modo che insieme con loro si periclita.44
È necessario pertanto, volendo discorrere45 bene questa parte, esaminare se 

55    questi innovatori stanno per loro medesimi o se dependono da altri:46 cioè se per
condurre l’opera loro bisogna che preghino,
47 o vero possono forzare.48 Nel primo
caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono
da loro propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque
che tutti e’ profeti
49 armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno. Perché, oltre alle cose

60    dette, la natura de’ populi è varia50 ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile
fermarli in quella persuasione:
51 e però conviene essere ordinato52 in modo
che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro,
Teseo e Romulo non arebbono
53 potuto fare osservare loro lungamente le loro
constituzioni,
54 se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne55 a fra 

65    Ieronimo Savonerola,56 il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come57 la moltitudine
cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi
58 quelli che avevano
creduto né a fare credere e’ discredenti.
59 Però questi tali hanno nel condursi
grande difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via
60 e conviene che con la virtù gli
superino. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in venerazione,
61 

70    avendo spenti quegli che di sua qualità gli avevano invidia,62 rimangono potenti,
sicuri, onorati e felici.
A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche
proporzione con quegli,
63 e voglio mi basti per tutti gli altri simili: e questo è 
Ierone siracusano.
64 Costui di privato diventò principe di Siracusa; né ancora65 lui 

75    conobbe66 altro da la fortuna che la occasione: perché, sendo e’ siracusani oppressi,
lo elessono per loro capitano; donde meritò di essere fatto loro principe. E fu di 
tanta virtù, etiam in privata fortuna,
67 che chi ne scrive dice «quod nihil illi deerat 
ad regnandum praeter regnum».
68 Costui spense69 la milizia vecchia, ordinò della 
nuova;
70 lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati 

80    che fussino sua, possé71 in su tale fondamento edificare ogni edifizio, tanto che
lui durò assai fatica
72 in acquistare e poca in mantenere.

 >> pagina 870

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il capitolo si apre con una premessa metodologica di grande importanza, perché chiarisce le basi del principio di imitazione adottato da Machiavelli. Questi infatti precisa che, per avere successo, è necessario seguire l’esempio degli uomini grandi, in modo che, se anche non fosse possibile eguagliarne i risultati, ci si possa almeno avvicinare (ne renda qualche odore, r. 8).

Tale pratica è essenziale poiché la natura umana è immutabile attraverso i secoli (camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri, rr. 3-4). Tuttavia, non si pensi che l’imitazione riesca sempre in modo perfetto, sia per la difficoltà di eguagliare i grandi uomini del passato sia perché le condizioni specifiche delle varie epoche non possono essere identiche. E qui si innesta la metafora* degli arcieri prudenti (rr. 8-9), i quali per pervenire al disegno (r. 12) devono alzare la mira, consci che il bersaglio deve essere commisurato alle proprie forze.

 >> pagina 871 

Due sono i prerequisiti fondamentali per conquistare il potere: la virtù e la fortuna. L’assenza di uno di questi due elementi determina il fallimento dell’azione. Machiavelli aggiunge però che è necessario affidarsi alla virtù per poter sfruttare adeguatamente le occasioni propizie offerte dalla fortuna. Per avvalorare il concetto, si serve di esempi illustri tratti dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla Storia, come Mosè, Ciro, Romolo e Teseo. Con la sola eccezione di Romolo, si tratta di eroi che hanno agito trasformando una momentanea condizione di rovina in una occasione privilegiata per fondare uno Stato nuovo.

In quest’ottica, si capisce come la virtù di cui parla Machiavelli si configuri come quell’insieme di forza, capacità e acume che permette di cogliere con energica prontezza l’occasione quando questa si presenta.

L’innovatore che acquista il potere deve essere inoltre consapevole che la sua azione è inizialmente mal vista e osteggiata da quanti traggono un utile nelle vecchie istituzioni, mentre quella dei conservatori gode normalmente di sostenitori più agguerriti. Per questa ragione, un «principe nuovo» deve adottare delle contromisure che gli permettano di contrapporsi efficacemente agli oppositori. La contromisura più efficace è l’uso della forza, che è il migliore strumento per vincere avversari e avversità.

Attraverso il suo tipico procedimento, Machiavelli arriva a concludere il ragionamento con una massima perentoria, che non ammette eccezioni: e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno (r. 59). Infatti, la Storia, antica e recente, si incarica di confermare questa affermazione: i quattro esempi già citati erano tutti profeti armati. Disarmato, e perciò condannato alla sconfitta, è stato invece Savonarola, del quale Machiavelli non critica il progetto ideologico, ma soltanto l’imperizia strategica, che lo ha portato alla rovina. Il suo caso permette di capire che, per mantenere saldo il consenso popolare, sempre incostante e inaffidabile, la virtù deve accompagnarsi alla forza.

Le scelte stilistiche

Il passo proposto esemplifica, specialmente nella prima parte, il periodare tipico della prosa machiavelliana: troviamo infatti una serie assai lunga di coordinate e subordinate, che riproducono l’andamento del pensiero, fino alla conclusione logica, efficacemente resa con un’immagine popolaresca (almeno ne renda qualche odore, r. 8).

Significativi sono il ricorso al procedimento “dilemmatico”, realizzato con l’uso della disgiunzione (o virtù o fortuna, r. 16; se questi innovatori stanno per loro medesimi o se dependono da altri […] bisogna che preghino, o vero possono forzare, rr. 54-56) e l’impiego delle massime, che tendono ad assolutizzare con lapidaria incisività la visione machiavelliana dell’uomo (la incredulità degli uomini, e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza, rr. 50-51; e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati rui­norno, r. 59). La medesima esigenza di togliere ogni dubbio a quanto è stato affermato si esprime inoltre attraverso un’altra costante dello stile dell’autore fiorentino, le formule verbali di necessità (Era adunque necessario, r. 32; Conveniva, r. 34, o conviene che, r. 68; Bisognava che, r. 35; E debbasi, r. 44).

 >> pagina 872 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 La breve premessa iniziale spiega il criterio a cui si ispira l’analisi successiva. Qual è il contenuto di questa introduzione?


2 Quali sono le caratteristiche che accomunano gli uomini dell’antichità citati nel capitolo?


3 In che cosa consistono per Machiavelli i limiti dell’azione di Savonarola?


4 Perché a Gerone bastò poca fatica (r. 81) per mantenere quanto aveva costruito?

ANALIZZARE

5 Perché il passo dello storico Giustino (rr. 77-78) è citato direttamente in latino, anziché essere tradotto o rielaborato da Machiavelli?

interpretare

6 La scelta di menzionare Mosè, Ciro, Romolo e Teseo non è casuale: a quali criteri risponde?

Produrre

7 Scrivere per argomentare. Nel mondo di oggi quanto conta la fortuna e quanto la “virtù”, le capacità? Secondo te la visione machiavelliana è ancora attuale? perché? Spiegalo in un testo argomentativo di circa 30 righe, portando degli esempi concreti a sostegno della tua tesi.


8 Scrivere per esporre. Machiavelli dice che e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno (r. 59), ma nella storia del Novecento ci sono grandi esempi di lotta non violenta (Gandhi, Martin Luther King, Mandela ecc.). Fai una ricerca su uno di questi casi ed elabora un testo di presentazione di circa 30 righe.

T7

I principati nuovi che si acquistano con le armi di altri e con la fortuna

Il Principe, VII

Dagli esempi degli antichi eroi si giunge qui a un modello di principe contemporaneo. In questo capitolo, Machiavelli si sofferma a delineare le caratteristiche di un principe condotto al potere dalla fortuna e dalle milizie altrui: la figura dell’eroe virtuoso capace di plasmare, grazie all’azione, la materia offertagli dalla fortuna è Cesare Borgia, detto il Valentino.

Il testo che proponiamo è in italiano moderno, nella riscrittura di Luigi Firpo.

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Audiolettura

         1. Coloro che solamente con l’aiuto della fortuna da privati cittadini diventano
principi, con poca fatica diventano principi, ma con grande fatica mantengono il
potere. Essi non incontrano alcuna difficoltà lungo il percorso, perché lo fanno
come se volassero. Ma tutte le difficoltà sorgono quando sono giunti al potere. 

5      Casi di questo tipo si presentano, quando un principe ottiene uno stato o per
danari o per la grazia di chi lo concede. Ciò avvenne a molti in Grecia, nelle città
della Ionia e dell’Ellesponto. Essi furono fatti principi da Dario,1 affinché mantenessero
quelle città per la sua sicurezza e per la sua gloria. Ciò avvenne ancora a 
quegli imperatori romani che, da cittadini privati, pervenivano al potere mediante 

10    la corruzione dei soldati.2 Essi restano semplicemente in balia della volontà e della
fortuna di chi ha loro concesso il potere, due cose molto volubili ed instabili.
E non sanno e non possono mantenere quel grado.
Non sanno, perché, se non è
uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto
come cittadino privato, sappia comandare.
Non possono, perché non hanno forze 

15    che possano essere loro amiche e fedeli. E poi gli stati che sono sorti in pochissimo
tempo, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono in poco
tempo, non possono far penetrare in profondità le loro radici e le loro ramificazioni.
In tal modo il primo tempo avverso li spegne,
3 se, come si è detto, costoro,
che così rapidamente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che sappiano 

20    subito prepararsi a conservare quello che la fortuna ha messo loro in grembo,
e gli costruiscano poi quelle fondamenta che gli altri principi hanno fatto prima
di diventare principi.

2. All’uno ed all’altro di questi modi di diventare principe per virtù o per
fortuna io voglio addurre due esempi che sono avvenuti a nostra memoria. 4 Essi

25    sono Francesco Sforza5 e Cesare Borgia.6 Francesco Sforza con i debiti mezzi7 e
con una grande virtù, da privato diventò duca di Milano. E quello che con mille
affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Cesare Borgia, chiamato dal
volgo duca Valentino, acquistò invece lo stato con la fortuna del padre, e con
quella lo perdette. Non servì a nulla che usasse ogni opera e facesse tutte quelle 

30    cose che un uomo prudente e virtuoso doveva fare, per mettere le radici in quegli
stati che le armi e la fortuna di altri gli avevano concesso. Come più sopra si disse,
chi non fa le fondamenta prima, potrebbe con una grande virtù farle poi, per
quanto si facciano con disagio dell’architetto e pericolo dell’edificio. Se dunque
si considerano tutti i modi di agire del duca, si vedrà che egli ha fatto grandi fondamenta 

35    alla sua futura potenza. Di esse non giudico superfluo discutere, perché
io non saprei quali precetti migliori dare a un principe nuovo, che l’esempio
delle sue azioni. E, se i suoi ordinamenti politici non gli recarono profitto, non
fu colpa sua, perché ciò dipese da una straordinaria ed estrema malignità della
fortuna.

40    3. Nel voler fare grande il duca suo figlio, Alessandro VI8 aveva numerose difficoltà 
presenti e future. Per prima cosa non vedeva via di poterlo fare signore di 
alcuno stato che non fosse lo stato di Chiesa.9 E, se si volgeva a togliere quello della 
Chiesa, sapeva che il duca di Milano e i veneziani non glielo avrebbero acconsentito,10
perché Faenza e Rimini erano già sotto la protezione dei veneziani. Per 

45    seconda cosa vedeva che gli eserciti dell’Italia11 (in particolare quello di colui di 
cui si poteva servire) erano nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza
del papa. Perciò non se ne poteva fidare, poiché erano tutti capeggiati dagli Orsini 
e dai Colonna,
12 e dai loro complici. Era adunque necessario che si sconvolgessero
quegli ordinamenti politici e che si disarticolassero gli stati di costoro, per far sì 

50    che egli si potesse insediare con sicurezza su parte di quegli stati. Ciò gli fu facile; 
perché trovò che i veneziani, mossi da altre cause, avevano deciso di far ritornare i 
francesi in Italia.
13 Ciò non solamente non ostacolò i suoi piani, ma li rese anche 
più facili con lo scioglimento del precedente matrimonio del re Luigi XII.14 Il re 
passò dunque in Italia con l’aiuto dei veneziani e con il consenso di Alessandro 

55    VI. Non era giunto a Milano, che il papa ebbe da lui un contingente di soldati15
per l’impresa di Romagna.16 Essa gli fu resa possibile per la reputazione17 del re. 
Così egli acquistò la Romagna e batté i Colonna. Per mantenerla e per procedere 
con i suoi piani, il duca era impedito
18 da due cose: l’una, le sue armi che non gli 
sembravano fedeli; l’altra, la volontà della Francia. Egli temeva che le armi degli 

60    Orsini, delle quali si era finora valso, lo abbandonassero, e non solamente gli 
impedissero di acquistare altri territori, ma gli togliessero anche quelli che aveva 
acquistato. Temeva che anche il re si comportasse allo stesso modo. Della scarsa 
affidabilità degli Orsini ebbe un riscontro di lì a poco, quando dopo l’espugnazione 
di Faenza, assalì Bologna. Li vide andare freddi in quell’assalto.
19 Circa il re, 

65    conobbe il suo animo quando, conquistato il ducato di Urbino, assalì la Toscana. 
Da questa impresa il re lo fece desistere. Perciò il duca decise di non dipendere
più dalle armi e dalla fortuna di altri. Per prima cosa indebolì i partigiani degli 
Orsini e dei Colonna in Roma: guadagnò
20 tutti i loro aderenti che fossero gentiluomini,21
facendoli suoi gentiluomini e dando loro grandi stipendi. Secondo le 

70    loro qualità li onorò di comandi militari e di governi. In tal modo in pochi mesi 
negli animi loro l’attaccamento alle fazioni si spense e si volse tutto verso il duca. 
Dopo questa, aspettò l’occasione di spegnere gli Orsini, avendo dispersi quelli 
di casa Colonna. L’occasione gli giunse bene ed egli la usò meglio.
22 Gli Orsini
si erano accorti troppo tardi che la grandezza del duca e della Chiesa erano la 

75    loro rovina. Perciò fecero una riunione alla Magione, nel territorio di Perugia. Da
quella riunione nacquero la ribellione di Urbino, i tumulti di Romagna e infiniti
altri pericoli. Il duca li superò tutti con l’aiuto dei francesi. Una volta riacquistata
la reputazione, non fidandosi della Francia né delle altre forze esterne, per non
doversi scontrare con esse, ricorse agli inganni. Seppe tanto dissimulare il suo 

80    animo, che gli Orsini, attraverso il signor Paolo Orsini, si riconciliarono con lui.23
Con lui il duca ricorse ad ogni genere di cortesie per rassicurarlo. Gli diede dana
ri,
vesti e cavalli; tanto che la loro semplicità
24 li condusse a Sinigallia nelle sue
mani.
25 Spegnendo questi capi e riducendo i loro partigiani ad amici suoi, il duca
aveva gettato fondamenta molto buone alla sua potenza: aveva il possesso della 

85    Romagna con il ducato di Urbino. In particolare gli sembrava di aver acquistato
l’amicizia della Romagna e di essersi guadagnato tutti quei popoli, che avevano
incominciato a gustare il loro bene essere.
26

4. Questa parte è degna di nota e merita di essere imitata da altri, perciò non
la voglio tralasciare. Il duca conquistò la Romagna e trovò che era stata comandata

90    da signori impotenti, che avevano spogliato i loro sudditi più che riportati all’ordine.
E avevano dato loro motivi di disunione, non di unione,
27 tanto che quella
provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e di ogni altro genere di insolenza.
28
Per ridurla pacifica e obbediente al potere sovrano, egli giudicò che fosse necessario
darle un buon governo. Perciò vi prepose messer Remirro de Orco,
29 un uomo 

95    crudele e di modi sbrigativi, al quale dette i pieni poteri. Costui in poco tempo la
ridusse pacifica ed unita, ottenendo una grandissima reputazione. Il duca giudicò
poi che non era necessario un’autorità così eccessiva, perché temeva che divenisse
odiosa. E prepose un tribunale civile
30 al centro della provincia con un presidente
davvero eccellente.
31 In esso ogni città aveva il suo avvocato. E, poiché capiva che le 

100  repressioni precedenti gli avevano procurato qualche odio,32 per liberare da ogni
ostilità gli animi di quei popoli e guadagnarseli del tutto, volle mostrare che, se era
avvenuta qualche crudeltà, non era stata colpa sua, ma del cattivo carattere del ministro.
33
Cogliendo l’occasione opportuna, una mattina lo fece mettere tagliato in
due pezzi sulla piazza di Cesena, con un pezzo di legno e un coltello insanguinato 

105  accanto.34 La ferocia di quello spettacolo fece sì che quei popoli rimanessero ad un
tempo soddisfatti e stupiti.
35
5. Ma ritorniamo al punto di partenza. Dico che il duca si trovava assai potente
ed in parte si era assicurato dei presenti pericoli, poiché si era armato a suo modo e
aveva in buona parte spente quelle armi che, vicine, lo potevano offendere. Ora, se 

110 voleva procedere con l’acquisto di altri territori, gli restava il rispetto del re di Francia.
Egli capiva che il re, il quale si era accorto troppo tardi del suo errore,
36 non
glielo avrebbe permesso. Per questo motivo incominciò a cercare nuove amicizie e
a prendere le distanze con la Francia, quando i francesi fecero una spedizione verso
il regno di Napoli contro agli spagnoli che assediavano Gaeta.
37 La sua intenzione 

115 era quella di assicurarsi la loro neutralità. Ciò gli sarebbe facilmente riuscito, se
Alessandro VI fosse rimasto in vita.
38

6. Questi furono i suoi comportamenti quanto alle cose presenti. Ma, quanto
alle future, egli temeva in primo luogo che il nuovo successore alla Chiesa39
non gli fosse amico e che cercasse di togliergli quello che Alessandro VI gli aveva

120 dato. Pensò di eliminare ogni incertezza in quattro modi: primo, spegnere
tutti i discendenti di quelli signori che egli aveva spogliato, per togliere al papa
quell’occasione; secondo, guadagnarsi tutti i gentiluomini di Roma, per potere
tenere con quelli il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio dei cardinali più suo 
che poteva;40 quarto, acquistare tanto potere, prima che il papa morisse, da poter 

125 resistere da solo a un primo scontro. Alla morte di Alessandro VI aveva condotto
a termine tre di queste quattro imprese. Aveva quasi portato a termine anche la
quarta. Dei signori spogliati dei loro beni ne ammazzò quanti ne poté raggiungere,
e pochissimi si salvarono. Si era guadagnato i gentiluomini romani. E nel
Collegio cardinalizio aveva grandissimo séguito. Quanto al nuovo acquisto, aveva 

130 disegnato di diventare signore della Toscana. Possedeva già Perugia e Piombino,
e aveva preso la protezione di Pisa. E, come se non dovesse avere rispetto per
la Francia (non gliene doveva più, perché i francesi erano già stati spogliati del
Regno di Napoli dagli spagnoli, così che ciascuno di loro era costretto a comperare
la sua amicizia), assaliva
41 con successo la città di Pisa. Dopo questo, Lucca e 

135 Siena cedevano42 subito, in parte per invidia43 dei fiorentini, in parte per paura. I
fiorentini non avevano alcun rimedio da opporre.
44 Se ciò gli fosse riuscito (gli riusciva45
l’anno stesso in cui Alessandro VI moriva), acquistava tante forze e tanta
reputazione, che si sarebbe sorretto da solo, e non sarebbe più dipeso dalla fortuna
né dalle forze di altri, ma dalla sua potenza e dalla sua virtù. Ma Alessandro VI 

140 morì dopo cinque anni che egli aveva incominciato ad impugnare la spada.46 Lo
lasciò con lo stato di Romagna solamente consolidato, con tutti gli altri in aria,
47
tra due potentissimi eserciti nemici,
48 e soprattutto malato a morte.49 Il duca era
di grande ferocia e di grande virtù; conosceva bene come gli uomini si guadagnano
e si perdono; ed al suo stato aveva anche saputo costruire valide fondamenta 

145 in poco tempo. Per questo motivo, se non avesse avuto quegli eserciti addosso o
se egli fosse stato sano, avrebbe saputo far fronte ad ogni difficoltà. E che le sue
fondamenta fossero buone, si vide con sicurezza: la Romagna l’aspettò per più 
d’un mese;50 a Roma, per quanto mezzo morto, stette sicuro; e, benché Baglioni,
Vitelli ed Orsini51 venissero in Roma, non tentarono nulla contro di lui. Egli poté 

150 fare papa, se non chi egli voleva, almeno che non fosse chi non voleva.52 Ma, se
alla morte di Alessandro VI fosse stato sano, ogni cosa gli era facile. Egli mi disse,
nei giorni in cui fu nominato Giulio II,
53 che aveva pensato a ciò che poteva succedere,
alla morte di suo padre, e a tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non
pensò mai, alla sua morte, di stare ancora lui per morire.

155  7. Riflettendo su tutte le azioni del duca qui riportate, non saprei rimproverarlo.
Mi pare anzi, come ho già fatto, di poterlo indicare come modello da
imitare per tutti coloro che grazie alla fortuna e con le armi di altri sono saliti al
potere. Egli aveva un grande animo e una nobile intenzione,54 perciò non si poteva
comportare in altro modo. Ai suoi disegni si oppose soltanto la brevità della 

160 vita di Alessandro VI e la sua malattia. Chi dunque giudica necessario nel suo
principato nuovo assicurarsi dei nemici,55 guadagnarsi degli amici, vincere o per
forza o per frode, farsi amare e temere dai popoli, farsi seguire e farsi temere dai
soldati, spegnere quelli che ti possono o ti devono offendere, innovare con nuove
istituzioni gli ordinamenti politici antichi, essere severo e grato, magnanimo e 

165 liberale, spegnere la milizia infedele, crearne una nuova, mantenere le amicizie 
di re e di principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o a offendere
con rispetto,56 non può trovare esempi più freschi57 che le azioni di costui. Si può
solamente muovergli qualche rimprovero per la nomina del pontefice Giulio II,
nella quale egli fece una cattiva scelta. Come si è detto, se non poteva fare un 

170 papa a suo modo, poteva almeno ottenere che uno non fosse papa. Non doveva
neanche permettere che divenisse papa uno di quei cardinali che egli aveva offeso
o, se lo diveniva, doveva fare in modo che avesse paura di lui. Gli uomini
offendono o per paura o per odio. Quelli che egli aveva offeso erano, fra gli altri,
San Pietro in Vincoli, Giovanni Colonna, San Giorgio, Ascanio Sforza. Tutti gli 

175 altri cardinali, che fossero divenuti papa, dovevano temerlo, eccetto Roano e gli
spagnoli. Questi per il legame di parentela e per obbligo; quello per la potenza,
poiché aveva alle spalle il re di Francia.58 Pertanto il duca, prima di ogni altra
cosa, doveva creare papa uno spagnolo. Non potendo, doveva acconsentire che
fosse Roano e non San Pietro in Vincoli. E chi crede che nei grandi personaggi i 

180 benefici nuovi facciano dimenticare le ingiurie vecchie, si inganna. Il duca quindi
commise un errore in questa elezione. E questo errore fu causa della sua rovina
definitiva.

 >> pagina 878

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I contenuti tematici

A differenza della condizione analizzata nel capitolo VI, nel VII Machiavelli prende in esame una situazione più difficile, quella di chi voglia mantenere il potere dovendo dipendere dalle armi e la fortuna di altri (r. 31). Questa è un’impresa ardua, in quanto al principe che ha beneficiato della fortuna spetta il compito poi di emanciparsi da essa. Infatti, uno Stato costituito solo grazie al concorso di circostanze esterne propizie è paragonato a un albero cresciuto in fretta, senza le radici e le loro ramificazioni (rr. 17-18): questa metafora* botanica rivela ancora una volta la concezione naturalistica di Machiavelli e rende l’idea della vulnerabilità dello Stato, se a esso non vengono fornite al più presto le fondamenta, che la fortuna non è in grado di erigere.

Fatte queste premesse generali su Coloro che solamente con l’aiuto della fortuna da privati cittadini diventano principi (rr. 1-2), Machiavelli dedica tutto il capitolo a una figura esemplare: il duca Valentino, Cesare Borgia, figlio naturale di papa Alessandro VI. La ricostruzione della vicenda del Valentino offre un documento eccezionale della realtà delle lotte per il potere in un Cinquecento brutale e sanguinario, ben lontano dall’immagine idealizzante divulgata dall’arte rinascimentale. Il personaggio, così come lo delinea Machiavelli, assume le fattezze di un eroe tragico e grandioso, in lotta con gli ingranaggi di un potere losco e subdolo, costretto a soccombere, pure a dispetto delle sue grandi virtù.

Per descrivere l’azione politica del principe seguiremo l’andamento cronologico utilizzato dall’autore isolando tre fasi essenziali.

La conquista dello Stato. Il racconto delle vicende del Valentino inizia con le numerose difficoltà presenti e future di papa Alessandro VI nel voler fare grande il duca suo figlio (rr. 40-41) e dargli un principato. La discesa in Italia di Luigi XII permette al pontefice di superare i due ostacoli maggiori: l’opposizione veneziana e milanese e l’insidia rappresentata dalle fazioni legate alle potenti famiglie romane degli Orsini e dei Colonna.

Il rafforzamento del potere. Ottenuto il principato, Cesare Borgia mostra risolutezza nel non dipendere più dalle armi e la fortuna di altri (r. 31). Machiavelli indica le sue iniziative più lungimiranti (e, in alcune occasioni, efferate, ma ciò non induce l’autore a stigmatizzarle): uccidere gli Orsini, accaparrarsi il favore dei romagnoli, preparare un’alleanza con gli spagnoli.

I progetti futuri e la sconfitta. Il Valentino è consapevole che la stabilità del suo Stato deriva dal favore del papa, e inizia a operare in modo che il pontefice destinato a succedere al padre non gli sia ostile. A questo fine, uccide gli eredi e i parenti di quelli che aveva spogliato di beni e potere, e si guadagna il favore dei nobili romani e del Collegio cardinalizio.

Eppure, nonostante la sua abilità, il tentativo del Valentino fallisce. L’avversativa usata da Machiavelli (Ma Alessandro VI morì, rr. 139-140) evidenzia l’ingerenza negativa della fortuna, che si concretizza nella morte del padre e nella malattia del principe. Il capitolo dunque sembrerebbe avviarsi a un epilogo sconsolante: la fortuna è onnipotente, se è vero che anche un uomo “virtuoso” come il Valentino non ha potuto resisterle.

Tuttavia, in conclusione Machiavelli introduce una diversa valutazione e attribuisce al Valentino un errore di calcolo imperdonabile e fatale. Si può solamente muovergli qualche rimprovero (rr. 167-168) per non avere evitato che alla morte di papa Pio III ascendesse al soglio pontificio un irriducibile nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere: la rovina di Cesare Borgia è dipesa proprio da questa cattiva scelta (r. 169).

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi in 20 righe il contenuto del capitolo.


2 L’insuccesso finale del Valentino viene spiegato da Machiavelli fornendo, in passi diversi, due interpretazioni contraddittorie tra loro. Quali?

ANALIZZARE

3 Quali eventi, tra quelli narrati, hanno avuto Machiavelli come testimone diretto?

INTERPRETARE

4 Oltre a quello di Cesare Borgia, l’autore analizza anche l’operato di Francesco Sforza. Perché?


5 Sintetizza le ragioni dell’ammirazione di Machiavelli per il Valentino esposte nel capitolo.

Produrre

6 Scrivere per esprimere. Immagina di essere l’avvocato difensore del Valentino e il pubblico ministero che lo accusa. Metti per iscritto le due arringhe.

Dibattito in classe

7 Secondo Machiavelli, il potere politico conquistato con l’appoggio di altri è più instabile rispetto a quello conquistato facendo affidamento unicamente sui propri mezzi. Sei d’accordo con lui? Ti vengono in mente esempi, storici o recenti, che suffraghino l’una o l’altra tesi? Discutine con i compagni.

Per approfondire La spietatezza al potere: Cesare Borgia

La vita pubblica di Cesare Borgia, nato a Roma nel 1475, iniziò nel 1492, quando il padre Rodrigo venne eletto papa con il nome di Alessandro VI. Già vescovo di Pamplona, cardinale dal 1493, Cesare aveva però tra sé e il successo la presenza del fratello minore, Giovanni, figlio prediletto del papa. La sua scomparsa misteriosa e prematura rappresentò il via libera ai suoi sogni di gloria. Che cosa era successo? Di certo sappiamo solo che il corpo di Giovanni fu ripescato nelle acque del Tevere, nel giugno 1497. Chi lo aveva ucciso? Si fece subito una ridda di ipotesi: gli Orsini, gli Sforza, addirittura la vendetta di un marito tradito. In ultimo, i sospetti caddero su Cesare, ma non furono mai confermati. Sicuro è invece che, dopo la scomparsa del rivale, egli non incontrò più ostacoli: deposta la dignità cardinalizia (1498), ottenne dal re di Francia la contea del Valentinois, che, mutata in ducato, gli diede il nome di duca Valentino.

Sposò poi la sorella del re di Navarra (1499) e, con milizie fornitegli dal re di Francia e assoldate con i denari del papa, si creò uno Stato. S’impadronì infatti di Imola e Forlì (1499-1500), assumendo il titolo di vicario per la Chiesa, e poi riprese la conquista della Romagna. Aiutò la Francia nella guerra per la spartizione del Regno di Napoli; come duca di Romagna, si impossessò del ducato di Urbino e di Camerino. Le pagine di Machiavelli ci informano su tutte le sue azioni successive. Messo in pericolo il suo Stato dalle ribellioni di Urbino e Camerino, Cesare seppe patteggiare e creare divisioni tra i congiurati, sbarazzandosi, con il tradimento a Senigallia, di alcuni di essi. Meditava progetti di espansione quando la morte del padre (1503) stroncò i suoi disegni. Dopo il breve pontificato di Pio III, Giulio II (appartenente alla famiglia della Rovere, acerrima rivale dei Borgia) tolse al Valentino il governo della Romagna e lo imprigionò. Fuggito per due volte, nel 1506 riparò presso il cognato, il re di Navarra, e l’anno dopo morì durante l’assedio di Viana, in Spagna.

Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento