La vita

La vita

 Le origini familiari e la formazione intellettuale

Un’educazione umanistica Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese, non agiata ma colta; tuttavia, nonostante l’iniziale scarsità di mezzi, riceve dal padre avvocato una buona educazione umanistica, fondata sulla conoscenza della lingua latina. Tra i suoi libri preferiti c’è il De rerum natura (La natura delle cose), il poema dell’autore latino Lucrezio (I secolo a.C.), che decide di trascrivere. È un primo indizio della personalità del giovane, il cui interesse va a un testo di ispirazione materialistica in anni in cui, a Firenze, Girolamo Savonarola predica i valori dello spirito e il disprezzo del mondo. Proprio a Savonarola sono dedicate invece le sue prime riflessioni politiche, estremamente critiche nei confronti dell’operato e della personalità del frate.

Per approfondire Girolamo Savonarola

Nato a Ferrara nel 1452, Girolamo Savonarola viene ammesso nel 1475 nell’ordine domenicano e qualche anno dopo (1482) si trasferisce nel convento di San Marco a Firenze. Stimato dal filosofo Pico della Mirandola e ascoltato dallo stesso Lorenzo il Magnifico, Savonarola polemizza aspramente contro l’Umanesimo e contro l’arte e il clima festoso che si respira a Firenze e che egli giudica pagano. Alla caduta dei Medici, nel 1494, si fa promotore di una riforma istituzionale in senso repubblicano e lancia una vigorosa campagna per la moralizzazione della vita cittadina. Libri e stampe licenziose, abbigliamenti femminili sconvenienti e oggetti di lusso vengono arsi nei cosiddetti «bruciamenti [cioè falò] di vanità».

Le sue continue condanne della corruzione della Chiesa spingono papa Alessandro VI a convocarlo a Roma. Savonarola rifiuta di presentarsi e oppone resistenza anche all’ordine di interrompere le sue prediche. Nel maggio 1497 viene dunque scomunicato e l’anno successivo è costretto a sottoporsi a un processo, al termine del quale è condannato al rogo per eresia e impostura. La sentenza viene eseguita il 23 maggio 1498 in piazza della Signoria. Tuttavia, il suo nome e il suo operato continueranno a dividere i fiorentini. Machiavelli, nel capitolo VI del Principe ( T6, p. 864), ne farà l’emblema del “profeta disarmato”, ossia del politico che rifiuta l’uso della forza e perciò è destinato a “ruinare” (a fallire nel proprio intento).

 La carriera politica e l’esilio

La rapida ascesa al potere Dopo la condanna e l’esecuzione di Savonarola (1498), Niccolò inizia la carriera politica. Nel giugno del 1498 assume infatti il ruolo di segretario della seconda Cancelleria della Repubblica. Poco dopo gli viene affidato l’incarico di dirigere i “Dieci di libertà e pace”, una magistratura di carattere diplomatico-militare. Già in questi anni gli interessi di Machiavelli sono chiari: la diplomazia e l’esercito, ambiti fondamentali della sua futura elaborazione della scienza politica. Nel 1506 fonda i “Nove ufficiali dell’ordinanza e della milizia fiorentina”, un organismo che ristruttura le milizie della città.
La riorganizzazione dell’esercito L’esercito svolge in quegli anni convulsi un ruolo preminente. Il governo repubblicano, guidato dal gran gonfaloniere Pier Soderini, è minacciato su più fronti: all’interno, dove non mancano gli oppositori, specie quelli di parte medicea; all’esterno, dove preoccupano le mire espansionistiche di Venezia e dello Stato della Chiesa e le ambizioni di Cesare Borgia, il famoso duca Valentino ( p. 879), che sta ampliando il suo dominio nell’Italia centro-settentrionale con l’aiuto del padre, papa Alessandro VI. In tale panorama, l’ascesa di Machiavelli è fulminea.

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Gli incarichi diplomatici In breve tempo, Niccolò diventa l’uomo di fiducia di Pier Soderini. Importanti missioni diplomatiche lo portano a osservare dall’interno gli ingranaggi del potere. Nel 1500 e nel 1504 è presso il re di Francia Luigi XII; nel 1502 incontra per due volte il duca Valentino, che indicherà nel Principe come un modello da imitare. Nel 1503 è presente al conclave che elegge papa il cardinale Giuliano della Rovere con il nome di Giulio II. Negli anni successivi gli incarichi di ambasceria si infittiscono ancora di più; tra gli altri, assai importante si rivela il compito di predisporre la leva per la formazione di un esercito cittadino: lo stesso Machiavelli aveva segnalato tutti gli inconvenienti delle truppe mercenarie, che descriverà poi nella sua opera. Il reclutamento, sulle prime, sembra felice, tanto che a suo merito viene ascritto il riuscito assedio di Pisa, nel 1509.
Il ritorno dei Medici a Firenze Rapida, come era stata la sua ascesa, è però anche la sua caduta. A Firenze, infatti, per volere della Lega Santa (l’alleanza voluta da papa Giulio II con Venezia, la Spagna e l’Inghilterra contro i francesi), i Medici tornano al potere (1512). È il cardinale Giovanni de’ Medici che, con l’aiuto delle truppe spagnole, entra in città, dopo aver vinto la debole resistenza dell’esercito repubblicano.
Il confino e il carcere Per qualche settimana, Machiavelli spera di essere ancora una voce ascoltata. Ma è un’illusione fugace: nel novembre 1512 viene rimosso dall’incarico di segretario e condannato al confino. La presenza del suo nome in una lista di possibili partecipanti a una congiura antimedicea ne aggrava poi la posizione. Imprigionato e torturato, viene rimesso in libertà nel marzo del 1513 in seguito a un’amnistia e può quindi tornare al suo ritiro dell’Albergaccio, presso San Casciano (a circa 15 chilometri da Firenze).

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CRONACHE dal PASSATO

  Machiavelli torturato

Il ritorno dei Medici a Firenze e la punizione inflitta ai cospiratori


Il 16 settembre 1512, dopo diciotto anni di esilio, i Medici riprendono possesso di Firenze. Confinato Pier Soderini, il destino di Machiavelli, che dell’ex gonfaloniere è stato il braccio destro, pare segnato. Tuttavia, fiducioso di essere reputato un servitore dello Stato al di sopra delle parti, Machiavelli prende carta e penna per invitare i nuovi governanti, nel breve scritto Ricordo ai Palleschi (così sono chiamati i sostenitori dei Medici, con riferimento allo stemma di famiglia contenente sei sfere), a diffidare dei “tifosi” dell’ultima ora, quei notabili che hanno abbracciato la causa medicea saltando sul carro dei vincitori.

Si dice che Machiavelli sia in procinto di riuscire nel suo intento: conservare il posto nella cancelleria fiorentina. Ma, nel bel mezzo di un faticoso lavorio diplomatico, il suo nome spunta su una lista compromettente intercettata dai Medici. La lista è compilata da due giovani fiorentini, Pier Paolo Boscoli e Agostino Capponi, desiderosi di riunire gli oppositori – veri e presunti – al nuovo regime per preparare il terreno a una restaura­zione repubblicana: una congiura, insomma.

Si tratta però di una congiura alla buona: una goffa, maldestra ragazzata, come la giudica dopo averla scoperta lo stesso Giuliano de’ Medici, il figlio di Lorenzo il Magnifico, all’epoca signore di Firenze. Giuliano addirittura chiede clemenza nei confronti dei cospiratori. I due, però, vengono processati e giustiziati. E Niccolò, pur dichiaratosi all’oscuro di tutto, viene imprigionato e interrogato più volte. Protesta la propria innocenza, ma viene condannato a «sei tratti di fune».

In che cosa consiste questa tortura? Al malcapitato vengono legate le mani dietro alla schiena, poi lo si appende per i polsi a una carrucola, che lo solleva per un certo numero di “tratti” (cioè di sequenze) e infine lo fa piombare rovinosamente a terra. Recluso in cella, Machiavelli non si umilia né confessa ciò che non ha commesso. Ha però dalla sua una coincidenza fortunata. In quei giorni il fratello di Giuliano, Giovanni de’ Medici, sale sul soglio pontificio con il nome di Leone X: ne segue un’amnistia generale grazie alla quale Niccolò viene liberato l’11 o il 12 marzo 1513. Il giorno dopo scrive una lettera all’amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma, per ringraziarlo dei suoi buoni uffici, garantendo che starà più attento nel parlare. A un uomo dalla lingua tagliente come la sua il proposito deve essere costato molta, moltissima fatica.

 La stagione dell’attività letteraria

Il Principe e i Discorsi Sono proprio i primi mesi di esclusione dalla vita politica a determinare in Machiavelli, quasi per contrasto, il desiderio di approfondire il proprio pensiero, mettendolo su carta. Ora non si tratta più di commentare un singolo caso circoscritto, ma di dare valore universale alle meditazioni sulla politica sviluppate grazie all’esperienza diretta e alla conoscenza del passato. Da una lettera a Francesco Vettori, datata 10 dicembre 1513 ( T1, p. 836), sappiamo che Niccolò ha terminato di scrivere Il Principe, per la cui stesura ha interrotto un’altra opera a cui lavora da mesi, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, che completerà qualche anno dopo, forse tra il 1517 e il 1519.

Le lettere Anche se lontano dai luoghi della politica, Machiavelli non viveva come un recluso e il suo Epistolario, che narra di incontri d’amore e avventure poco edificanti, ne è testimonianza. Nel 1516 Machiavelli può tornare a Firenze, dove frequenta i giardini della famiglia Rucellai, i cosiddetti Orti Oricellari, punto d’incontro di giovani intellettuali di orientamento repubblicano.

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 Gli ultimi anni

L’incarico per le Istorie fiorentine Nel 1519 Machiavelli viene assunto allo Studio (l’Università) di Firenze e l’anno dopo riceve l’incarico dal cardinale Giulio de’ Medici di comporre un’opera storica su Firenze. Di fatto, la stesura delle Istorie fiorentine segna per l’autore la fine dell’ostilità dei Medici nei suoi confronti. Tuttavia le responsabilità e gli incarichi che gli vengono affidati sono poca cosa rispetto al ruolo rivestito negli anni repubblicani: non è un caso che Niccolò sia impegnato soprattutto nella scrittura. Al 1519-1520 risale la composizione dei libri Dell’arte della guerra. Nei mesi precedenti ha preso avvio anche la sua produzione letteraria: la commedia La mandragola e la novella Belfagor arcidiavolo sono del 1518, lo stesso anno in cui l’autore prende posizione sulla questione della lingua con il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (per alcuni studiosi, l’opera va invece collocata più tardi).
L’esclusione dalla vita pubblica La disponibilità ad accettare di collaborare con i Medici costa cara a Machiavelli. Il sacco di Roma del 1527 e la sconfitta di papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) portano infatti a immediate ripercussioni nella vita politica di Firenze. Il governo signorile è rovesciato e viene nuovamente restaurata la repubblica. Machiavelli, accusato di essersi compromesso con i Medici, viene definitivamente escluso da ogni carica pubblica. Il dolore è grande, ma dura poco. Niccolò Machiavelli muore infatti qualche mese più tardi, il 21 giugno 1527, lasciando sei figli in povertà.

il CARATTERE

  Umanista “civile” e ironico

In pochi autori come in Machiavelli la dimensione pubblica e quella privata coincidono così fedelmente. Se escludiamo gli anni dell’adolescenza, di cui conosciamo poco o nulla, possiamo dire che non c’è stato momento della sua vita, anche tra quelli più intimi, riservati e quotidiani, che non si sia intrecciato con l’impegno civile e con la passione dell’uomo politico. Anzi, l’interesse per la vita pubblica sembra vissuto da lui come un’ossessione e insieme come un bisogno inderogabile.

Un’inesauribile curiosità

Ciò che interessa Machiavelli scrittore è l’uomo nei suoi sentimenti e nei suoi pensieri. Suo scopo è descrivere il mondo nella sua grandezza e miseria, tracciandone impietosamente risvolti, azioni e vicende. Ogni si­tua­zione, anche quella minima, si ri­solve per lui in un racconto senza re­ticenze. Il mondo appare ai suoi oc­­chi come un palcoscenico, dove tro­vano consistenza e fisicità i protagonisti di ieri e di oggi: a questo fi­ne, anche la lettura degli amati libri di Storia si traduce in un colloquio con uomini, costumi ed esperienze che egli considera ancora densi e vitali.

La sua non è una ricerca di erudizione o una semplice curiosità sto­rio­grafica: studiare l’antichità per lui si­gnifica indagare il presente, non eva­dere da esso. Il culto del passato, cioè, non lo spinge agli appro­fon­dimenti filologici né lo vincola a un modello formale. L’esempio de­gli antichi non rappresenta per Ma­chiavelli, come per tanti umanisti, una memoria lontana, un rifugio libre­sco e una via di fuga dalla realtà contemporanea.

D’altra parte, non si pensi che Nic­colò sia un uomo ombroso, cini­co spettatore degli eventi del suo tempo, chiuso nel quotidiano col­loquio con i classici. Dalle testimo­nianze epi- stolari emerge un uomo ironico e arguto, cordiale e persino goliardico.

In particolar modo l’Epistolario ci restituisce l’im­ma­gine di un in­tellettuale curio­so delle gran­di co­me del­le pic­co­le co­se del­la quo­ti­dia­ni­tà, tanto dei segreti di Stato quanto dei discorsi, dei comportamenti e dei costumi degli avventori di un’osteria: un uomo che sa mescolare le riflessioni più serie e acute con le battute più leggere, che unisce le forti passioni intellettuali con il gusto dell’ironia e dell’autoironia; burlone e irriverente, poco preoccupato dell’anima, della vita eterna e del peccato, molto interessato invece ai piaceri terreni.

Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento