In realtà, Orlando insegue un fantasma: ha visto la donna amata rapita da un misterioso cavaliere, rifugiatosi poi nel palazzo. O meglio, “crede” di aver visto così, come, poco dopo, “crede” di aver ascoltato le voci di invocazione e di richiamo della ragazza: di fatto egli ha semplicemente proiettato davanti a sé ciò che desidera, ovvero l’immagine di Angelica, illudendosi di poterla afferrare. Al tempo stesso, non dubita dell’autenticità di quell’apparizione: si inoltra fulminando (v. 41) nelle stanze della dimora, setaccia ogni ambiente di un vero e proprio labirinto fatto apposta per depistare, confondere e rendere vana ogni ricerca. Orlando non si arrende: il suo è un movimento circolare, un “errare” inevitabilmente inconcludente, come lascia intendere il narratore, che indica ripetutamente le coordinate spaziali di un vagare senza esito (di qua… di là, v. 43; di su di giù, v. 53; or quinci or quindi, v. 57 ecc.). Non a caso, alcune parole chiave danno il senso di questa inutile caccia: nel giro di pochi versi, troviamo due volte l’avverbio invan/invano (prima al v. 46; poi al v. 76) e altrettante l’aggettivo “vano” (al v. 62 e poi, sostantivato, al v. 65).
Nella parte finale del brano, dall’ottava 17 alla 21, vediamo Ruggiero condannato allo stesso destino, mentre insegue il simulacro dell’amata Bradamante, chiuso nella propria illusione al pari di tutti gli altri cavalieri, attirati dall’incantesimo e da un irraggiungibile oggetto del desiderio (a tutti par che quella cosa sia, / che più ciascun per sé brama e desia, vv. 135-136). È la conseguenza dell’amore, quella forza irrazionale che distoglie dalla realtà e sovverte ogni realistica percezione, portando a confondere l’essere con l’apparire. Concentrando le loro storie in un unico punto, Ariosto pare divertirsi a fermare i personaggi facendoli ruotare beffardamente, in un luogo chiuso e senza tempo, attorno ciascuno alla propria ossessione, destinata a trasformarsi in una costante, inappagante frustrazione.