6 - Lo sperimentalismo stilistico

6 Lo sperimentalismo stilistico

La molteplicità dei linguaggi Lo studioso tedesco Erich Auerbach considerò la lingua di Dante «un miracolo inconcepibile»: a confronto con i poeti che lo precedono, l’autore della Divina Commedia «conosce e impiega un numero talmente superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto più saldo e sicuro, che si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua riscoperto il mondo». In effetti, la sua eclettica capacità di sperimentare registri stilistici differenti produce una pluralità di esperienze letterarie spesso molto lontane tra di loro, perfino antitetiche. Un elemento costante in tutta la produzione artistica di Dante è proprio tale disponibilità a percorrere strade nuove, cimentandosi in generi letterari e livelli stilistici diversi. Il punto d’approdo di questa particolare attitudine alla molteplicità è naturalmente la Divina Commedia, dove la compresenza di tanti linguaggi trova una mirabile sintesi; tuttavia, la varietà delle forme espressive collaudate dall’autore è visibile anche in molti componimenti scritti dopo la Vita nuova, ben distanti per forma e contenuto dalla produzione stilnovistica.
Sulle tracce di Cecco Angiolieri Accantonata la tradizione aulica, Dante si mette alla prova anche nell’ambito della poesia comica e giocosa, percorsa in tutto il suo ventaglio di soluzioni: dalla parodia all’improperio, dalla satira alla rappresentazione rea­listica. L’adozione di un linguaggio volutamente basso e crudo si può cogliere, per esempio, in una tenzone con l’amico Forese Donati, composta tra il 1293 e il 1296: tre coppie di sonetti infarciti di insinuazioni diffamatorie, accuse, insulti feroci e allusioni sessuali, secondo la modalità tipica dell’alterco fittizio fra poeti e con una tecnica espressiva plebea e violenta, che sarà poi ripresa nelle descrizioni degli ambienti e dei personaggi più degradati dell’Inferno.
Le rime “petrose” Il principio retorico che giustifica questi componimenti è la cosiddetta convenientia: tra stile e materia trattata ci deve essere una perfetta corrispondenza. Questa necessità si coglie soprattutto in un gruppetto di rime scritte probabilmente tra il 1296 e l’esilio, e definite “petrose” in quanto dedicate a una donna “Pietra”, così chiamata perché rifiuta con durezza e crudeltà l’amore del poeta. Essa costituisce perciò la perfetta antitesi di Beatrice, sempre rappresentata come una creatura “onesta” e “umile”. Ma la differenza non sta solo nell’indole delle due donne: anche il linguaggio utilizzato per rappresentarle non può che essere agli antipodi. Non a caso, la più celebre fra le rime petrose ha un incipit rivelatore: «Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è ne li atti questa bella petra». Mentre la poesia d’amore per Beatrice presenterà uno stile “dolce” (il «dolce stil novo» di cui Dante parlerà nel XXIV canto del Purgatorio), quella per Pietra realizza una poetica dell’asprezza declinata a tutti i livelli: da quello fonico a quello lessicale fino a quello retorico, grazie alla ricca presenza di metafore attinte dal campo semantico della guerra e del rancore.

Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Volti e luoghi della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento