T3 - Dario Fo, La nascita del giullare (da Mistero buffo)

T3

Dario Fo

La nascita del giullare

  • Tratto da Mistero buffo, 1969
  • Lingua originale italiano e grammelot
Dario Fo nasce nel 1926 a Sangiano, in provincia di Varese. Figlio di un ferroviere, dopo la guerra civile, combattuta come volontario nell’esercito della Repubblica sociale, studia all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, e più tardi comincia a collaborare con la Rai in qualità di autore e attore di testi satirici. Nel 1954 sposa l’attrice Franca Rame, con la quale si trasferisce a Roma, dove lavora come attore e sceneggiatore cinematografico. Nel 1968, anno della contestazione studentesca, avviene una svolta radicale nella sua carriera: ispirato dalle idee progressiste, decide di far uscire gli spettacoli dai teatri tradizionali, considerati elitari e borghesi, e porta i suoi lavori nelle piazze e nelle fabbriche, per avvicinarli al popolo. Il suo capolavoro, Mistero buffo, va in scena per la prima volta nel 1969; poco tempo dopo è la volta di altre opere, come Morte accidentale di un anarchico (1970) e Guerra di popolo in Cile (1973), che accentuano il carattere protestatario della sua produzione. Nel 1997 riceve il premio Nobel per la Letteratura, e in seguito continua a dedicarsi instancabilmente al lavoro teatrale e all’impegno culturale. Muore a Milano nel 2016.

Mistero buffo è stato proposto in numerosissime repliche, di volta in volta arricchite da modifiche o aggiunte. La commedia consiste in una serie di monologhi ispirati alla tradizione popolare medievale e alle storie alternative della vita di Cristo, tratte dai Vangeli apocrifi, testi esclusi dal canone della Bibbia. L’opera è scritta in grammelot, una lingua inventata che mescola all’italiano dialetti padani, onomatopee e suoni privi di significato.

In questo passo, che riportiamo di seguito in versione italiana, Fo rivisita un’antica favola siciliana. Un contadino senza terra riesce a trasformare, con il sudore del lavoro, una montagna arida e pietrosa in una sorta di fertilissimo paradiso terrestre. La sua fortuna, tuttavia, è di breve durata. Venuto a sapere del miracolo, il padrone della valle si presenta a reclamare la terra per sé, ma il contadino rifiuta di cederla. Dopo aver inviato, senza successo, un prete e un notaio, il padrone passa alle maniere forti: prima devasta la terra del contadino, poi compie atroci abusi nei confronti della sua famiglia. Distrutto e sul punto di suicidarsi, il contadino viene salvato in extremis da uno strano miracolo…

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Audiolettura

I bambini non potevano andare in giro, tutti erano lì, e non ci guardava più 

nessuno. Mia moglie è scappata! Io non l’ho più vista; io non so dove è andata. 

I bambini non mi guardano, sono venuti ammalati1 e manco2 piangevano. 

Sono morti! Io sono rimasto solo. Solo con questa terra! Non sapevo cosa fare. 

5      Una sera ho preso un pezzo di corda l’ho buttato su una trave, me la sono messa 

intorno al collo, ho detto:

«Bene, mi lascio andare, adesso!».

Faccio per lasciarmi andare, impiccato, quando mi sento battere una mano 

sulla spalla, mi volto, c’è uno con una faccia pallida, con gli occhi grandi che 

10    mi dice:

«Mi dài un po’ da bere?».

«Ma ti sembra il momento di venire a chiedere da bere a uno che si sta 

impiccando? Boia!».3

Lo guardo e ci aveva una faccia da povero cristo anche lui, poi guardo e ce 

15    n’erano altri due, anche loro con una faccia patita.4

«Va bene, vi darò da bere e poi mi impicco».

Vado a prendere da bere, li guardo bene:

«Più che bere voialtri avete bisogno di mangiare! Ma io sono tanti giorni 

che non faccio da mangiare… C’è da farlo, se volete».

20    Ho preso un tegame5 e ho messo sul fuoco a scaldare delle fave e gliel’ho 

date, una ciotola ciascuno, e mangiavano, mangiavano! Io non avevo voglia di 

mangiare… «Aspetto che mangino e poi mi impicco». E intanto che mangiava, 

quello con gli occhi più grandi, che sembrava proprio un povero cristo, sorrideva 

e diceva:

25    «Brutta storia questa che vuoi impiccarti! Io so bene perché lo vuoi fare. Hai 

perso tutto, la moglie, i bambini e ti è rimasta solo la terra, bene, io so bene! Se

fossi in te non lo vorrei fare».

E mangiava! mangiava! Poi alla fine ha appoggiato tutto e ha detto:

«Tu sai chi sono io?».

30    «No, ma ho avuto il dubbio che tu sei Gesù Cristo».

«Bene! Hai indovinato. Questo è Pietro, e il Marco è quello là».6

«Piacere. E cosa fate qua?».

«Tu mi hai dato da mangiare e io ti do da parlare».

«Da parlare? Cos’è questa cosa?».

35    «Disgraziato! Giusto che hai tenuto 

la terra, giusto che non vuoi padroni, 

giusto che hai avuto la forza di non 

mollare, giusto… Ti voglio bene, sei forte, 

buono! Ma ti manca qualche cosa che 

40    è giusto che tu devi avere: qua e qua (fa 

segno alla fronte e alla bocca). Non 

rimanere qui attaccato a questa terra, vai in 

giro e a quelli che ti tirano le pietre digli, 

fagli comprendere, e fai in modo che 

45    questa vescica7 gonfia che è il padrone 

tu la buchi con la lingua, e fai uscire il 

siero e l’acqua a sbrodolare  marcio. Tu 

devi schiacciare questi padroni e i preti 

e tutti quelli che gli stanno intorno: i notai, gli avvocati, eccetera. Non per il 

50    bene tuo, per la tua terra, ma per quelli come te che non hanno terra, che non 

hanno niente e che devono soffrire solamente e che non hanno dignità da 

vantare.8 Campare di cervello e non di piedi!».

«Ma non capisci? Io non sono capace, io ho una lingua che non si muove di 

dentro, mi intoppo ad ogni parola e non ho stile9 e ho il cervello fiacco e molle. 

55    Come faccio a fare le cose che tu dici, e andare in giro a parlare con gli altri?».

«Non preoccuparti che il miracolo viene adesso».

Mi ha preso per la testa, mi ha tirato vicino e poi mi ha detto:

«Gesù Cristo sono io, che vengo a te a darti la parola. E questa lingua bucherà 

e andrà a schiacciare come una lama vesciche dappertutto e a dar contro 

60    ai padroni, e schiacciarli, perché gli altri capiscano, perché gli altri apprendano, 

perché gli altri possano ridere. Che non è che col ridere che il padrone 

si fa sbracare,10 che se si ride contro i padroni, il padrone da montagna che è 

diviene collina, e poi più niente. Tieni! Ti do un bacio che ti farà parlare».


Dario Fo, Mistero buffo, a cura di F. Rame, Einaudi, Torino 1997

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A tu per tu con il testo

Non ci si stancherà mai di lodare le proprietà curative del riso. Ridere, tuttavia, è molto di più che un semplice antidoto alla tristezza: serve, infatti, a raggiungere la libertà. Ce ne accorgiamo quando siamo ossessionati dalla conquista di qualcosa e ci ritroviamo invasi da una bruciante, ingestibile passione. L’oggetto dei nostri desideri, qualunque esso sia (una persona, il denaro, una posizione sociale…), rischia di renderci ciechi, in balia di quel pensiero assillante che finisce per occupare la testa e il cuore. Proprio allora, come in tutti gli altri casi della vita, dove un obiettivo o un’ambizione ci ottenebrano la mente, rendendoci dimentichi di tutto il resto, ridere aiuta ad acquisire distacco, a ritornare con i piedi per terra: ciò che per noi è motivo di vita e di morte, infatti, per altri non significa nulla. Chi coltiva il riso riesce ad assumere altri punti di vista, a guardarsi dall’esterno, a relativizzare verità e dogmi ritenuti indiscutibili e a mostrare il lato meschino delle cose, spesso celato sotto una veste nobile e sublime. Chi ride può sfuggire a qualsiasi schiavitù, perché ha spezzato la catena più dura: quella che ci inchioda, che ci costringe in noi stessi, prigionieri di convenzioni e luoghi comuni.

Analisi

Vittima della tirannica oppressione dei potenti, un contadino ha perso tutto ciò che aveva e, disperato, ha deciso di farla finita. Mentre si accinge a impiccarsi, però, si verifica un evento improbabile: tre poveracci assetati vengono a chiedergli da bere. Mosso a pietà, il protagonista disseta e rifocilla i tre uomini.

La comicità della scena deriva dal contrasto tra il motivo tragico del suicidio e l’intervento dei tre uomini, che colora di ironia e assurdità l’intera situazione. Ne è spia la battuta che riproduce i pensieri del contadino (Aspetto che mangino e poi mi impicco, r. 22) oltre ai dettagli del tegame e delle fave (r. 20). Poco dopo, la narrazione prende una piega tra il mistico e il surreale: l’uomo con la faccia da povero cristo (r. 14) è Cristo davvero, intenzionato a ricompensare il contadino per il suo comportamento virtuoso con un premio miracoloso (Tu mi hai dato da mangiare e io ti do da parlare, r. 33). Così, il semplice villano sta per trasformarsi – grazie a un bacio divino – in un funambolico artista della parola.

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Nel tardo Medioevo (dopo l’anno Mille), i giullari si esibivano come cantastorie, buffoni o saltimbanchi, in strada o nelle corti nobiliari. Nella visione di Dario Fo, essi costituiscono le figure trasgressive per eccellenza, grazie a una carica irriverente che irride e quindi demistifica il potere dei ricchi. Gesù, infatti, esorta il contadino a usare la parola e il cervello per sbeffeggiare apertamente padroni, preti, notai, avvocati (rr. 48-49), tutte le categorie sociali responsabili della miseria e dello sfruttamento dei più poveri. Tale visione contiene molto di vero: la società medievale era in effetti estremamente gerarchica, e la differenza tra le condizioni di vita dei nobili e quelle dei contadini era enorme. Tuttavia, l’autore non intende riferirsi soltanto a quell’epoca: a chi assiste alla rappresentazione dell’opera viene naturale cogliere un’evidente allusione alla contemporaneità e alle sue iniquità sociali.

In effetti, Mistero buffo viene messo in scena per la prima volta nel 1969, mentre in Italia, come nel resto del mondo occidentale, era in corso una vera e propria rivoluzione socio-culturale. In quegli anni, studenti e operai, stanchi di una società autoritaria e basata a loro parere sull’ingiustizia e la disuguaglianza, lottavano apertamente contro quella che negli slogan e nelle parole d’ordine più diffuse veniva definita «la cultura dei padroni». I padroni contro cui il giullare scaglia la sua risata satirica sono dunque evidentemente anche gli uomini posti ai vertici della società del tempo: ricchi borghesi, aristocratici, politici. D’altro canto la stessa figura di Cristo, incarnando gli autentici valori del Vangelo, assume una forte connotazione polemica e dissacratoria: il suo messaggio religioso, basato sull’amore e sulla fratellanza, costituisce un atto d’accusa contro quegli esponenti della Chiesa cattolica votati al culto del potere e dimentichi dell’insegnamento cristiano.

Ma che cosa può fare un comico, un giullare, di fronte alle angherie e ai soprusi? A ben vedere, il riso è una delle armi più forti di cui disponiamo per contestare il potere. Per certi versi, è addirittura insostituibile, come spiega la battuta di Gesù Che non è che col ridere che il padrone si fa sbracare, che se si ride contro i padroni, il padrone da montagna che è diviene collina, e poi più niente (rr. 61-63). Il potere si basa sempre su una certa rituale e ampollosa serietà e ha in sé qualcosa di sacro, di grande, di inviolabile: chi lo esercita è – o intende apparire – alla stregua di un sacerdote o di un mediatore capace di collegare gli uomini comuni a un principio superiore, che sia una divinità, una tradizione, e così via… Ebbene, il riso, la buffoneria e la satira feriscono il potere proprio nella sua pretesa serietà, gli tolgono legittimità, lo denudano mostrando i suoi lati più abbietti e meschini, spogliandoli della forma e della retorica.

Da questo punto di vista, è più efficace ridere dei potenti che opporvisi con violenza: grazie alla sua spregiudicata padronanza di parola, in grado di agire come una lama (r. 59) tagliente, il giullare si fa beffe delle pretese dei padroni, non a caso associati da Fo a una vescica, destinata a sgonfiarsi e a espellere un siero marcito (rr. 45-47).

La vicenda del giullare può essere intesa come una metafora dell’intera ricerca teatrale dell’autore, desideroso di schiacciare (r. 48) i padroni grazie alla sua comicità istrionica e irriguardosa. Per coglierne gli intenti, dobbiamo però tener conto della presenza scenica di Fo, vero e proprio buffone, capace di accompagnare i suoi monologhi con versi, gesti e bislacche espressioni facciali. All’efficacia della recitazione contribuiva inoltre l’uso del grammelot, un linguaggio non fondato sulla precisa articolazione delle parole ma sull’assemblaggio di suoni, onomatopee, parole di eterogenea derivazione dialettale che creano, in una confusa mescolanza di cadenze diverse, una sorta di flusso sonoro continuo. Ecco un esempio, tratto dalla parte finale del brano:


«Jesus Cristo a soi mi che t’ vegna a ti a dat parlar. E sta lengua u la beuciarà e ’ndrà aschisciar ’me ’na lama da partüto vescighe a far sbrogare, a da’ contra i padroni e li far schisciare parché i altri i capissa, parché i altri imprenda e parché i altri i poda rigolar. Che no è che col rídare ch’ol padron ul s’ fa sbragare, che se i ride contra i padron, ol padron, da montagna ca l’è dijen colina e peu niente ca se move. Tegne! A t’ do un baso che at farà parlare».


Grazie a questo gergo comico, accompagnato da una forte espressività mimica e gestuale, Fo rievoca le narrazioni contadine di un tempo, nel tentativo di recuperare una cultura popolare in via d’estinzione, minacciata dal progresso e dalla civiltà urbana e industriale.

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Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. I figli e la moglie del protagonista

  • a sono in scena con lui.
  • b sono fuggiti o morti.
  • c sono stati fatti prigionieri.
  • d se ne sono andati.

2. Chi sono i tre uomini?


3. Quale dono lascia Gesù al pover’uomo?

  • a La ricchezza.
  • b La saggezza.
  • c La parola.
  • d La vita eterna.

ANALIZZARE E INTERPRETARE

4. Il testo teatrale che hai letto è

  • a una scena con più personaggi.
  • b un dialogo.
  • c un soliloquio.
  • d un a parte.

5. Come si comporta il contadino nei confronti dei tre uomini? Si può affermare che il suo sia un comportamento “evangelico”? Perché?


6. Secondo Gesù, il contadino deve usare il dono della parola a favore degli umili e dei diseredati: come vengono definiti? Quale strategia retorica puoi individuare in questa definizione?


7. Il padrone da montagna che è diviene collina (rr. 62-63): questa espressione è

  • a una metafora.
  • b una similitudine.
  • c un anticlimax.
  • d un chiasmo.

COMPETENZE LINGUISTICHE

8. Lessico. Il lessico usato nel testo è piano e colloquiale, perché chi parla è un uomo senza istruzione: per ognuno dei seguenti verbi, usati nel testo, indica un sinonimo di registro più formale e poi scrivi una frase per ciascuno di essi.


a) scappare; b) buttare; c) mollare; d) tirare; e) sbrodolare; f) intoppare; g) sfottere

PRODURRE

9. Scrivere per argomentare Questa è la motivazione del premio Nobel conferito a Dario Fo: «perché nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati». Da quanto hai letto, credi sia una motivazione valida e coerente? Perché? Esponi le tue considerazioni in massimo 15 righe.

SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare

STORIA

Chi erano e che cosa facevano i giullari medievali? Svolgi una ricerca su questo argomento.

SPUNTI PER discutere IN CLASSE

Durante il discorso di accettazione del premio Nobel, rivolto ai reali di Svezia, Dario Fo li esortò a difendere e promuovere il teatro dicendo: «soprattutto quando è un teatro ironico, grottesco, dovete difenderlo, perché il teatro del ridere, è il teatro della civiltà». Che cosa intendeva dire con queste parole? Sei d’accordo con lui?

La dolce fiamma - volume B
La dolce fiamma - volume B
Poesia e teatro