CARTA CANTA - I rebus di Conte

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I rebus di Conte

Ma i cantautori scrivono prima la musica o il testo delle loro composizioni? Non c’è una regola prestabilita, valida per chiunque. Alcuni cominciano dalle parole, e in un secondo momento cercano in esse ispirazione per una melodia, o si accontentano di aggiungere qualche accordo non troppo banale. Altri affrontano i due aspetti in contemporanea; altri ancora si concentrano innanzitutto sulle note. Paolo Conte è uno di questi ultimi: è solito comporre i suoi lavori al pianoforte, in solitudine, lavorando accanitamente sullo spartito. Molti pezzi restano strumentali, altri conosceranno un vestito verbale su misura, a volte cucito con fatica, perché l’avvocato astigiano sente particolarmente un problema tipico della lingua italiana, poco adatta ai ritornelli, per la sua penuria di parole tronche.

La scintilla che dà avvio alle storie di Conte nasce il più delle volte dalle «frizioni» fra parole che lo seducono, per il loro suono particolare, o perché evocano realtà lontane, o ricordi di gioventù: pagoda, macaia, tamarindo, fachiro, amaranto… Parole che le melodie in qualche modo attraggono irresistibilmente: «certe cadenze musicali» – sostiene – «appartengono ormai a un codice espressivo e in questo codice le parole finiscono per cadere. Non solo, le musiche hanno dei colori nel loro fondo che condizionano il cromatismo dell’immaginazione attraverso il quale, poi, lavoro sulle parole». Spesso la danza scaturita dalla musica è protagonista del testo, come avviene in Boogie e in tante altre canzoni nelle quali Conte tematizza i generi più amati, specie di matrice sudamericana, come la rumba, il tango, la milonga, o l’habanera.

Scrivendo i suoi testi, Conte sfrutta a fondo un’altra grande passione, l’enigmistica. Non solo architetta vicende misteriose e suggestive, nelle quali l’ascoltatore si inoltra incuriosito, ma dissemina giochi di parole e persino rebus. Uno dei casi più divertenti è quello della canzone Sijmadicandhapajiee (compresa nell’album Una faccia in prestito, 1995), un termine che a prima vista potrebbe sembrare indiano o azteco, quando invece nasconde un proverbio in dialetto astigiano, che tradotto suona «Siamo dei cani da pagliaio». Cani cioè che abbaiano, fanno confusione ma non mordono mai.

La dolce fiamma - volume B
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Poesia e teatro