1. La poesia e il pensiero

1. LA POESIA E IL PENSIERO

È opinione comune che, all’interno del nostro animo, il lato emotivo sia nettamente separato da quello razionale e che la riflessione e l’analisi non possano convivere con i sentimenti e la creatività. Vista in quest’ottica, la nostra esistenza appare come un eterno, indissolubile conflitto tra ragione, calcolo, spirito pratico da una parte e passione, intuizione, facoltà immaginativa dall’altra. Ma le cose stanno davvero così? Ci sono buone, ottime ragioni per dubitarne: quando l’essere umano percepisce o si esprime, non entrano talvolta in gioco facoltà diverse e perfino opposte? In effetti, nell’argomentazione più ferrea e matematica può nascondersi l’estro dell’immaginazione, mentre la visione più lambiccata e astrusa può contenere aspetti logici, magari non avvertibili al primo sguardo.

Ciò spiega perché i poeti, anche se sono spesso rappresentati come individui fantasiosi, con la testa fra le nuvole, lontani anni luce da ogni visione razionale della realtà, siano capaci di utilizzare i versi come un formidabile strumento di conoscenza e di meditazione intellettuale.

La poesia è soprattutto interiorità: è perciò naturale che esprima il modo di vedere, di pensare e di sentire di chi la compone. Nei versi è possibile interrogarsi sulla realtà e sull’irrealtà, su ciò che è noto e su ciò che è ignoto, sul limitato e sull’illimitato. Chi sono io? Che cos’è la vita? Che cos’è la morte? Esiste un Dio e un aldilà? Come possiamo riconoscere il bene e il male? Non sempre le grandi domande dell’esistenza trovano risposte sicure: anzi, talvolta la poe­sia attesta l’incapacità umana di formulare soluzioni e indicare verità assolute. Un grande poeta italiano del Novecento, Eugenio Montale, scriveva: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Tuttavia la ricerca di senso da dare alla nostra vita costituisce una costante tematica dei versi di ogni tempo. Addirittura, molti studiosi si spingono a rintracciare una stretta parentela tra la poesia e la filosofia, la disciplina che più di tutte riflette sul mondo, sull’essere, sulle possibilità e i confini dell’esperienza umana: tanti poeti sono essi stessi, a modo loro, filosofi, dal poeta latino Lucrezio fino a Dante e a Leopardi, solo per rimanere in Italia.

Del resto, la parola stessa “poesia” deriva dal verbo greco poiéin che significa “inventare”, “fare”: in altri termini, “produrre” un significato per ciò che accade, interpretando il senso ultimo della realtà, a partire dalla conoscenza più profonda di noi stessi.

2. LA RICERCA DELL’ALTROVE

Spesso i poeti registrano e documentano una personale insoddisfazione nei confronti del reale, del mondo, dell’esistenza: la tensione verso un altrove, verso una condizione di pace caratterizza, per esempio, il sonetto Alla sera ( T1, p. 199) di Ugo Foscolo (1778-1827) e la lirica L’infinito ( T2, p. 202) di Giacomo Leopardi (1798-1837). Entrambi gli autori non credono nell’aldilà e non cercano dunque il conforto di una vita dolorosa nella fede e in una dimensione ultraterrena. Per Foscolo, solo la pace delle tenebre notturne, che prefigura quella della morte, può garantire la quiete invano inseguita tra le inquietudini di giorni travagliati.

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Per Leopardi, invece, il desiderio di oltrepassare i limiti delle possibilità umane si traduce nel racconto di una formidabile esperienza del pensiero e dell’immaginazione: la presenza di una siepe, un ostacolo che impedisce la visione dell’orizzonte che sta al di là di esso, lo induce a spaziare con la fantasia nell’immensità sconfinata e a provare per questo un godimento che nessun piacere concreto può dare.

3. IL RAPPORTO CON IL SACRO

Quello leopardiano non è un approdo mistico o religioso: l’infinito non rimanda infatti a una dimensione metafisica né allude a un’estasi trascendente. Ben diverso è invece lo sguardo posato sul mondo dalla poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886), la quale, magnificando le bellezze del creato, si chiede chi sia l’artefice di tanta perfezione ( T3, p. 208). Chi ha progettato e fa girare gli ingranaggi che muovono l’universo? Qual è il ruolo dell’uomo all’interno di una macchina così meravigliosa? Anche per la Dickinson non è facile rispondere a simili domande: la sua è una religiosità travagliata, lontana da ogni dogmatismo, eppure capace di esprimere la lode per un Dio che si vorrebbe vicino, sempre presente, partecipe della vita quotidiana delle sue creature umane.

La Dickinson tocca un tema fondamentale nell’ambito del pensiero poetico: il rapporto con il sacro. La dimensione spirituale affiora spesso nei versi come un vero e proprio bisogno, che tuttavia non è facile appagare. C’è chi cerca Dio nella magnificenza del creato e nella perfezione della natura; e chi segue un cammino mistico e si spoglia di ogni desiderio terreno. Esiste un sacro che sorprende chi non lo cerca, e un altro, invece, che si sottrae a chi disperatamente lo invoca. La stessa immagine di Dio può assumere volti diversi: ora mite e misericordioso, ora giusto, inflessibile, perfino tremendo.

Alcuni poeti trovano riparo dalle angosce interiori e certezze nella fede, anche quando questa è vissuta in modo sofferto e problematico. È il caso, tra i tanti, di autori come Alessandro Manzoni (1785-1873), Clemente Rebora (1885-1957), Giuseppe Ungaretti (1888-1970) e Carlo Betocchi (1899-1986): nei versi di quest’ultimo si coglie spesso la malinconica constatazione della caducità delle cose e della brevità della vita ( T5, p. 217). Altri, come Eugenio Montale (1896-1981), non riescono ad appigliarsi ad alcun conforto religioso e dipingono l’esistenza umana come un vuoto, un nulla tragico, in cui l’unica esperienza certa è il «male di vivere» ( T4, p. 214).

La sete d’infinito

Come raccontare un poeta come Leopardi? Come fare sentire la sua voce viva e presente? Il regista Mario Martone (n. 1959) e l’attore Elio Germano (n. 1980) ne hanno fatto un «giovane favoloso», che ha sete di infinito e che – come ha dichiarato il regista – «sente da subito tutte le gabbie che nella vita di ciascuno di noi si formano: la famiglia, la scuola, la società, la cultura, la politica. E si ribella».

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4. UNA CERTA IDEA DEL VIVERE

Sono i molteplici aspetti della vita a spingere i poeti ad affrontare le grandi tematiche universali e a uscire dalla propria contingente soggettività per “esplorare” i dubbi e i bisogni che riguardano tutti. Il poeta turco Nazim Hikmet (1902-1963) scrisse una volta che la sua opera «è radicata nel suolo del suo Paese, ma attraverso le diramazioni raggiunge tutte le comunità del mondo, toccando tutte le civiltà che sono comparse sulla terra». Nei versi di Alla vita ( T6, p. 221) egli afferma la necessità di vivere appieno l’esistenza, proteggendo a tutti i costi il bene più prezioso che abbiamo: la libertà.

Ancora diverso è l’approccio della poetessa polacca Wisława Szymborska (1923-2012) che, da una prospettiva laica, si mette alla ricerca di ciò che è, per eccellenza, immateriale: l’anima, oggetto delle millenarie riflessioni di filosofi, sacerdoti e teologi. Di quale materia è composta? Da dove viene? Sopravviverà al nostro corpo? Generalmente, diamo per scontato che l’anima sia la parte più autentica e profonda di noi stessi. In Qualche parola sull’anima ( T7, p. 225), la Szymborska smonta le nostre certezze e propone un punto di vista del tutto originale. L’anima c’è e non c’è, si manifesta a tratti, se ne sta spesso in disparte, rifiutandosi di collaborare quando non riconosce un’autenticità dei sentimenti o quando la routine spoglia di significato le nostre azioni. Sebbene aspettiamo da essa qualche risposta sulla vita, l’anima rimane muta, ma ci accompagna nei momenti in cui siamo spensierati o stupiti.

Una scala per il cielo

Nell’Antico Testamento (libro della Genesi) è raccontato che il patriarca Giacobbe sognò una scala che congiungeva terra e cielo, lungo la quale salivano e scendevano gli angeli. La scala è un’immagine presente in diverse tradizioni (ebraismo, cristianesimo, islamismo) nelle quali simboleggia uno dei bisogni fondamentali dell’uomo: la comunicazione con il mondo ultraterreno.

Elogio del non sapere

Le poesie traggono spesso ispirazione da ciò che non riusciamo a spiegare. «Per questo», sostiene Wisława Szymborska, «apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. […] Anche il poeta, se è un vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente». Hai mai pensato a quanto il “non sapere” rappresenti una spinta nella tua vita?

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Verifica delle conoscenze

1. Per quale motivo è sbagliato separare del tutto la conoscenza razionale da quella intuitiva e creativa? In che modo tale questione si riflette sulla poesia?
2. Scegli l’alternativa corretta.
  • a Il pensiero razionale e la poesia non sono inconciliabili, ma parlano sempre di argomenti diversi. 
  • b Anche la poesia è una forma di pensiero, basata, per lo più, su una logica diversa da quella della scienza. 
  • c La separazione rigida tra scienza e poesia risale al periodo medievale. 
  • d A differenza dello scienziato, il poeta non esprime un punto di vista sul mondo, ma si limita a far leva su emozioni, sentimenti e libere analogie tra i concetti. 

3. È possibile affermare che la poesia offra responsi sicuri ai grandi quesiti esistenziali? Motiva la risposta.
4. Che cosa può unire la ricerca poetica e quella filosofica?
5. In che modo l’etimologia della parola “poesia” si collega alla ricerca di senso?
6. Da che cosa trae origine il desiderio, presente spesso nella poesia, di trovare una dimensione alternativa a quella reale?
7. In che modo si manifesta la presenza divina nella poesia di Emily Dickinson?
8. Come appare la vita umana agli occhi di Eugenio Montale?

La dolce fiamma - volume B
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Poesia e teatro