Guardiamo l’autografo della Pioggia nel pineto conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. È un foglio pulito, scritto in modo chiaro e deciso, senza un pentimento, e presenta un testo che corrisponde in tutto alla versione finale. Sembra insomma essersi creato sulla spinta dell’irrefrenabile ispirazione dalla quale eruppero i componimenti raccolti in Alcyone: «Ho una volontà di cantare così veemente che i versi nascono spontanei nella mia anima come le schiume dalle onde».
In realtà si tratta di una bella copia, trascritta con la massima cura. Dietro, ben nascosto, sta un duro lavoro teso ad affinare lo spunto iniziale. D’Annunzio provava e riprovava versi e rime su fogli sciolti, che – una volta giunto a una redazione che lo lasciava soddisfatto – gettava nel cestino, per non lasciare tracce della fatica spesa, e accreditare l’immagine di artista geniale. In effetti era solito alternare periodi di immersione nella vita mondana a intere giornate trascorse in solitudine alla scrivania. A mettere in comunicazione esperienze quotidiane e letteratura provvedeva il taccuino, che portava sempre con sé, appuntandosi tutto ciò che lo colpiva, fosse il rumore di un fiume in piena, il taglio d’occhi di una bella donna, un mobile stile impero, o il brano di un poeta provenzale: poiché, diceva, bisogna «leggere col rampino», pronti cioè a cogliere e far propri gli spunti offerti dai maestri antichi e moderni.