L’EPICA OMERICA

Igor Mitoraj, Fratelli, 2011. Valle dei Templi ad Agrigento.

Giacomo Leopardi, il maggiore poeta dell’Ottocento italiano, sosteneva che tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.

L’Iliade e l’Odissea, tradizionalmente considerate opera di un solo autore, di nome Omero, rappresentano davvero il monumento letterario più ricco e più antico dell’identità europea, al quale si sono ispirati nei secoli artisti, poeti, musicisti, studenti e professori. Uomini e donne di ogni estrazione sociale e culturale hanno sentito parlare delle imprese di Achille e dei viaggi di Odisseo, si sono lasciati incantare dal coraggio di Ettore, dal mito delle Sirene e dalla fedeltà di Penelope.

Il valore dell’epica omerica risiede nella sua bellezza poetica, ancora oggi fresca e vitale, ma anche nella sua funzione di archetipo: ogni scena di duello, seduzione, spionaggio, battaglia, scritta dopo Omero, ha risentito in maniera più o meno diretta del modello illustre contenuto nell’Iliade o nell’Odissea, che per questa ragione possono essere considerati delle vere e proprie sorgenti della narrazione. Certo, entrambi i poemi sono nati in un’epoca per noi remota con lo scopo di tramandare la memoria di valori e di vicende fondamentali per una civiltà ormai passata. Ma, al tempo stesso, essi continuano a costituire una fonte inesauribile e insostituibile per raccontare nuove storie e riflettere su noi stessi e sulla nostra esperienza di uomini.

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1. LA QUESTIONE OMERICA

Lo storico Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel V secolo a.C., riteneva che l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, noto a tutti con il nome di Omero, fosse vissuto quattrocento anni prima di lui. Da allora non si è smesso di discutere intorno all’esistenza e all’attività di questa figura: nonostante i progressi delle ricerche linguistiche e archeologiche, essa resta ancora oggi avvolta nel mistero.

Per gli antichi Greci Omero era un aedo, un cantore cieco con il dono della creatività poetica (secondo una discussa etimologia il termine greco hómeros significherebbe, infatti, “cieco”). Alcuni sostenevano che fosse discendente di Orfeo, mitico poeta della Tracia che avrebbe avuto il potere di piegare e incantare al suono della sua lira ogni essere animato e ogni elemento della natura.

Benché non si conosca con precisione il suo luogo d’origine, pare ormai assodato che provenisse dalla Ionia, regione dell’Asia Minore affacciata sul mar Egeo, nell’attuale Turchia. Smirne, l’isola di Chio e Colofone erano i centri della civiltà ionia che si vantavano di aver dato i natali a Omero.

Dopo Erodoto si iniziò presto a mettere in dubbio che un solo uomo avesse potuto comporre due opere così diverse tra loro per contenuto e stile: l’Iliade, infatti, è il poema della guerra, l’Odissea del viaggio e dell’avventura. Nell’età ellenistica – il periodo storico seguito alla morte di Alessandro Magno, caratterizzato dal fiorire di studi letterari sugli autori e le opere del passato – si fecero strada le prime ipotesi separatiste, accreditate da alcuni commentatori (detti khorízontes, appunto “separatori”), che suffragavano l’esistenza di due autori distinti, uno per ciascuna opera.

La cosiddetta “questione omerica” divampò soprattutto in epoca moderna, quando il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) propose di considerare l’Iliade e l’Odissea come espressione dello spirito poetico dell’intera civiltà greca, più che il frutto della fantasia di un singolo autore. La sua intuizione si sarebbe rivelata per molti aspetti geniale e anticipatrice degli sviluppi futuri del dibattito, che si scatenò con maggiore veemenza alla fine del Settecento, alimentato da una crescente attenzione filologica.

Nel saggio Prolegomena ad Homerum (Prefazione a Omero), pubblicato nel 1795, il tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824) indicava all’origine dei poemi omerici una serie di canti separati, risalenti a epoche e autori diversi, concepiti prima dell’introduzione della scrittura. Omero, pertanto, sarebbe stato solo il più famoso tra una moltitudine di autori che avevano composto e recitato canti epici incentrati su due temi principali: l’ira di Achille e il ritorno in patria di Odisseo. Wolf inaugurava in tal modo la teoria analitica, che riscosse molto consenso nell’Ottocento, anche perché – attraverso una scomposizione dei poemi nei loro presunti elementi costitutivi – spiegava le ripetizioni e le incongruenze visibili nel testo (per esempio, la presenza di personaggi, come Sarpedone nell’Iliade, che muoiono due volte).

Un altro studioso tedesco, Karl Lachmann (1793-1851), sulla base del medesimo approccio critico, individuò nell’Iliade sedici o diciotto canti singoli che poi sarebbero stati fusi in una sola opera. Il materiale poetico era visto così come il frutto di una lunga tradizione di canti, al termine della quale alcuni compilatori avevano dato una forma divenuta con il tempo definitiva.

Al fianco delle tesi analitiche – che ponevano in risalto le stratificazioni del testo e le incoerenze, ma non rendevano giustizia all’unitarietà dei poemi – si svilupparono anche opinioni discordanti che diedero vita a una scuola unitaria, che ipotizzava l’esistenza di un unico autore per ciascuna o per entrambe le opere. Soprattutto all’inizio del Novecento, grazie al contributo di filologi tedeschi come Ulrich von Wilamowitz (1848-1931) e Wolfgang Schadewaldt (1900-1974), prevalse la tesi che un solo poeta, vissuto intorno all’VIII secolo a.C., avesse sì raccolto materiali preesistenti, ma rielaborandoli in modo autonomo e con grande, personale forza creativa.

Una svolta decisiva negli studi omerici venne dalle ricerche dello statunitense Milman Parry (1902-1935). Dopo aver studiato le tecniche compositive di cantori di gesta serbi, Parry intuì che la presenza costante di formule, cioè di espressioni o versi interi ripetuti, identici o con leggere variazioni, non costituiva un banale errore ricorrente, bensì la prova che l’epica omerica fosse il frutto di una lunghissima elaborazione orale.

La formula costituiva la “cellula” della struttura linguistica omerica e la somma di tutte le formule rappresentava a sua volta un vero e proprio “prontuario mnemonico”, cioè una sorta di manuale di epiteti e frasi a disposizione del­l’aedo nelle sue esecuzioni. Quest’ultimo, tuttavia, non riproduceva meccanicamente una storia sempre uguale a se stessa, ma la trasformava in continuazione, modificando, tagliando e adattando gli episodi alla sensibilità del pubblico, senza mai rinunciare del tutto alla propria creatività. In tal modo si sottolineava il rapporto strettissimo tra l’aedo e il suo pubblico, partecipi di un medesimo patrimonio culturale: quel che contava davvero nell’epica greca non era tanto sapere come andasse a finire la storia, quanto riascoltarla in diverse occasioni ed emozionarsi con lo stesso entusiasmo e trasporto della prima volta.

La questione omerica resta tutt’oggi oggetto di una diatriba infinita, perché molti sono i quesiti irrisolti. Per esempio:


▶ quando e in che modo i poemi passarono a una redazione scritta?

▶ dopo gli studi di Parry, si può ancora immaginare che l’autore dell’Iliade e dell’Odissea fosse uno solo?

 e, se sì, come si giustificano le differenze, sociali, culturali ed espressive tra i due testi?


Rispetto alla prima domanda, l’archeologia e l’epigrafia (la scienza che studia le iscrizioni, su vasi, ceramica e ogni tipo di supporto diverso dal papiro e dalla pergamena) indicano l’VIII secolo a.C. come il periodo in cui sarebbe iniziata la redazione scritta dei poemi omerici. Tale processo avrebbe portato i poemi ad accrescersi progressivamente fino alla redazione definitiva, avvenuta nel VI secolo a.C., al tempo del tiranno ateniese Pisistrato.

È proprio sulle varie fasi e sulle modalità in cui è avvenuto il passaggio dall’oralità alla scrittura che si concentra oggi il dibattito tra gli studiosi, divisi tra una tendenza neoanalitica e la cosiddetta teoria neounitaria. Quest’ultima gode di un certo consenso perché attribuisce i poemi a due distinte individualità poetiche, spiegando così le molteplici differenze tra Iliade e Odissea, ma riafferma il concetto dell’unità dell’opera poetica, che invece gli analitici mettono in discussione

Un ritratto immaginato

Omero è esistito davvero? Che volto aveva? Che età? Fin dall’epoca antica gli artisti hanno voluto ritrarre il mitico aedo fissando le sue caratteristiche in una fisionomia che è entrata a far parte del nostro immaginario: un uomo anziano, dalla lunga barba bianca e dai riccioli che cadono lungo le tempie. Un uomo cieco, per questo in grado di rivolgere lo sguardo verso “l’altrove” della poesia. Qui lo vediamo raffigurato in un busto di età ellenistica e poi nel Parnaso che Raffaello dipinse in una delle celebri Stanze vaticane: in questo affresco, Omero occupa un posto importantissimo, tra Dante e Virgilio, sul monte sacro ad Apollo e alle Muse.

Un omaggio a Omero

«Se Omero è un dio, che lo si onori tra gli dèi; se non è un dio, che sia considerato tale»: questa scritta, in greco, compare nel dipinto che il pittore neoclassico francese Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) dedica alla gloria del poeta (il dipinto è ispirato al Parnaso di Raffaello, che figura tra i personaggi ritratti). Omero è accompagnato dalle personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea, che siedono ai suoi piedi; alla sua incoronazione come divinità, davanti al tempio a lui dedicato, assistono poeti e artisti di tutti i tempi.

Il bardo con il guslar

Il bosniaco di etnia montenegrina Avdo Međe­dović (1875-1953) è il più celebre dei bardi incontrati da Milman Parry in occasione delle sue ricerche sulla trasmissione orale dell’epica nei Balcani. Si tratta di un suonatore di guslar (lo strumento riprodotto nella fotografia) che era in grado di cantare poemi lunghi quasi quanto l’Iliade.

2. TRA MITO E STORIA

L’individuazione di una lunga tradizione poetica precedente ha portato a considerare i poemi omerici come il deposito dei valori di un’intera società. In un’epoca in cui non c’era la televisione e l’informazione non viaggiava sulla rete, la poesia epica assolveva una funzione che non era solo di intratteni­mento, ma anche di trasmissione culturale.

Come ha scritto lo studioso inglese Eric Havelock (1903-1988), i poemi omerici condensavano un patrimonio di conoscenze che non era solo poetico o mitologico, ma abbracciava tutti gli ambiti della realtà, dalla navigazione alla falegnameria, fino al modo in cui tenere un discorso davanti a un’assemblea. Di qui la fortunata definizione dell’epica come un’enciclopedia tribale: i poe­mi sarebbero serviti anche a insegnare la morale e a trasmettere conoscenze in ogni ambito.

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Provocatoria, ma non del tutto peregrina, è la tesi sostenuta dalla latinista francese Florence Dupont (n. 1943), nel suo libro Omero e Dallas (titolo di una celebre serie televisiva statunitense). La studiosa propone di paragonare la funzione svolta dai poemi omerici nella società del loro tempo a quella degli sceneggiati televisivi nel mondo contemporaneo sulla base di alcuni motivi comuni: l’oralità, che è propria anche della televisione, dal momento che lo spettatore è escluso da una fruizione scritta; la funzione di intrattenimento; il carattere aperto sul piano narrativo. In realtà, differenze sussistono, di non poco conto: all’epoca di Omero e anche nei primi secoli della civiltà greca, la poesia epica era davvero l’unico mezzo di condivisione della cultura, mentre il mondo contemporaneo presenta numerosi e differenti canali di informazione, educazione e divertimento.

Videogame mitici!

Le vicende della guerra di Troia sono entrate a far parte in maniera indelebile del nostro immaginario, tanto che perfino alcuni creatori di video­game hanno pensato di dedicare loro un gioco di guerra, pur modificando e stravolgendone in parte le vicende.

I poemi omerici come fonte storica

Una delle questioni ricorrenti degli studi omerici è quale società e quale epoca storica siano rappresentate nell’Iliade e nell’Odissea.

Gli antichi, basandosi sui calcoli dello studioso greco Eratostene (III-II secolo a.C.), facevano tradizionalmente risalire la guerra di Troia al decennio che va dal 1194 al 1184 a.C., mentre la critica contemporanea la colloca in genere a cavallo tra il XIII e il XII secolo a.C., ovvero alla fine della civiltà micenea, sopraffatta dall’invasione dei Dori attorno al 1200 a.C. Gli Achei, o Micenei, insediati in Grecia a partire dal 2000 a.C., avevano creato una civiltà fiorente, che conosceva l’uso della scrittura (la lineare B), aveva eretto rocche superbe come quelle di Micene, Tirinto e Pilo nel Peloponneso e seppelliva i morti in tombe a thólos (“cupola”), tra cui quella di Agamennone a Micene. Al mondo miceneo la poesia omerica guarda come a un passato mitico, ormai trascorso.

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L’Iliade e l’Odissea, tuttavia, documentano anche una realtà storica successiva, che è quella dei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo ellenico, il periodo compreso tra il XII e il IX secolo a.C., così chiamato a causa del forte declino politico ed economico della Grecia che seguì al crollo della civiltà micenea.

L’epoca in cui vive Omero o, meglio, l’epoca in cui inizia la redazione scritta dei poemi, cioè l’VIII secolo a.C. (750-725 a.C. per l’Iliade; 743-713 a.C. per l’Odissea), è però di qualche secolo posteriore alla fine dei regni micenei e non coincide neppure con il Medioevo ellenico, rispetto al quale presenta una significativa novità: l’introduzione in Grecia della scrittura alfabetica, originaria della Fenicia.

Questo significa che in quel lungo periodo, compreso tra il XII e l’VIII secolo a.C., i poeti continuarono a cantare le stesse gesta conservandone aspetti arcaici ormai desueti. Tra questi ricordiamo, per esempio, l’uso del bronzo invece del ferro, introdotto successivamente, e l’impiego del carro da guerra, che nell’Iliade serve solo a condurre il guerriero sul luogo dello scontro, mentre in età micenea era un mezzo essenziale della battaglia.

Tuttavia, nonostante la generale tendenza della poesia orale, greca e non solo, a conservare temi e forme tradizionali, in virtù del prestigio conferito dalla loro arcaicità, spesso le informazioni storiche ricavabili dai poemi sono riferibili più utilmente al Medioevo ellenico che all’età micenea: la relativa modestia della casa di Odisseo a Itaca, per esempio, dimostra un notevole regresso economico rispetto allo splendore dei palazzi micenei.

Pertanto, in genere oggi si tende a riconoscere la coesistenza di tre diversi livelli storici e culturali nei poemi omerici, ciascuno a suo modo documentato: l’età micenea, il Medioevo ellenico e l’VIII secolo a.C., l’epoca in cui sarebbe vissuto Omero.

3. ILIADE E ODISSEA A CONFRONTO

Due mondi diversi

Già agli antichi non erano sfuggite le molte differenze riscontrabili tra Iliade e Odissea. Per spiegarle, un critico vissuto in età romana, l’anonimo autore del trattato Sul sublime, indicava nell’Iliade l’opera della giovinezza di Omero, nell’Odissea quella della maturità.
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In primo luogo nei due poemi cambiano i temi e la rappresentazione della società. L’Iliade è il poema della guerra, trattata in ogni suo aspetto, dalle strategie di attacco e di difesa alle assemblee dei guerrieri, fino alla descrizione delle armi (come lo scudo di Achille nel libro xviii) e a quella delle onoranze funebri, importante rituale sociale e religioso. L’Odissea è il poema del viaggio per antonomasia, ma affronta anche temi favolistici, legati a racconti diffusi nell’area del Mediterraneo, e motivi di vita civile e politica, come il governo di Itaca durante l’assenza di Odisseo.

Anche per la sua prevalente intonazione bellica, inoltre, l’Iliade rappresenta una società con tratti più arcaici di quella che traspare dall’Odissea. Nell’Iliade gli strati sociali inferiori godono di scarso spazio in un mondo aristocratico impegnato in una guerra decennale, mentre nell’Odissea la relativa pace in cui si svolgono le vicende permette una maggiore attenzione alla vita di pastori, porcari e artigiani.

Infine, anche sul piano religioso l’Odissea mostra una maggiore maturità. In entrambi i poemi, gli dèi sono rappresentati simili agli uomini nel fisico e nei comportamenti (antropomorfismo), ma nell’Odissea il ruolo di Zeus, per esempio, acquista una più profonda dimensione etica, confacente al suo ruolo di protettore degli stranieri e degli umili.

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Le tecniche della narrazione

Il verso dell’epica greca è l’esametro, cosiddetto perché formato da 6 metra (“unità di misura”), di un’estensione variabile da 12 a 17 sillabe. Per la sua lunghezza e duttilità esso si prestava a una poesia narrativa, lenta e solenne, come quella dei due poemi. Anche il modo di esecuzione, il recitativo (cioè una recitazione intonata e accompagnata da uno strumento), doveva essere adatto a performance orali di una certa durata.

L’aspetto stilistico fondamentale dell’epica omerica è individuabile nella formularità. I nessi formulari più tipici sono costituiti da nomi associati a:


 epiteti, cioè attributi o apposizioni ricorrenti che qualificano un termine o un personaggio (le parole fugaci, Achille piè veloce, Atena occhi azzurri, Troia domatrice di cavalli);

 patronimici, ovvero attributi che indicano il padre di un personaggio, per esempio: il Pelìde Achille è Achille, figlio di Peleo; Agamennone e Menelao sono gli Atrìdi, i figli di Atreo.


Esistono, però, anche formule più estese, che marcano momenti della giornata, come l’aurora (quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita) o il coricarsi alla sera (poi si distesero ed ebbero il dono del sonno), oppure l’alternarsi delle battute in un dialogo (per esempio: e disse ricambiando il potente Agamennone, e ricambiandolo Achille piede rapido disse).

Sul piano espressivo, l’epica omerica, gremita di battaglie, duelli, atti eroici (aristíe) e morti strazianti, si distingue per la straordinaria oggettività. Il narratore conserva una impeccabile imparzialità nel riferire le vicende, senza concedersi alcun tipo di commento o lasciarsi andare emotivamente. I rari casi in cui questa “norma” viene infranta acquistano, pertanto, particolare rilevanza (per esempio, nell’Iliade, in occasione della morte di Patroclo).

Un’altra caratteristica essenziale di entrambi i poemi è l’uso delle similitudini, le figure retoriche più frequenti. Esse conferiscono profondità ai personaggi e alle vicende, creando dei ponti tra dimensioni diverse del reale, come la guerra e il mondo animale, l’uomo e la natura, in virtù di un aspetto in comune tra i due termini confrontati (il cosiddetto tertium comparationis).

L’Iliade supera di gran lunga l’Odissea per quantità di similitudini: spesso ampie e ricche di riferimenti paesaggistici, alla caccia e agli animali, rappresentano una visione grandiosa della natura e degli elementi all’interno di una narrazione altrimenti tutta tesa alla guerra. Le similitudini dell’Odissea sono in genere più brevi e si riferiscono per lo più al mondo della quotidianità.

L’Odissea, d’altra parte, si segnala per il maggiore realismo, a causa della sua apertura al mondo dell’avventura, della famiglia, del lavoro. Illuminante a questo proposito è, nel libro XXIII, la descrizione del talamo nuziale costruito da Odisseo stesso sul tronco di un ulivo, ricca di dettagli sorprendenti. Ed è realistico anche il ritratto di Polifemo, o quello delle Sirene: nel momento in cui la narrazione rifugge dal fantastico e dal magico, sceglie una via piuttosto verosimile e razionale, anche a costo di recuperare singoli elementi tratti dall’esperienza per realizzare descrizioni inconsuete, come quelle dei mostri incontrati da Odisseo nel suo viaggio. È stato dimostrato, per esempio, che il personaggio di Polifemo, ciclope con un solo occhio al centro della fronte, dovette essere suggerito alla mitologia greca e omerica dal ritrovamento dei resti fossili di elefanti nani, dotati di un’ampia cavità nasale che facilmente poteva essere confusa con l’orbita di un unico, gigantesco, occhio.
Conseguente al maggiore realismo è nell’Odissea l’attenzione rivolta al mondo dei sentimenti, che l’Iliade sacrifica sull’altare dell’onore e della guerra, nonostante singoli momenti di grande pathos emotivo, come l’incontro di Ettore e Andromaca e la supplica di Priamo ad Achille per la restituzione del corpo di Ettore.

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Da questo punto di vista l’Odissea vede la rivincita dei personaggi femminili: Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope non sono più semplici pretesti per un litigio, come le ancelle dell’Iliade, ma acquistano un preciso significato e un valore profondo nell’itinerario esistenziale di Odisseo.

In passato ci sono stati persino tentativi di ricondurre la composizione del poema a un’autrice per spiegarne le raffinate psicologie femminili. Nel saggio The Authoress of the Odyssey (L’autrice dell’Odissea), pubblicato nel 1897, lo scrittore inglese Samuel Butler espose la controversa teoria per cui l’Odissea sarebbe stata scritta in realtà da una giovane principessa di Trapani e i paesaggi che fanno da sfondo al poema sarebbero quelli della Sicilia e delle isole vicine.

La dolce fiamma - volume C
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