ALLE RADICI DELLA CIVILTÀ: IL MITO E L’EPICA

Frida Kahlo, Il sole e la vita, 1947.

1. UN MONDO DA RACCONTARE

In greco il termine mýthos significa “racconto”, ma sarebbe ingenuo appiattirne la valenza sull’accezione moderna. I miti non sono infatti storie brevi o novelle, frutto della fantasia di un preciso autore: si tratta, piuttosto, di racconti tradizionali che si pongono alla base della memoria collettiva di un popolo e appartengono a una fase antica dello sviluppo dell’umanità, che in questo modo trasmetteva di generazione in generazione saperi e conoscenze.

L’oggetto di queste narrazioni è l’intero mondo naturale, con tutti quei fenomeni che agli occhi di uomini vissuti in epoche e civiltà distanti dalla nostra risultavano misteriosi: l’alternarsi delle stagioni, le precipitazioni atmosferiche, le stelle cadenti ecc. In effetti, il mito nasce soprattutto dal bisogno di comprendere e descrivere la realtà: ciò spiega perché esso prescriva anche i riti e le credenze di una società, fissi i suoi culti e i suoi modelli di comportamento condivisi, indicando quelli positivi da imitare e quelli negativi da evitare. Come una sorta di narrativa esemplare, il mito si propone di custodire e diffondere il repertorio delle memorie di un popolo e promuovere la continuità del futuro rispetto al passato. In tal senso esso svolge un’importante funzione fondativa, dal momento che ricostruisce l’origine di usi e tradizioni secolari e stabilisce i valori immutabili in cui si riconosce una comunità.

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Ciò spiega perché tutti i popoli antichi abbiano elaborato un patrimonio di miti spesso simili tra loro. Nonostante inevitabili differenze, essi rivestono per così dire un significato universale, presentando motivi, suggestioni e accadimenti comuni, al di là del tempo e dello spazio. Ne è un esempio il mito del diluvio, che ricorre, sia pure in versioni differenti, in culture diverse: in quella ebraico-cristiana attraverso il racconto nella Bibbia dell’arca di Noè, ma anche nell’epopea mesopotamica di Gilgamesh, nella mitologia greca, indiana e in decine di leggende di tutto il mondo, fino a quelle circolanti tra gli indiani d’America. L’origine di tali narrazioni può essere legata a eventi storici, come alluvioni o inondazioni. Tuttavia è sempre sottesa una precisa valenza simbolica: alla catastrofe, letta come un segno della volontà divina, segue sempre l’intervento di una figura eroica che adempie il compito di fondare e istituire un nuovo ordine.
Il mito nasce come un racconto orale: tramandato di epoca in epoca, acquista un carattere corale che ne salvaguarda l’identità e ne garantisce l’autorevolezza. Le storie che esso narra avvengono in un passato remoto che aiuta però a spiegare e comprendere meglio il presente. La sua arcaicità, infatti, non ha valore solo rispetto a noi: i miti erano considerati antichi anche dai Greci che conoscevano l’uso della scrittura e da tali origini lontane traevano un motivo di prestigio e soprattutto le radici della propria civiltà.
Tale concetto nel mondo antico presupponeva un contatto con il divino e con la dimensione sacra: alla base dell’intuizione mitica del mondo, infatti, c’è l’idea che ogni aspetto della vita terrena nasconda una traccia del soprannaturale. La presenza e l’agire degli dèi nelle vicende umane sono del resto un tratto essenziale di ogni mitologia: sono le divinità o gli eroi nati dall’unione di un mortale con un dio i protagonisti dei miti, attori di imprese straordinarie.
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2. IL TEMPO E LO SPAZIO DEL RACCONTO MITICO

Il racconto mitico implica la presenza di un universo altro rispetto al reale: un mondo con un suo codice, un suo sistema di tradizioni e di discendenze. Può affiorare il ricordo di antichi eventi storici, che però vengono trasfigurati e collocati in una dimensione narrativa priva di legami concreti con la realtà e con la storia effettivamente vissuta. Per questo il linguaggio mitico è contraddistinto da un tempo sospeso, una sorta di eterno presente non diverso da quello della fiaba, riconducibile a formule fisse quali «C’era una volta» oppure Kan ma kan, «C’era, non c’era», tipica dell’immaginario folclorico arabo e orientale. La dimensione temporale nelle varie mitologie risulta perlopiù connotata dalle seguenti caratteristiche:


▶ la sacralità: si tratta di un tempo che ha un valore superiore rispetto al presente, secondo il pregiudizio comune a molte culture per cui il passato è sempre migliore del periodo in cui si vive;

 la ciclicità: il tempo mitico è spesso anche un tempo ripetibile, nel quale il futuro ripercorre orme già note e non costituisce motivo di ansia e di paura per l’uomo, che vi è preparato;

 la ricerca di un principio, cioè di un momento in cui la divinità creò il mondo o gli diede forma, oppure di un momento in cui l’eroe civilizzatore o l’antenato fecero una scoperta o rivelarono un’invenzione.


Miti sulla creazione del mondo, sull’origine dei fenomeni e delle istituzioni umane sono altrettanto diffusi: basti pensare al racconto della genesi contenuto nel primo libro della Bibbia. In esso è stabilito un principio, il punto zero della linea del tempo.

La concezione dello spazio invece prevede luoghi diversi da quelli comuni, dotati di un significato speciale a seguito di un avvenimento primordiale lì compiutosi: nel linguaggio mitico viene indicato un centro del mondo, nel quale di solito si trova un luogo sacro. Si tratta di un terreno circoscritto nel quale si è compiuta una “ierofania”, ovvero la rivelazione di un elemento divino: per questo tale luogo finisce per costituire una sorta di immaginaria via di comunicazione tra l’uomo e la divinità. Anche lo spazio su cui sorgono i templi è sacro, come sacro è ogni fiume, ogni roccia, ogni sorgente in cui si è manifestata la presenza divina. I luoghi sacri interrompono lo spazio profano: per esempio, nel mondo greco e romano godevano di particolare considerazione i boschi sacri, come quello di Dodona nella Grecia settentrionale o come il lucus romano, termine che aveva il significato originario di “radura nel bosco dove arriva la luce del sole”.
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PASSATO E PRESENTE

I miti moderni

Quando l’uomo ha smesso di credere alla verità dei racconti poetici sull’origine del mondo e delle istituzioni umane? In realtà, già gli antichi Greci e Romani cominciarono a nutrire dubbi sulla verosimiglianza del loro repertorio mitologico, al quale non seppero però mai rinunciare dal tutto, anche quando l’avvento del cristianesimo e l’irrompere di popoli stranieri alla fine del mondo antico determinarono un radicale cambiamento di prospettive. La mitologia, messa in crisi dalla nascita della filosofia moderna e del razionalismo, sopravvisse nel mondo dell’arte e della cultura, come un universo di storie, una sorta di impronta digitale della civiltà classica.

Nel Settecento, in un contesto segnato da una sensibilità non a caso definita “neoclassica”, il mito venne generalmente percepito da poeti, filosofi e intellettuali come un meraviglioso serbatoio di racconti, a cui attingere a piene mani per trasmettere un ideale di armonia, bellezza e perfezione formale. Ma anche durante il Romanticismo il fascino del mito non venne meno: il poeta Giacomo Leopardi, per esempio, dedicò la canzone Alla primavera o delle favole antiche alla felicità dei Greci. Nella prima fase della sua parabola intellettuale, egli credeva che in virtù del linguaggio mitico gli antichi fossero ancora capaci di una simbiosi felice con la natura, alla quale guardavano con un sentimento ingenuo e poetico venuto meno ai moderni.

Durante tutto l’Ottocento la mitologia greca e latina è oggetto di studi approfonditi: la stessa parola “mito” estende i propri significati e si connota anche in modo metaforico. Diventata di uso comune alla metà del secolo, viene segnalata in un noto vocabolario italiano del 1869 (il Tommaseo-Bellini) con una doppia accezione: una relativa ai racconti degli antichi, una seconda invece riferita a qualunque cosa della quale si parla come se esistente, benché sia frutto dell’immaginazione. Si stava imponendo così il significato arrivato fino a oggi, per il quale “mito” può indicare anche una persona eccezionale, che vive ai confini tra la realtà e la nostra fantasia.

Ma siamo sicuri che il linguaggio sacrale e simbolico del mito sia del tutto superato? La modernità del concetto di mito non si esaurisce certo nell’uso più recente del termine. Spesso nella storia c’è stato il bisogno di inventare di sana pianta delle tradizioni, veri e propri miti moderni con pretesa di antichità utili a legittimare nuove situazioni politiche, religiose e sociali. Spesso personaggi o imperi emersi dal nulla avvertono la necessità di costruire il proprio prestigio utilizzando storie mitiche ispirate all’antichità. Basti pensare a quante città più recenti si sono fregiate del titolo di nuova Roma, desiderose di emulare la potenza e il prestigio della capitale dell’impero romano e di riallacciarsi a una tradizione molto più antica: Costantinopoli e Mosca ne sono un esempio.

È dedicato a questo tema un celebre saggio degli storici Eric Hobsbawm e Terence Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), che porta allo scoperto molte storie ritenute antiche e che invece risultano recenti o del tutto inventate allo scopo di legittimare aspetti della vita sociale, usanze o scelte politiche. Il prestigio conferito da un passato mitico, dunque, è anche un’arma culturale, un qualcosa di cui all’occorrenza vantarsi, spesso più potente di un esercito.

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3. L’EPICA

Il mito costituisce il presupposto fondamentale, la cellula più antica per l’elaborazione della poesia epica, termine derivante dal greco épos, che significa “parola”, e in senso più ampio “racconto”, “narrazione”. Esso offre infatti un vastissimo repertorio di personaggi e vicende tramandate per secoli oralmente, che l’epica riunisce e organizza in ampie narrazioni articolate in versi, caratterizzate dall’adozione di un preciso schema metrico e ritmico e da uno stile elevato e solenne. In tal modo l’epica viene a costituire un vero e proprio genere letterario, che si nutre di miti e ne genera di nuovi.

Protagonisti dell’epica sono gli eroi, uomini dotati di caratteristiche straordinarie, con i quali le divinità interagiscono in un rapporto di complicità o di contrapposizione. Il carattere eccezionale delle vicende raccontate spiega, dunque, una delle funzioni principali del genere: la conservazione delle memorie del passato.

Ogni popolo antico individua in queste narrazioni gli elementi fondanti della propria identità: l’origine della propria stirpe, il ricordo di remote guerre vittoriose, le gesta portentose di antenati illustri costituiscono, per così dire, un immutabile DNA distintivo di ogni civiltà, funzionando come una sorta di enciclopedia di valori e saperi, che si rinnovano nel tempo, di generazione in generazione.

Il carattere esemplare dell’epica è garantito proprio dalla presenza degli eroi, che incarnano infatti gli ideali della civiltà di appartenenza, offrendo una galleria di azioni e comportamenti dalla forte valenza etica e pedagogica. Non a caso, un aspetto importante della loro condotta è la dimensione agonistica: essi sanno che dal loro comportamento dipende la gloria futura di cui godranno presso i posteri. Il ricordo delle generazioni successive rappresenta l’unica forma di compensazione alla mortalità e il pensiero fisso della fama si traduce in un richiamo costante all’eroismo e al valore, unici motivi di distinzione per un guerriero.

Tale visione del mondo comporta una predisposizione al lutto e alla fine tragica: l’epica non ammette sconti o una felicità a buon mercato e paradossalmente gli eroi possono anche piangere, proprio perché non conoscono sentimenti sfumati e riconoscono al dolore la sua importanza. L’insegnamento che se ne può trarre è che una vita dedicata a una causa nobile implica sacrifici e rinunce, ma anche enormi soddisfazioni.

La dolce fiamma - volume C
La dolce fiamma - volume C
Epica