1. L’epica della Mesopotamia

1. L’EPICA DELLA MESOPOTAMIA

Molto prima della fioritura della civiltà greca, il Medio Oriente aveva conosciuto la successione di prospere civiltà fluviali, che dovevano la loro fortuna alla fertilità della terra compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate, la cosiddetta Mesopotamia. A suscitare un rinnovato interesse verso queste culture fu nell’Ottocento la scoperta del sito archeologico di Ninive, capitale dell’impero assiro (1100-600 a.C.), ultimo erede delle grandi civiltà mediorientali prima dell’avvento dei Persiani. Ulteriori scavi portarono infatti alla luce i resti della biblioteca del re assiro Assurbanipal, chiamato dai Greci Sardanapalo, vissuto nel VII secolo a.C.

Oggetto di ritrovamento furono anche dodici tavolette d’argilla che riportavano in caratteri cuneiformi le gesta del leggendario re di Uruk Gilgamesh, che secondo le fonti mitiche sarebbe vissuto attorno al 2700 a.C. ed era assurto al ruolo di eroe nazionale per i Sumeri. Scoperte archeologiche successive dimostrarono che la storia di Gilgamesh aveva avuto una vasta diffusione nel Medio Oriente, non solo nell’area di Uruk, dove vennero alla luce le tavolette più antiche, risalenti alla seconda metà del III millennio a.C., ma anche in Siria e in Anatolia. Il mito originario, tradotto nelle altre lingue della regione, infatti, era diventato oggetto di un intero ciclo epico.

Tra le varie redazioni, la versione più completa e dagli studiosi ritenuta migliore su un piano artistico è la cosiddetta “epopea classica”, composta attorno al XII secolo a.C. e tramandata dalle tavolette di Ninive del VII secolo a.C. Se ne attribuisce in genere la paternità al sacerdote-esorcista Sinleqiunnini, vissuto a cavallo tra il XIII e il XII secolo a.C. e da alcuni considerato consigliere di Gilgamesh stesso. Una spia significativa dell’unità dell’epopea di Sinleqiunnini sarebbe la presenza di un prologo e di un epilogo alla fine della tavola XI, mentre l’ultima tavola costituirebbe una sorta di appendice.

2. LA TRAMA

Nel prologo, contenuto nella prima tavoletta, l’autore presenta Gilgamesh in tre paragrafi distinti: il primo lo descrive come un saggio che ha viaggiato in paesi lontani e ha acquisito conoscenze vaste e profonde; il secondo ne celebra l’opera edilizia, culminata nella costruzione delle mura grandiose della città di Uruk; il terzo, infine, ne indica la natura divina, in quanto figlio del divino Lugalbanda e della dea Rimat-Ninsun.

La grandezza di Gilgamesh, tuttavia, è tale da risultare oppressiva per i suoi sudditi, soprattutto per le madri e le fidanzate, scontente a causa delle continue guerre in cui sono impegnati gli uomini. Il dio Anu, suprema divinità sumera, allora, decide di convocare la dea Aruru perché crei un essere che contrasti la forza immane di Gilgamesh. Aruru, preso un grumo di creta, lo pianta a terra e determina la nascita di Enkidu, «seme del silenzio», simbolo dell’uomo primordiale, che si oppone al re di Uruk, rappresentante dell’uomo civilizzato.

L’iniziazione alla civiltà per Enkidu avviene attraverso l’incontro con una prostituta sacra, la quale gli ricorda che la forza di Gilgamesh è superiore alla sua e che non ha senso competere con lui, perché ha avuto in dono dagli dèi la saggezza. Giunto a Uruk, Enkidu è determinato a sfidare il re dalla città, ma l’opposizione tra i due, in un primo momento ancora più aspra, si risolve poi sorprendentemente in un’amicizia incrollabile, che spinge Gilgamesh a chiedere alla madre Ninsun di adottare Enkidu come figlio.

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Per rinfrancare l’amico dopo la risposta probabilmente negativa di Ninsun, Gilgamesh invita allora Enkidu a partecipare a una serie di favolose avventure, la prima delle quali è il viaggio alla Foresta dei Cedri, custodita dal mostro Khubaba. La prima difficoltà, in realtà, si manifesta nel momento stesso della partenza, ostacolata dagli anziani di Uruk: l’eroe ottiene a tal fine la benedizione e la protezione della madre Ninsun, che rivolge al dio Sole una preghiera perché aiuti il figlio e gli assicuri il ritorno. L’impresa risulta molto complicata, anche perché Enkidu sa che una volta entrato nella Foresta dei Cedri le sue braccia saranno come paralizzate. Gilgamesh, allora, lo incoraggia e insieme all’amico comincia ad abbattere i cedri. Khubaba tenta, nel frattempo, di ingraziarsi la simpatia del re di Uruk, cui promette gli alberi migliori per decorare il suo palazzo. Alla fine i due eroi sconfiggono il mostro e tornano vittoriosi a Uruk portando con sé anche tronchi di cedro utili ad abbellire i templi della città.

Le avventure dei due amici non finiscono qui: la dea Ishtar, infatti, viene colpita dalla bellezza di Gilgamesh che vede sfilare maestoso per le vie della città e se ne innamora. L’eroe, tuttavia, la rifiuta, perché conosce la fine che hanno avuto tutti gli amanti che si sono uniti a lei. L’offesa recata alla dea merita una degna punizione e Anu, sollecitato da Ishtar, decide l’invio sulla terra del Toro celeste, affinché devasti la città di Uruk. Gilgamesh e il suo amico affrontano il mostro divino, lo abbattono e lo sacrificano al dio Sole Shamash: Enkidu stacca persino una spalla dell’animale e la getta addosso a Ishtar, cui rivolge parole di scherno.

A questo punto, la misura è colma e gli dèi, riuniti in assemblea, condannano a morte Enkidu. Caduto in preda a una febbre rovinosa, in pochi giorni Enkidu muore, causando la disperazione di Gilgamesh ( T1, p. 43).

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La scomparsa dell’amico segna una svolta nelle vicende: Gilgamesh, prostrato dalla perdita, si mette infatti alla ricerca dell’immortalità, che costituirà l’argomento principale della seconda parte dell’epopea. L’eroe deve affrontare una nuova serie di avventure, non più in compagnia, ma da solo: tale dimensione solitaria acuisce la portata radicale dell’interrogativo di Gilgamesh sul senso della vita umana. Prima gli uomini-scorpione lo costringono a percorrere le cavità oscure della montagna Mashu, poi, una volta tornato alla luce, si trova in un giardino dove viene accolto dalla taverniera Siduri, che lo scambia all’inizio per un ladro a causa del suo abbigliamento trasandato. Infine si reca dal traghettatore Urshanabi, cui chiede di essere trasportato al luogo in cui dimora Utanapishtim, il mitico antenato sopravvissuto al diluvio universale. A tale figura leggendaria è affidata la rivelazione della verità sul senso della vita umana: dopo il diluvio, gli dèi, riuniti in assemblea, avevano deciso di concedere a lui solo e a sua moglie l’immortalità, mentre il resto dell’umanità era condannato a un destino mortale ( T2, p. 47).
Nonostante il colloquio con l’antenato, Gilgamesh non vuole rinunciare al suo sogno e continua a indagare: Utanapishtim gli concede allora un’altra possibilità. Potrà conoscere il segreto della vita eterna se riuscirà a stare sveglio per sei giorni e sette notti consecutive. L’eroe non riesce nell’impresa, ma viene aiutato dalla moglie di Utanapishtim, la quale prega il marito di svelare a Gilgamesh il segreto della pianta dell’irrequietezza che si trova in fondo al mare e ha la capacità di riportare un vecchio nella sua piena virilità. Il re riesce a prenderla e a riemergere, intenzionato a portarla a Uruk per farla mangiare ai vecchi della città ma, approfittando di una sua distrazione, un serpente annusa la fragranza della pianta e la mangia. La conseguenza è che il rettile perde subito la vecchia pelle. Frustrato anche da questo tentativo fallito e ormai risoluto ad abbandonare per sempre la ricerca dell’immortalità, Gilgamesh torna finalmente a Uruk e contempla di nuovo la grandiosità delle mura che aveva fatto costruire molto tempo prima. Capisce, così, che l’immortalità si ottiene con azioni valorose e degne di essere ricordate.

3. I TEMI

L’epopea di Gilgamesh unisce i tratti tipici dell’epica, come la dimensione bellica e guerriera, con aspetti tragici e romanzeschi, quali la centralità della morte e del dolore e la metamorfosi interiore del protagonista. Gilgamesh, il figlio degli dèi, conosce infatti una progressiva maturazione, che lo conduce ad abbandonare la durezza del sovrano che impone faticose prove ai suoi sudditi per conoscere il significato dell’affetto e della condivisione.

In questo percorso di formazione svolge un ruolo fondamentale l’amicizia con il selvaggio Enkidu, figlio della steppa, che nasce a partire da una situazione caratterizzata dall’iniziale contrasto tra due mondi apparentemente inconciliabili. Secondo alcuni l’opera si può leggere, pertanto, come la storia dell’opposizione tra la natura, rappresentata da Enkidu, e la civiltà, di cui è alfiere Gilgamesh, re di Uruk: l’equilibrio raggiunto tra queste due realtà consente a entrambi i personaggi di superare insieme una serie di avventure eccezionali. A questo proposito, si è parlato dell’epopea come di un “inno all’amicizia”, superiore all’amore, in quanto Gilgamesh rifiuta persino le offerte della dea Ishtar che vorrebbe unirsi a lui.

Un momento di svolta è rappresentato dalla morte dell’amico Enkidu, che determina lo smarrimento dell’eroe e spinge Gilgamesh a percorrere un cammino sapienziale fino ai confini del mondo alla ricerca dell’immortalità. Questa indagine spasmodica costituisce un altro tema decisivo dell’epopea, che ne accresce l’interesse anche nel mondo contemporaneo. L’eroe, infatti, è tormentato dal desiderio di conoscere il senso della vita umana e per soddisfarlo è disposto a condurre un viaggio duro e pericoloso: la magrezza con cui si presenta all’antenato Utanapishtim è la prova fisica del suo travaglio, che lo rende molto vicino alla nostra sensibilità.

Gilgamesh vaga per steppe e scala montagne, affronta animali selvaggi e straordinari pericoli senza mai perdersi d’animo: il tema del viaggio si carica, perciò, di un significato profondo, divenendo metafora stessa della vita umana. A differenza di Odisseo, il cui itinerario avrà come obiettivo il ritorno in patria, Gilgamesh si mette in cammino per chiarire il mistero della vita umana, senza sapere ciò cui andrà incontro.

Tale brama di conoscenza, tuttavia, è votata al fallimento: quando il serpente mangia la pianta dell’irrequietezza, Gilgamesh dà voce alla sua delusione per aver fallito nell’impresa più grande della sua vita, la ricerca della vita eterna. «Per che cosa si sono affaticate le mie braccia? Per quale scopo è scorso il sangue nelle mie vene? Non sono stato capace di ottenere alcunché di buono per me stesso».

Verifica delle conoscenze

1. Quando furono scoperte le tavolette contenenti il testo dell’epopea di Gilgamesh?
2. Chi è Gilgamesh? Quando sarebbe vissuto?
3. A chi è attribuita la paternità dell’epopea?
4. In che modo nasce l’amicizia tra Gilgamesh ed Enkidu?
5. Quali imprese compiono assieme i due personaggi?
6. Come reagisce Gilgamesh alla morte di Enkidu?
7. Quali sono i temi principali dell’opera?
8. Perché l’epopea di Gilgamesh può essere interpretata come una lotta tra natura e civiltà?

La dolce fiamma - volume C
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