T7 - La discesa agli Inferi (libro VI, vv. 679-759, 788-807, 847-853)

T7

La discesa agli Inferi

  • Tratto da Eneide, libro VI, vv. 679-759, 788-807, 847-853 (in traduzione: vv. 828-906, 950-973, 1024-1033)

Ripreso il mare, Enea approda di nuovo in Sicilia, dove celebra i giochi funebri per il padre Anchise a un anno dalla sua morte. Il clima festivo è presto interrotto da un nuovo contrattempo: istigate da Giunone, le donne troiane, stanche per le infinite peregrinazioni, incendiano le navi; solo l’intervento di Giove, che manda un temporale, riesce a domare l’incendio. Il padre Anchise, apparso in sogno a Enea, gli consiglia di lasciare in Sicilia tutti coloro che non intendono proseguire il viaggio e gli chiede di scendere negli Inferi per incontrarlo (libro V).

Ripartiti di nuovo verso le coste laziali, i Troiani approdano a Cuma, sulla costa campana, sede dell’antro della Sibilla. La profetessa accompagna Enea agli Inferi dopo avergli predetto le imminenti guerre nel Lazio. Per entrare nell’Ade, tuttavia, l’eroe ha bisogno di un ramo d’oro, sacro a Proserpina, regina degli Inferi: solo quando la Sibilla mostra questo dono a Caronte, traghettatore dell’Ade, questi si decide a farli passare. Dopo aver incontrato Cerbero, mostruoso cane a tre teste posto a guardia dell’Antinferno, i due attraversano i Campi del Pianto, dove dimorano le anime dei suicidi per amore, tra le quali anche Didone. La donna reagisce con un freddo silenzio al passaggio di Enea, che neanche degna di uno sguardo, mentre egli scoppia in lacrime. Lasciato il Tartaro, prigione degli empi, l’eroe incontra il poeta Museo, che lo porta finalmente nei Campi Elisi, luogo dei beati, dove si trova il padre Anchise.

Frattanto Anchise guardava con dolce attenzione

le anime racchiuse nel fondo di una valle

830 erbosa: destinate a venire alla luce

sulla terra. Così passava in rassegna

i suoi futuri nipoti, le loro sorti fatali,

i costumi e le imprese. Appena vide Enea

che gli veniva incontro attraverso il bel prato

835 gli tese le mani piangendo di gioia:

«Finalmente sei giunto, la tua pietà – che tanto

ho aspettato – ha potuto vincere le durezze

del cammino? Ti vedo, sento la nota voce,

posso parlarti, figlio! Speravo di vederti

840 e calcolavo il tempo: né la trepida attesa

m’ha ingannato. Attraverso quali terre, attraverso

quanti mari portato, da quanti pericoli

sbattuto, o figlio, ti accolgo! E quanto

ho temuto le insidie del regno della Libia!».

845 E l’eroe: «La tua ombra dolente, tante volte

veduta in sogno, mi spinse a venire quaggiù:

le mie navi son ferme sul Tirreno. Deh, lasciami

prendere la tua mano! Non sottrarti al mio abbraccio!»

Così dicendo bagnava le gote di pianto.

850 Tre volte cercò di gettargli le braccia al collo, tre volte

l’Ombra, invano abbracciata, gli sfuggì dalle mani

simile ai venti leggeri o ad un alato sogno.

Nella valle appartata Enea vede una selva

solitaria, fruscianti virgulti e il fiume Lete

855 che bagna quel paese di pace. Intorno ad esso

si aggiravano popoli e genti innumerevoli:

così nell’estate serena le api si posano

sui fiori colorati e sui candidi gigli

e tutta la pianura risuona del loro ronzio.

860 Enea stupisce alla vista improvvisa e ne chiede

il significato, che fiume sia quello laggiù,

chi siano le anime che affollano le rive.

E Anchise: «Coloro cui tocca incarnarsi

una seconda volta, bevono al Lete un’acqua

865 che fa dimenticare gli affanni, un lungo oblio.

Ma è tanto che desidero mostrarti, una per una,

le anime che un giorno saranno i miei discendenti;

così sempre di più potrai rallegrarti

d’aver raggiunto l’Italia». «Padre, dobbiamo credere

870 che ci siano delle anime che fuggono di qui

per salire nell’aria terrestre e ritornare

di nuovo nei pesanti corpi? Che desiderio

insensato di vita possono avere, infelici?»

Allora Anchise gli spiega ogni cosa per ordine.

875 «Dapprima uno spirito vivifica dall’interno

cielo, terra, le liquide distese marine,

il sole titanio, il globo lucente della luna:

una mente diffusa per le membra del mondo

ne muove l’intera mole, si mescola con la sua massa.

880 Nascono da esso le razze degli uomini e degli animali,

le vite dei volatili, i mostri che il mare produce

sotto la sua superficie lucente come il marmo.

In tali semi di vita c’è un’energia di fuoco,

una celeste origine: ma i corpi, questi pesi

885 nocivi li rendono lenti, le membra mortali

e gli organi terreni li ottundono. Perciò

sono soggetti al timore e al desiderio, al dolore

e alla gioia; rinchiusi nel buio carcere del corpo

non riescono a vedere il cielo. Neanche quando

890 nel giorno supremo la vita le ha lasciate

quelle povere anime riescono a liberarsi

da tutti i mali e da tutte le brutture del corpo:

tanto i peccati han messo radici profonde.

Così sono soggette a pene e riscattano

895 le colpe antiche. Alcune sospese per aria

sono investite dai soffi del vento; altre lavano

in fondo a un’acqua impetuosa, o bruciano nel fuoco,

la colpa che le infettò. Ognuna soffre il destino

che le compete. Dopo siamo mandati in Eliso,

900 ma rimaniamo in pochi nei vasti campi ridenti,

finché lo scorrer dei giorni, chiuso il giro del tempo,

abbia tolto ogni macchia e abbia lasciato puro

lo spirito celeste, la scintilla del soffio

primitivo. Quelle anime che vedi laggiù, dopo

905 mille anni d’attesa, un Dio le chiama al Lete

in schiera immensa, perché bevano olio e dimentiche

del passato rivedano il cielo convesso,

le punga il desiderio di tornare nei corpi».

Ciò detto Anchise condusse il figlio e la Sibilla

910 in mezzo alla folla rumorosa delle anime,

guadagnando un’altura da cui veder passare

tutti in fila, uno a uno, e distinguere il volto.

«Ascolta, ti dirò la gloria futura

della stirpe di Dardano, ti mostrerò i nipoti

915 che ci darà l’Italia: grandi anime fatali

Illustri successori

Anchise indica a Enea alcuni dei suoi discendenti illustri, tra cui Silvio, il figlio avuto nel Lazio da Lavinia, successore di Ascanio come re di Alba Longa, e Romolo (vv. 917-949). Alla rassegna mitica subentra presto, però, quella della storia recente.

950 «Ora guarda laggiù, osserva i tuoi Romani.

I tuoi Romani! C’è Cesare e tutta la progenie

di Julo, che un giorno uscirà sotto la volta del cielo.

Questo è l’uomo promessoti sempre, da tanto tempo:

Cesare Augusto divino. Egli riporterà

955 ancora una volta nel Lazio l’età dell’oro, pei campi

dove un tempo regnava Saturno; estenderà

il suo dominio sopra i Garamanti e gli Indi,

dovunque ci sia una terra, fuori delle costellazioni,

fuori di tutte le strade dell’anno e del sole,

960 dove Atlante che porta il cielo fa roteare

sulla sua spalla la volta ornata di stelle lucenti.

Già sin d’ora, in attesa del suo arrivo, la terra

meotica e i regni del Caspio tremano per i responsi

degli Dei, e si turbano le trepide foci del Nilo

965 dai sette rami. Nemmeno Ercole ha percorso

tanto spazio di terra, sebbene trafiggesse

la cerva dai piedi di bronzo e rendesse sicuri

i boschi d’Erimanto e atterrisse con l’arco

Lerna: nemmeno Bacco che vittorioso guida

970 il carro con le redini intrecciate di pampini,

calando con le sue tigri dall’alta vetta di Nisa.

E tu esiti ancora a accrescere di tanto

la nostra forza, temi di fermarti in Italia?»

I grandi eroi di Roma

Segue (vv. 974-1023) una rassegna dei re e dei condottieri che avrebbero contribuito alla grandezza di Roma nella repubblica, come Camillo, i Deci, i Drusi, Catone, i Fabii, Quinto Fabio Massimo, dittatore ai tempi di Annibale, fino al monito conclusivo che riassume la funzione di Roma nella storia.

«Altri (io non ne dubito) sapranno meglio plasmare

1025 statue di bronzo che paiano respirare, o scolpire

immagini viventi nel marmo, sapranno

difendere con oratoria più acuta le cause legali,

sapranno tracciare i moti del cielo

col compasso e predire il sorgere degli astri:

1030 ma tu, Romano, ricorda di governare i popoli

con ferme leggi (queste saranno le tue arti),

imporre la tua pace al mondo, perdonare

agli sconfitti, ai deboli e domare i superbi!»


Publio Virgilio Marone, Eneide, libro VI, vv. 828-906, 950-973, 1024-1033, trad. di C. Vivaldi, Garzanti, Milano 1990

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A tu per tu con il testo

Incontrare dopo un lungo tempo un padre, un amico, una persona cara: difficile vivere un’emozione così intensa. Prevale la commozione o la gioia? Come avviene a Enea e Anchise, i due sentimenti sono intrecciati, le lacrime scendono mentre si accenna a un sorriso, difficile, come se fosse un gesto inadeguato a esprimere ciò che si prova. In Virgilio, l’incontro tra il padre e il figlio non è però solo l’occasione del trionfo dei sentimenti: mostrando a Enea i suoi discendenti, Anchise vuole narrare la storia di Roma, celebrandone la grandezza ed esaltando Augusto, il figlio del divino Cesare, colui che estenderà l’impero romano fin quasi al cielo e a cui è dedicato il poema. L’intento politico che il poeta vuole perseguire è affidato alle parole di un padre. Non è un caso: la saggezza si fonda sull’autorevolezza, sull’esperienza, sull’insegnamento degli antenati e, soprattutto, di chi ci ha dato la vita. In tempi mutati, quella stessa saggezza appartiene anche ai vecchi di oggi – non è un’offesa chiamarli così, in barba alla lingua politicamente corretta che ci viene imposta –, che talvolta non ascoltiamo o, peggio, ignoriamo. È un errore grave, che ci priva di una miniera di ricordi, di lezioni, di esperienze.

 >> pagina 341

Analisi

Dopo una lunga perlustrazione degli Inferi, Enea e la Sibilla giungono al luogo in cui si trova Anchise, padre dell’eroe troiano, intento a passare in rassegna con trasporto le anime dei suoi discendenti (vv. 828-833). Le sue prime parole sono dettate dal sentimento di gioia e di sorpresa per una visita così a lungo attesa, resa possibile dalla pietas di Enea. È una somma di sensazioni visive e uditive quella che Anchise prova davanti al figlio (Ti vedo, sento la nota voce, / posso parlarti, figlio, vv. 838-839). Alla gioia si accompagna, però, una nota tragica quando Enea tenta invano di abbracciare l’ombra del padre (Tre volte cercò di gettargli le braccia al collo, tre volte / l’Ombra, invano abbracciata, gli sfuggì dalle mani / simile ai venti leggeri o ad un alato sogno, vv. 850-852).

Il dolore per la negazione del contatto fisico lascia il posto alla descrizione dei Campi Elisi, lo spazio dell’aldilà destinato alle anime dei giusti (vv. 853-862): agli occhi pieni di meraviglia di Enea, infatti, si apre una selva / solitaria, fruscianti virgulti e il fiume Lete / che bagna quel paese di pace (vv. 853-855). Le rive del fiume Lete sono popolate dalle anime dei defunti che attendono di berne l’acqua per dimenticare le colpe commesse nella vita conclusa e intraprendere così il ciclo di reincarnazione. Enea si chiede, allora, ammirato: Che desiderio / insensato di vita possono avere, infelici? (vv. 872-873), verso che più di molti altri esprime il dolente sentimento di infelicità e pessimismo di Enea e di Virgilio stesso.

Il successivo discorso di Anchise (vv. 875-898), che ha tutto il sapore di un ammaestramento filosofico, risente di una tradizione di pensiero fondata secondo la tradizione dal personaggio mitico di Orfeo e ripresa dal filosofo Pitagora (VI secolo a.C.). Alla base vi è l’idea della reincarnazione dell’anima promossa dalla dottrina della metempsicosi. Secondo tale concezione le anime sono create, pure, da un’energia divina e acquistano solo in seguito il peso del corpo, considerato negativamente come un fardello. Estremamente poetico e rarefatto è il lessico che Anchise impiega per definire quella sorta di anima universale e originaria, da cui provengono le singole anime (una mente diffusa per le membra del mondo, v. 878; un’energia di fuoco, / una celeste origine, vv. 883-884). Il tono si fa più realistico quando vengono spiegati i danni dovuti all’immissione delle anime nei corpi (vv. 884-889), tali che anche dopo la morte le anime sono condannate a espiare le pene per le colpe commesse, secondo un criterio di giustizia cosmica (sospese per aria / sono investite dai soffi del vento; altre lavano / in fondo a un’acqua impetuosa, o bruciano nel fuoco, / la colpa che infettò. Ognuna soffre il destino / che le compete, vv. 895-899).

Poste le premesse religiose, Anchise ha premura di mostrare a Enea le anime che dopo mille anni di purificazione sono pronte a riacquistare un corpo e a tornare sulla terra, stimolate da un dio che le conduce a bere l’acqua del fiume Lete, capace di donare l’oblio (vv. 899-916). Il fine del discorso non è più solo religioso, ma anche politico, come annuncia lo stesso Anchise (Ascolta, ti dirò la gloria futura / della stirpe di Dardano, ti mostrerò i nipoti / che ci darà l’Italia: grandi anime fatali / destinate a portare un giorno il nostro nome, vv. 913-916).

Si affaccia così, nei versi successivi (vv. 950-973), il motivo encomiastico, a cui si accompagna il fine politico dell’Eneide, tesa a celebrare il ruolo pacificatore svolto dall’imperatore Augusto. Le vicende familiari di Anchise ed Enea si legano, infatti, a quelle pubbliche attraverso i discendenti illustri della gens Iulia, tra cui figurano appunto Cesare e Ottaviano. La vera gloria è quella ottenuta per la grandezza della famiglia e dello Stato, ammonisce Anchise, che incalza con l’autorevolezza che compete solo a un padre e che i Romani avvertivano con tanto rispetto, come pochi altri popoli (E tu esiti ancora a accrescere di tanto / la nostra forza, temi di fermarti in Italia?, vv. 972-973).

Ormai rapito in una dimensione religiosa connotata da un fortissimo afflato politico, Enea ascolta dal padre un ultimo messaggio, che in alcuni tra i versi più famosi dell’Eneide scolpisce i doveri dell’uomo romano nella storia: ma tu, Romano, ricorda di governare i popoli / con ferme leggi (queste saranno le tue arti), / imporre la tua pace al mondo, perdonare / agli sconfitti, ai deboli e domare i superbi! (vv. 1030-1033). La specificità della civiltà romana è così individuata nella scienza del diritto, la giurisprudenza, che la distingueva dai Greci e dagli altri popoli dell’antichità, nella vocazione al dominio e alla clemenza, senza la quale è impossibile instaurare una pace duratura. Viene perciò esaltata la missione civilizzatrice di Roma, capitale di un impero universale esteso fino all’India e voluto dal Fato. A esso l’Eneide vuole presentarsi come “poema nazionale”, autentico monumento letterario delle glorie di una intera civiltà.

 >> pagina 342

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Che cosa sta facendo Anchise quando Enea finalmente lo incontra?


2. Enea giunge in Italia dopo aver superato mille pericoli. Quale tra questi Anchise ha temuto che potesse bloccare il viaggio del figlio più degli altri?

  • a Le Arpie. 
  • b L’incontro con Circe. 
  • c La tentazione di rimanere a Cartagine. 
  • d Scilla. 


3. Che potere ha l’acqua del fiume Lete?


4. Anchise spiega a Enea la genesi delle anime e la dottrina della metempsicosi. Indica se le seguenti affermazioni relative al suo discorso sono vere o false.

a) Le anime preesistono ai corpi.

  • V   F

b) Il corpo è considerato il tempio dell’anima.

  • V   F

c) Dopo il distacco dal corpo le anime si reincarnano subito.

  • V   F


5. Secondo Anchise, qual è l’uomo promesso a Enea da tanto tempo, come si legge al v. 953?

  • a Virgilio. 
  • b Augusto. 
  • c Giulio Cesare. 
  • d Romolo. 


6. Perché, secondo Anchise, Enea non deve temere di fermarsi in Italia?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

7. La descrizione delle anime che si affollano sulle rive del Lete per berne le acque è impreziosita da una similitudine. Quale? È un’immagine connotata positivamente o negativamente?


8. Quale concezione del corpo emerge dalla dottrina della metempsicosi?


9. Quali aspetti dell’opera di Ottaviano Augusto sono messi maggiormente in rilievo?


10. Che cosa determina la grandezza dei Romani, secondo Anchise? Perché, secondo te, non basta indicare la giurisprudenza e il culto della legge?


11. Nel brano c’è una scena tipica dell’epica classica, già presente nell’Iliade, nell’Odissea e nella stessa Eneide. Quale?

COMPETENZE LINGUISTICHE

12. Il linguaggio figurato. Dal v. 1024 al v. 1029 Anchise enumera le virtù di altri popoli: realizzare statue in bronzo o in marmo, difendere cause, conoscere il moto degli astri. La specificazione dei doveri propri dei Romani giunge solo alla fine, quale alternativa evidentemente migliore a quelle esposte. Tale schema retorico prende il nome tedesco di Priamel (dal lat. preambulum, “preambolo”): un altro celebre esempio è in un frammento della poetessa greca Saffo, che nella traduzione di Salvatore Quasimodo recita: «Un esercito di cavalieri, dicono alcuni, / altri di fanti, altri di navi, / sia sulla terra nera la cosa più bella: / io dico, ciò che si ama».

Secondo te, su quale presupposto retorico si basa?

  • a L’ultimo elemento di un elenco vale più degli altri.
  • b Il primo termine di una lista è più importante dei successivi.
  • c Non c’è differenza nell’ordine di una elencazione.
  • d Il secondo termine è sempre preferibile al primo.

 >> pagina 343 

PRODURRE

13. Scrivere per descrivere Tu come immagineresti il luogo che attende le anime beate nell’aldilà? Scrivi un breve testo descrittivo (massimo 20 righe) facendo ricorso ai tuoi ricordi di letture e film sull’argomento.


14. Scrivere per confrontare Confronta questo brano con quello della discesa agli Inferi di Odisseo ( T7, p. 230): quali sono le somiglianze e quali le differenze? Quali tematiche vengono affrontate? Descrivile in un breve testo (massimo 25 righe).

SPUNTI PER discutere IN CLASSE

L’incontro con l’anima di Anchise rappresenta una soluzione geniale per affidare a una figura rispettatissima, come quella del padre defunto, il compito di delineare le grandi imprese cui è destinata la stirpe di Enea. I moniti dei genitori, soprattutto quando giungono dall’aldilà, hanno un valore inestimabile, e Virgilio lo sa bene. Allo stesso tempo, però, Anchise mostra al figlio il suo stesso futuro glorioso, richiamandolo così a una doppia responsabilità: da un lato tenere alto il nome del padre, dall’altro avere a cuore le sorti di una intera stirpe che nascerà da lui. La generazione presente dialoga così con quella passata e con quella futura. Avverti mai questo richiamo familiare a fare “grandi cose” per accontentare i nonni o i genitori? Rifletti su questo tema in classe con l’insegnante e con i compagni.

PASSATO E PRESENTE

L’Eneide durante il fascismo

Fin da quando fu pubblicata dopo la morte di Virgilio, l’Eneide ebbe un successo enorme e assurse a Roma al ruolo di poema “nazionale” (aggettivo in verità improprio se riferito al mondo antico), divenendo libro di lettura nelle scuole, come sono oggi in Italia I promessi sposi e la Divina Commedia. Ciò avvenne non solo per il suo valore artistico, ma anche per quello ideologico, dal momento che nell’Eneide Virgilio presenta il potere di Roma sul mondo mediterraneo, giunto a compimento sotto l’impero di Augusto, come una necessità voluta dalla provvidenza divina, destinata a durare per sempre (nel libro I Giove dice: «A costoro [cioè ai Romani] ho assegnato un dominio senza fine», vv. 278-279). Il concetto è chiaramente espresso proprio nel libro VI, in cui sono nominati tutti i protagonisti principali della storia di Roma fino alla nascita dell’impero grazie all’espediente della profezia.

Tale aspetto dell’Eneide fu particolarmente valorizzato in Italia durante il fascismo (1922-1943), quando fu sostenuta una lettura fortemente ideologizzata del poema. Infatti nel Ventennio la propaganda di regime promosse il “culto della romanità”, che consisteva nell’esaltare e celebrare in modo strumentale tutto ciò che era attinente al glorioso passato imperiale dell’Urbe, con il fine di dimostrare che il fascismo faceva rinascere e rinnovava le istituzioni dell’antica Roma. Gli italiani dell’epoca venivano così presentati come eredi degli antichi Romani e per questo avevano il diritto di fondare nuovamente un impero, che fu proclamato da Mussolini dopo la conquista dell’Etiopia il 9 maggio 1936.

Secondo tale prospettiva l’Eneide era interpretata in chiave attualizzante, come se il poema avesse una valenza politica e storica anche per l’epoca contemporanea. A essere sfruttati in tal senso furono in particolare i versi che suggellano il discorso di Anchise a Enea, in cui Virgilio esprime con mirabile sintesi ed efficacia i cardini dell’imperialismo romano e dell’ideologia augustea del principato: ma tu, Romano, ricorda di governare i popoli / […] imporre la tua pace al mondo, perdonare / agli sconfitti, ai deboli e domare i superbi! (libro VI, vv. 1030-1033 della trad. di C. Vivaldi,  T7, p. 336). Essi divennero una sorta di manifesto del nazionalismo e imperialismo fascista, tanto da essere continuamente citati nei discorsi pubblici, nella stampa, in libri e pubblicazioni di ogni tipo e – al pari di altri passi di autori classici – in epigrafi su monumenti ed edifici dell’epoca, spesso accompagnati dalla terza strofa del Carmen saeculare di Orazio, altro celebre poeta di età augustea, la quale nella traduzione del 1919 di Fausto Salvadori suona: «Sole che sorgi libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma, / tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggior di Roma».

La dolce fiamma - volume C
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Epica