T3 - Amici ritrovati: Glauco e Diomede (libro VI, vv. 118-236)

T3

Amici ritrovati: Glauco e Diomede

  • Tratto da Iliade, libro VI, vv. 118-236

Achille, ormai risoluto a non combattere più, confida la propria amarezza alla madre Teti, che chiede a Zeus di favorire i Troiani in modo che i Greci avvertano ancora di più la mancanza dell’eroe (libro I). Frattanto, un sogno induce Agamennone a sferrare l’ultimo attacco, ma il comandante mette alla prova l’esercito e prima dell’assalto invita tutti a fare ritorno in patria. I soldati, stremati da dieci anni di battaglia, corrono alle navi, ma sono fermati da Odisseo (libro II). Il tentativo di risolvere la guerra con un duello tra Paride e Menelao si conclude con un nulla di fatto (libri III-IV), anzi la battaglia infuria con maggiore violenza, con l’aristìa di Diomede, la grande prova di valore dell’eroe greco. Protetto da Atena, Diomede semina lo scompiglio fra i Troiani, fino a colpire la stessa dea Afrodite (libro V).

Quando i Troiani si sono ormai ritirati fin sotto le mura e l’indovino Eleno, figlio di Priamo, invita Ettore a recarsi dalla madre Ecuba per indurla a un sacrificio alla dea Atena, allora il campo di battaglia diventa il teatro di un episodio imprevisto: la logica della guerra cede il posto a una pagina di grande umanità.

Glauco, d’Ippòloco figlio, nel mezzo, e il figliuol di Tidèo,

d’ambe le parti convennero, entrambi bramosi di pugna.

120 Or quando l’un contro l’altro movendo, già eran vicini,

primo a parlare prese l’ardito guerrier Dïomede:

«Da quale umana stirpe provieni tu mai, valoroso,

ch’io prima d’ora non t’ho visto mai nella nobile zuffa?

Ma ti sei fatto innanzi, ma tutti hai di molto or precorso.

125 Nel tuo valore ben fidi, se attendi la lunga mia lancia:

ché la mia furia affronta soltanto chi nacque a sciagura.

Ma se tu fossi un Nume, se fossi disceso dal cielo,

io non combatterò davvero coi Numi celesti:

poiché neppur Licurgo, possente figliuol di Driante,

130 a lungo visse, quando contese coi Numi immortali,

ei che le Ninfe, nutrici dell’ebro Diòniso, un giorno

cacciò pei gioghi santi di Nisa. Gittarono quelle

tutte i lor tirsi a terra, battute dal pungolo aguzzo

dell’omicida Licurgo: Diòniso, tutto sgomento,

135 giù si tuffò nei flutti del mare; e lui pavido accolse

Teti nel grembo; e per gli urli del sire era tutto un tremore.

Ma si crucciaron con lui gli Dei dalla facile vita,

e lo privò della vista di Crono il figliuolo; né a lungo

visse: ché l’odio ei divenne di tutti gli eterni Celesti.

140 Dunque non io coi Numi beati combatter vorrei.

Ma se degli uomini sei, che pascono il frutto dei campi,

fatti più presso, ché prima tu giunga al confine di morte».

E gli rispose così d’Ippòloco il fulgido figlio:

«O valoroso Tidìde, perché la mia stirpe tu chiedi?

145 Simili sono le stirpi degli uomini a stirpi di foglie.

Le foglie, queste a terra le spargono i venti, e la selva

altre ne germina, e torna di nuovo a fiorir primavera:

così le stirpi umane, spunta una, quell’altra appassisce.

Pure, se tu vuoi questo sapere, se fatto esser certo

150 qual sia la mia progenie: è dessa a molti uomini nota.

V’è la città d’Efìra nel cuor dell’Argòlide equestre,

dove Sìsifo nacque, che fu dei mortali il più scaltro,

Sìsifo, d’Èolo figlio. Da Sìsifo Glauco nacque,

e fu Glauco padre del nobile Bellerofonte,

155 ch’ebbe dai Numi in dono bellezza e virile prodezza.

Pur, contro lui macchinò nell’animo infesti disegni

Preto, e via lo scacciò dalla patria; e ben era possente

ei fra gli Argivi: ché Giove li aveva soggetti al suo scettro.

Arsa di folle brama, voleva la sposa di Preto,

160 la diva Antèa, con lui mescolarsi d’amore furtivo;

ma non sedusse Bellerofonte, l’onesto, l’accorto.

E corse allora a Preto con questa menzogna, e gli disse:

«Muori tu, Preto, o dà la morte a Bellerofonte,

che mi voleva pigliare d’amore, se ben mi schermivo».

165 Disse, ed a queste parole fu invaso il sovrano dall’ira.

Schivò di porlo a morte, ché in cuore pur n’ebbe ritegno;

ma lo mandò nella Licia, scrivendogli cifre funeste

entro due chiuse assicelle: dicendo che al suocero suo

quelle mostrasse, per farlo morir: ch’eran cifre di morte.

170 Dunque, in Licia egli andò con la scorta secura dei Numi.

E quando giunto in Licia fu poi, presso i rivi del Xanto,

il re dell’ampia Licia lo accolse, gli fe’ grande onore,

l’ospitò nove giorni, sgozzò nove bovi ai Celesti.

Ma quando poi spuntò, col decimo giorno, l’Aurora,

175 anche domande allora gli volse, le cifre vedere

volle, che aveva a lui recate dal genero Preto.

Quando ebbe viste poi le cifre funeste del sire,

prima gli comandò che uccidesse l’immane Chimera.

Era quel mostro stirpe di Numi, non già di mortali:

180 sopra leone, capra nel mezzo, di drago la coda,

terribilmente spirando la furia di fuoco avvampante.

Pur, nei propizi prodigi dei Numi fidando, ei la uccise.

Poi s’azzuffò coi magnanimi Sòlimi: e dire soleva

che quella era la pugna più dura che avesse affrontata.

185 Terzo, poi, sterminò le Amazzoni, cuori virili.

E il sire macchinò, quand’ei fu tornato, una frode.

Scelti dall’ampia Licia quanti eran più prodi guerrieri,

contro un’insidia gli tese; né a casa tornarono quelli:

tutti li sterminò l’invincibile Bellerofonte.

190 Or, quando il sire conobbe ch’egli era pro’ stirpe di Numi,

presso di sé lo tenne, gli die’ per consorte la figlia,

gli diede la metà di tutti gli onori regali:

e gli assegnarono i Lici di campi una fertile stesa,

bella di vigne e maggesi, ché quivi egli avesse dimora.

195 E generò tre figli la sposa a Bellerofonte:

Laödamia, con Isandro e Ippòloco. Il saggio Cronìde

giacque con Laödamia, che a luce Sarpèdone diede,

divino eroe, dall’armi di bronzo. Ma Bellerofonte

cadde nell’odio anch’egli di tutti i beati Celesti.

200 Onde a vagare prese soletto pei campi d’Alèo,

e si rodeva il cuore, schivava degli uomini l’orme.

Ed al figliuolo Isandro, quando egli coi Sòlimi prodi

pugnava, Ares die’ morte, il Dio non mai sazio di guerre:

Artèmide, la dea briglia d’oro, gli spense la figlia:

205 Ippòloco a me diede la vita, io di quello son figlio,

ch’or m’inviava a Troia, porgendomi molti consigli:

ch’io primeggiassi sempre, che sempre fra gli altri emergessi,

né svergognassi la stirpe dei padri, che in Èfira sempre,

e della Licia nell’ampie contrade eran primi tra i primi.

210 È questo il sangue ond’io mi onoro, questa è la progenie».

Disse; e nel cuor s’allegrò Dïomede possente guerriero,

e conficcò ne le zolle del suolo ferace la lancia,

e con melliflui detti si volse al pastore di genti:

«Ospite dunque antico per parte di padre a me sei.

215 Sappi che accolse Enèo magnanimo sotto il suo tetto,

per venti giorni, Bellerofonte, l’eroe senza pecca.

Fecero poi, l’uno e l’altro, ricambio di doni ospitali.

Enèo diede una fascia di porpora bella, fulgente,

Bellerofonte una coppa di gemina faüce, d’oro,

220 ch’io custodita in casa lasciai quando venni alla guerra.

Non mi ricordo Tidèo: ché quando ero piccolo tanto,

ei mi lasciò; ché quel sire d’Achivi spirò sotto Tebe.

Ospite dunque io sono per te, se tu in Argo venissi,

tu ne la Licia a me, se tra il popolo io giungo dei Lici.

225 Anche per ciò nella pugna le lancie evitiam l’un dell’altro.

Molti a me restano sempre Troiani e valenti alleati

da sterminare, se un Dio me li offre, se al corso li aggiungo:

restano molti Achivi per te, se ad ucciderli vali.

Su via, dunque, tu ed io scambiamoci l’arme: ché tutti

230 veggano quale ci stringe dagli avi legame ospitale».

Dette queste parole, balzati dai cocchi giù a terra,

strinser la mano l’uno dell’altro, scambiaron la fede.

Ed il Cronìde Giove del senno qui Glauco fe’ privo,

che col figliuol di Tidèo scambiò l’armi sue: queste d’oro,

235 quelle di bronzo; e die’ cento giovenchi per nove giovenchi.


Omero, Iliade, libro VI, vv. 118-235, trad. di E. Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1924

 >> pagina 125 

A tu per tu con il testo

La guerra disabitua all’umanità, ma talvolta sa regalare scene come questa, in cui due guerrieri, il greco Diomede, tra i più valorosi a Troia, e il licio Glauco, schierato con i Troiani, scoprono che le rispettive famiglie sono legate da antichi rapporti di ospitalità. Incontrare volti noti in luoghi impensati o scoprire legami di antica parentela o amicizia con persone da cui ci dividono circostanze sfavorevoli (competizione lavorativa, liti ecc.) è motivo di una piacevole sorpresa, oggi come sul campo di battaglia dell’Iliade. La ritualità e la dignità con cui Diomede e Glauco ricordano le rispettive vicende familiari sono un bell’esempio di cultura, educazione e civiltà in mezzo alla violenza degli scontri. Neanche la guerra di Troia, infatti, potrà spingerli a combattere: la storia individuale e familiare, per una volta, ha la meglio sulla Storia con la “s” maiuscola, quella che ignora le persone nella loro dimensione privata e obbedisce agli interessi superiori delle forze politiche, militari ed economiche.

Rispetto all’assurdità della guerra e alla precarietà della vita umana, Omero indica così nella memoria (degli antenati, delle loro gesta e delle nostre) l’unica risorsa per conservare gli affetti, e con essi un significato al nostro essere uomini.

 >> pagina 126

Analisi

A rendere possibile l’intera scena di riconoscimento, una delle più belle pagine dell’Iliade, tra il licio Glauco, che combatte con i Troiani, e il greco Diomede, è una domanda, quella rivolta dall’eroe greco all’avversario prima di misurarsi nello scontro: Da quale umana stirpe provieni tu mai, valoroso (v. 122). Non si tratta di una domanda retorica: Diomede vuole anzitutto capire se ha davanti a sé un dio (dubbio più che legittimo, visti i precedenti mitici, riferiti ai vv. 127-140) e, se di uomo si tratta, conoscere chi sia così coraggioso da sfidarlo (vv. 141-142).

Il lungo discorso di Glauco (vv. 144-210) risponde alla domanda di Diomede con una rievocazione di memorie familiari: da Eolo nacque Sìsifo, da Sìsifo Glauco, da questi Bellerofonte, che generò Ippòloco, padre di Glauco. Nella successione delle generazioni c’è l’orgoglio di un’intera stirpe e dell’uomo che se ne sente parte (È questo il sangue ond’io mi onoro, questa è la progenie, v. 210), come dimostra la trasmissione dei nomi di persona.

Gli antichi Greci erano maestri delle genealogie, perché esse corrispondevano alla loro storia più vera, alla memoria degli antenati, umani e divini, in un’epoca in cui la dimensione della famiglia era centrale nella vita dell’uomo. Così per Glauco l’eroe familiare è il nonno Bellerofonte, cacciato dalla patria Argo a causa degli intrighi della moglie di Preto, Antea, e costretto all’esilio in Licia e a una serie di prove (la Chimera, le Amazzoni, i Solimi).

Il lungo e dettagliato racconto, tuttavia, non è fine a se stesso. Omero sembra quasi insegnarci che le parole, sentite e appassionate, al servizio della memoria, come quelle di Glauco, riservano sorprese inaspettate: ascoltando l’avversario, Diomede ricorda i racconti del nonno Eneo, che aveva ospitato a casa sua Bellerofonte (vv. 214-216) e rinsalda il vincolo dell’ospitalità (Ospite dunque io sono per te, se tu in Argo venissi, / tu ne la Licia a me, se tra il popolo io giungo dei Lici, vv. 223-224). Lo scambio delle armi suggella il rinnovo di un rapporto che oggi potremmo definire di amicizia.

Omero riferisce che Bellerofonte, ormai celebre per le sue gesta, si mise un giorno a vagare soletto pei campi d’Alèo, / e si rodeva il cuore, schivava degli uomini l’orme (vv. 200-201). Questi versi sono stati spesso individuati come prima testimonianza di quel malessere psicologico che siamo soliti chiamare depressione. Bellerofonte, per motivi non chiari, non riesce a trovare pace in se stesso, vaga senza meta, rifiuta il contatto con gli altri uomini e si chiude in solitudine. In realtà una ragione c’è, ci spiega il critico svizzero Jean Starobinski. «Gli dèi, nel loro complesso, si compiacciono di perseguitare Bellerofonte; l’eroe, che ha saputo resistere valorosamente alle persecuzioni degli uomini, è impotente di fronte alla loro collera. E chi è perseguitato dall’ostilità universale degli immortali non trae più alcun piacere dai rapporti con gli uomini. È questo il punto su cui occorre soffermarsi: nel mondo omerico, la comunicazione dell’uomo con i suoi simili, la stessa rettitudine del suo cammino, sembrano dipendere da una garanzia divina. Quando nessun dio è disposto a concedere tale favore, l’uomo è condannato alla solitudine, al dolore “divorante”, alle corse senza meta in preda all’ansia. La depressione di Bellerofonte è solo l’aspetto psicologico di questo allontanamento delle potenze superne. Una volta abbandonato dagli dèi, gli vengono a mancare le risorse e il coraggio necessari per continuare a vivere tra i suoi simili».

Il brano proposto, riportato nella traduzione di Ettore Romagnoli (1871-1938), è famoso soprattutto per la similitudine con cui il licio Glauco accosta le generazioni umane a quelle delle foglie che cadono dai rami degli alberi avvicendandosi secondo i ritmi delle stagioni (vv. 145-148). Si tratta di una delle similitudini più celebri della letteratura greca, che è stata ripresa con variazioni da Virgilio, Dante e molti altri poeti, tra cui Giuseppe Ungaretti nella lirica Soldati («Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie»).

Il successo di questa similitudine – e della similitudine in generale, come figura retorica, nell’Iliade – non è casuale. In quanto relativa alla sfera del significato, essa è particolarmente utile alla rappresentazione epica del mondo nell’età di Omero. Dimostra, infatti, l’attenzione dei Greci ai dettagli del mondo naturale che li circondava, un mondo pieno di misteri che non riuscivano a spiegare razionalmente.

L’universo di forme ed eventi della natura (in greco physis) offriva un repertorio ricchissimo di immagini utili a comprendere concetti o situazioni del mondo umano: la caduta e la rinascita stagionale delle foglie, per esempio, eterno mistero della morte e della rigenerazione della vita vegetale, non poteva non ispirare un collegamento con la successione delle generazioni umane e con la caducità della vita. L’esistenza umana, infatti, è precaria e vana è ogni ambizione di gloria e di onore, perché destinata prima o poi a consumarsi e a dissolversi nel nulla. Come gli alberi, appunto, gli stessi uomini sono effimeri: un aggettivo, questo, non a caso di origine greca, che significa “di un solo giorno”.

 >> pagina 127

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Perché Diomede chiede a Glauco le sue origini familiari? Di che cosa ha paura?


2. Ricostruisci la genealogia di Glauco.


3. Perché Bellerofonte viene cacciato da Argo? Dove è costretto a recarsi? A quali prove è sottoposto?


4. Perché Diomede non vuole più combattere con l’eroe licio?

  • a Per paura di Glauco.
  • b Perché l’avversario è un dio.
  • c Perché preferisce scambiare le proprie armi di bronzo con quelle d’oro dell’avversario.
  • d Perché ha scoperto antichi vincoli di ospitalità con il nemico.


5. A quale generazione risale l’ospitalità tra le famiglie di Diomede e Glauco?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

6. Come viene rappresentato il dio Dioniso nella vicenda raccontata da Diomede? Quale tratto umano si può ravvisare nel comportamento del dio?

  • a Paura.
  • b Forza.
  • c Durezza.
  • d Coraggio.


7. Con quali epiteti è caratterizzato Bellerofonte? Quali sono le virtù che lo rendono un eroe?


8. Indica i patronimici presenti nel brano.


9. Alla fine del brano c’è una considerazione piuttosto inaspettata del poeta sullo scambio delle armi tra i due eroi: quale?

COMPETENZE LINGUISTICHE

10. Coordinazione e subordinazione. Al v. 126 si legge: ché la mia furia affronta soltanto chi nacque a sciagura. Quale valore ha ché?

  • a Pronome relativo.
  • b Congiunzione causale.
  • c Congiunzione dichiarativa.
  • d Pronome indefinito.


11. Il linguaggio figurato. Al v. 193 si legge: gli assegnarono i Lici di campi una fertile stesa. Quale sarebbe l’ordine naturale degli elementi della frase? Di che figura retorica si tratta?

  • a Climax.
  • b Anastrofe.
  • c Apocope.
  • d Metafora.


12. Storia della lingua. Il traduttore, Ettore Romagnoli, usa la parola cocchio per indicare i carri su cui gli eroi omerici si muovevano sul campo di battaglia. La parola è un prestito adattato dall’ungherese kocsi (“della località di Kocs”), dal nome di un piccolo centro dove nel XV secolo furono costruiti i primi esemplari di carrozza con un cassone sospeso su supporti metallici per gli occupanti. Il termine inglese coach (“carrozza”, “vagone”) ha la stessa etimologia. Questo fenomeno si chiama prestito lessicale. L’italiano ha esportato molte parole all’estero (italianismi), soprattutto nel campo delle arti, della musica, della finanza e della gastronomia.

Con l’aiuto dell’insegnante e di una ricerca in internet, raccogli alcuni esempi di prestiti lessicali in italiano e di italianismi presenti in altre lingue.


13. Lessico. Al v. 164 si legge: se ben mi schermivo. Che cosa vuol dire il verbo “schermire”? Con l’aiuto del vocabolario trova le differenze di significato tra “schermire” e “schernire”.

 >> pagina 128 

PRODURRE

14. Scrivere per raccontarE La riscoperta di legami di parentela o di amicizia con qualcuno è sempre un motivo di sorpresa e di gioia, soprattutto quando avviene in contesti ostili: apprendere che l’avversario è legato a noi o è un amico che non vediamo da molto tempo ci porta a riconsiderare i conflitti da un’altra prospettiva e a soppesare meglio le nostre azioni. Ti è mai capitata una situazione del genere? Che sensazioni hai provato? Scrivi un breve testo (massimo 20 righe).

MITO E CIVILTÀ

L’ospitalità

Nell’antichità non esistevano alberghi, né si praticava il turismo come lo intendiamo oggi. Il viaggio era dettato da bisogni materiali o religiosi: l’emigrazione alla ricerca di terre più fertili, la fuga da nemici, una guerra, la visita a un tempio o a un oracolo per riceverne un responso. L’esigenza del pernottamento lontano da casa era soddisfatta in modo molto diverso da oggi: lo straniero giunto in una terra sconosciuta poteva essere un nemico agli occhi degli abitanti del posto, o un pirata, di cui erano pieni i mari nell’antichità.

Una volta appurata la buona intenzione del viaggiatore, profugo o pellegrino, era cura della comunità locale dimostrare la propria ospitalità.

In un mondo in cui la comunicazione da una sponda all’altra dell’Egeo era possibile solo con la navigazione e le notizie circolavano da un paese all’altro con grande difficoltà, l’arrivo di uno straniero suscitava curiosità, significava la possibilità di racconti e descrizioni di terre lontane. L’ospitalità, inoltre, corrispondeva al bisogno di aiuto reciproco in un mondo assai poco sicuro: l’ospite, infatti, era sacro ed era protetto da Zeus.

Luciano Canfora (n. 1942), uno tra i maggiori studiosi italiani di antichità classica, ha recentemente richiamato l’episodio di Glauco e Diomede per valorizzare «l’idea greca – e già omerica – dell’ospitalità» in un’epoca come la nostra, segnata da migrazioni di massa. «Non paia singolare questa formulazione, giacché Omero racconta non uno ma due mondi, quello greco (gli Achei) e quello della Troade (che i Greci intendono conquistare e saccheggiare): ebbene, su entrambi egli proietta le stesse usanze, la stessa sacralità dell’ospite, dello straniero. Glauco (licio alleato dei Troiani) e Diomede (greco) si scambiano le armi perché i loro antenati erano stati in rapporto di ospitalità» (Il libro dell’anno 2016, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2016).

La dolce fiamma - volume C
La dolce fiamma - volume C
Epica