È Dante, nel De vulgari eloquentia, a denominare Scuola siciliana il movimento che nei primi tre quarti del XIII secolo dà origine a un’ampia produzione lirica in volgare (alcuni studiosi limitano cronologicamente il fenomeno al secondo quarto del Duecento).
Fulcro di tale esperienza letteraria è la corte di Federico II di Svevia (1194-1250), re di Sicilia e poi imperatore. Grande mecenate, Federico fonda la Magna Curia, un ambiente culturale elegante e laico (contrapposto alla Chiesa) che con il suo multiculturalismo e multilinguismo s’impone come il più brillante centro cortese dell’Europa del tempo.
Protagonista è la poesia, espressione di un’élite, che s’ispira ai modelli provenzali ma è scritta in volgare siciliano: da lingua d’uso, il volgare diventa così una lingua letteraria.
I poeti della Scuola siciliana non sono artisti di professione ma funzionari, notai, giudici o magistrati: per loro l’attività poetica è uno svago intellettuale, che tratta d’amore (e non di politica) e si concentra sulla musicalità della parola.