1. Una scuola poetica alla corte di Federico II

1. Una scuola poetica alla corte di Federico II

La denominazione di Scuola siciliana, che possiamo far risalire a Dante, indica un movimento letterario che sorge attorno al 1230 e dà luogo a una vasta produzione lirica in volgare. Tale esperienza ha come centro la corte di Federico II, re di Sicilia, e dei suoi figli, tra cui spicca in modo particolare Manfredi. Alcuni studiosi attribui­scono al fenomeno della Scuola siciliana un’estensione cronologica ristretta, limitandola al secondo quarto del XIII secolo e ritenendola terminata già nel 1250, data della morte di Federico II, almeno nei suoi aspetti più significativi. Altri invece fissano nel 1266 la fine di quest'esperienza culturale, quando con la morte di Manfredi viene meno il potere della casata di Svevia.

Federico II di Svevia (1194-1250), figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla, è prima re di Sicilia sotto la reggenza della madre (1196), poi re di Germania (1212) e infine imperatore (1220). Detto Stupor mundi (“Meraviglia del mondo”) per il suo immenso potere e per lo splendore della sua corte, due volte scomunicato per contrasti politici con il papa, poliglotta, grande mecenate, fondatore della prima università statale d’Europa (Napoli, 1224), è autore del De arte venandi cum avibus (La tecnica della caccia con gli uccelli), trattato di falconeria in latino, e di sei componimenti poetici, a lui attribuiti pur tra qualche incertezza.

Dopo la nomina a imperatore, Federico crea un ambiente culturale laico e raffinato, che ha il suo punto di forza nello studio del latino (lingua delle cancellerie e degli affari internazionali) e delle scienze naturali. La Magna Curia (cioè la “grande corte”) di Federico II si configura così come il più vivace centro cortese e statale europeo, grazie al multiculturalismo e al multilinguismo.

Nella formazione e nella vita dell’imperatore e della sua corte la poesia riveste un ruolo di prim’ordine; essa è l’espressione di un’élite che ama esibire il proprio prestigio. Federico conosce il tedesco, il francese, il latino, l’arabo, il greco e il volgare siciliano, lingua quest'ultima che usa per dar vita a una produzione poetica ispirata ai modelli provenzali. Questo fatto è di capitale importanza, perché segna la nascita di una poesia d’arte in volgare italiano.
Dei Siciliani ci sono giunti circa 150 componimenti, di cui una trentina anonimi, mentre i restanti sono suddivisi tra 25 autori, quasi tutti impiegati o funzionari della corte imperiale. Tra questi, Giacomo da Lentini – “protonotaro di corte”, cioè segretario dell’amministrazione imperiale –, considerato una sorta di caposcuola (come tale è già riconosciuto da Dante al v. 56 del canto XXIV del Purgatorio, in cui lo chiama, per antonomasia, «’l Notaro»); Stefano Protonotaro da Messina, di cui ci rimane l’unico componimento tramandato nella lingua originale (mentre tutti gli altri, come si vedrà, ci sono giunti in una veste linguistica toscanizzata); Pier delle Vigne, segretario di Federico II (immortalato da Dante nel canto XIII dell’Inferno, dove è collocato tra i suicidi); Cielo d’Alcamo, autore di un celebre contrasto, esempio di poesia comica colta e aristocratica; e infine lo stesso Federico II.
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Questi poeti sono prima di tutto funzionari, notai, giudici o magistrati e per loro l’attività poetica rappresenta uno svago, un’evasione dalla realtà. A differenza dei trovatori, non sono poeti professionisti, e la diversa situazione politico-sociale in cui si trovano a operare ha importanti ricadute tematiche e stilistiche sulla loro produzione. Per esempio, dei due temi principali propri della lirica in lingua d’oc (precedente di circa un secolo quella siciliana), l’amore e la politica, la produzione siciliana riprende soltanto il primo: la poesia si allontana dalla cronaca e si fa più astratta, più intellettuale (ciò non deve stupire: in un’epoca in cui la volontà del sovrano era assoluta non si discuteva di politica) e i topoi trobadorici, che comunque permangono, subiscono un processo di ulteriore stilizzazione. Inoltre, in Provenza spesso i testi erano accompagnati dalla musica, cioè venivano cantati più che recitati, mentre in Sicilia questo non avviene più: la musicalità si ricerca allora attraverso la parola.

2. I TEMI E LO STILE

Al centro dei componimenti c’è quasi sempre la figura femminile: non più domina in senso feudale, ma “signora” del poeta in una dimensione interiore. La donna è però assente nella sua reale individualità, e nella Scuola siciliana si inaugura quella “poetica dell’assenza” (propria cioè di una poesia riguardante donne sostanzialmente irreali) che connoterà la lirica amorosa italiana per tutto il secolo.

Il fulcro lirico dei componimenti è spesso costituito da una meditazione sulla natura e sugli effetti dell’amore. Ciò comporta uno spostamento dell’attenzione verso l’interiorità del poeta e una tendenza ad analizzare l’esperienza amorosa in modo intellettualizzato, sotto la lente delle scienze naturali, con accostamenti al mondo animale e vegetale.

L’importanza storico-letteraria e, più in generale, culturale della Scuola siciliana risiede nel fatto che per la prima volta il volgare passa sistematicamente da lingua d’uso a lingua letteraria. I testi però non ci sono giunti nel “siciliano illustre” in cui furono scritti originariamente, bensì nelle versioni toscanizzate a opera dei copisti che ce li hanno tramandati; fa eccezione un solo testo, Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro, che possiamo leggere nella versione “originale”.

Il lessico è piuttosto fisso e limitato, si configura quasi come un vocabolario tecnico. La lingua subisce infatti un accurato processo di selezione: forme colte e ricercate, ricalcate sul latino e sul linguaggio dei trovatori, si fondono con il siciliano, depurato però degli elementi più popolari e incolti. Eleganza retorica, raffinatezza compositiva e una rigorosa selezione delle strutture metriche, condotta sull’esempio dei Provenzali, determinano un imprescindibile modello di riferimento per tutta la letteratura italiana successiva.

Tra le forme metriche più frequentate dai Siciliani troviamo la canzone (è la forma più nobile, composta di endecasillabi e settenari), la canzonetta (composta di settenari, doppi settenari, ma anche ottonari e novenari), che è dotata di un ritmo più semplice, è adatta a temi più leggeri e spesso ha una struttura dialogica e narrativa, e il sonetto, la forma italiana per eccellenza, la cui invenzione è tradizionalmente attribuita a Giacomo da Lentini.

L'AUTORE

Giacomo da Lentini

La vita

Funzionario di corte (“notaio”) dell’imperatore Federico II fra il 1233 e il 1240, morto prima del 1250, è forse il più antico fra i poeti della Scuola siciliana, dei quali fu considerato il maggiore dai contemporanei. Della sua vita si sa assai poco; il suo nome figura in alcuni atti (che risalgono al 1233) da lui scritti per conto dell’imperatore.

Le opere

È autore di un canzoniere composto da una quarantina di testi: 16 canzoni, 1 discordo (tipo di componimento dalla struttura irregolare a causa della varietà delle strofe), 19 sonetti, più altri 3 che fanno parte di 2 tenzoni e 3 attribuiti. Ammirato e imitato dai poe­ti coevi e da quelli successivi, Giacomo è il poeta più antico di cui si conoscano sonetti (e forse, come si è detto, è stato proprio lui l’inventore di questa forma metrica).

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Poesia e teatro - Letteratura delle origini