T3 - Iacopone da Todi, O Signor, per cortesia

T3

Iacopone da Todi

O Signor, per cortesia

  • Metro Ballata con ripresa di 2 ottonari (xx) e 18 quartine di versi per lo più ottonari, ma anche novenari e decasillabi (aaax)

Iacopone augura a se stesso le più terribili malattie: nella sofferenza fisica e nel disprezzo di cui sarebbe fatto oggetto intravede infatti una possibilità, seppure remota e inadeguata, di espiare i propri peccati.

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Audiolettura

O Signor, per cortesia,

manname la malsanìa!


A mme la freve quartana,

la contina e la terzana,

5      la doppla cotidiana

co la granne ydropesia.


A mme venga mal de dente,

mal de capo e mal de ventre;

a lo stomaco dolur’ pognenti

10    e ’n canna la squinanzia.


Mal dell’occhi e doglia de flanco

e la postema al canto manco;

tiseco me ionga enn alto

e d’onne tempo fernosìa.


15    Aia ’l fecato rescaldato,

la melza grossa e ’l ventr’enflato

e llo polmone sia ’mplagato

cun gran tòssa e parlasia.

A mme venga le fistelle

20    con migliaia de carvuncilli,

e li granci se sian quelli

che tutto replen ne sia.


A mme venga la podraga

(mal de cóglia sì me agrava),

25    la bisinteria sia plaga

e le morroite a mme sse dìa.


A mme venga ’l mal de l’asmo,

iongasecce quel del pasmo;

como a can me venga el rasmo,

30    entro ’n vocca la grancia.


A mme lo morbo caduco

de cadere enn acqua e ’n foco

e ià mai non trovi loco,

che eo afflitto non ce sia.


35    A mme venga cechetate,

mutezza e sordetate,

la miseria e povertate

e d’onne tempo entrapparìa.


Tanto sia ’l fetor fetente

40    che non sia null’om vivente,

che non fuga da me dolente,

posto en tanta enfermaria.


En terrebele fossato,

che Riguerci è nomenato,

45    loco sia abandonato

da onne bona compagnia.


Gelo, grando e tempestate,

fulgure, troni e oscuritate;

e non sia nulla aversitate,

50    che me non aia en sua bailìa.

Le demonia enfernali

sì mme sian dati a menestrali,

che m’essèrcino en li mali,

ch’e’ ho guadagnati a mea follia.


55    Enfin del mondo a la finita

sì mme duri questa vita

e poi, a la scivirita,

dura morte me sse dìa.


Allegom’en sseppultura

60    un ventr’i lupo en voratura

e l’arliquie en cacatura

en espineta e rogarìa.


Li miracul’ po’ la morte,

chi cce vene aia le scorte

65    e le deversazioni forte

con terrebel fantasia.


Onn’om che m’ode mentovare

sì sse deia stupefare

e co la croce sé segnare,

70    che reo escuntro no i sia en via.


Signor meo, non n’è vendetta

tutta la pena ch’e’ aio ditta,

ché me creasti en tua diletta

et eo t’ho morto a  villania.

 >> pagina 658 

A tu per tu con il testo

Quali sentimenti può regalarci oggi una preghiera a Dio nella quale non si chiede di essere preservati dai mali, ma al contrario di diventare l’oggetto di un raccapricciante cumulo di sciagure? Per Iacopone neppure il cammino del martirio, con il quale il devoto tenta di imitare Cristo, promette il glorioso riscatto della salvezza ultraterrena: invocare le malattie e una morte ripugnante significa accettare di entrare nella sfera degradante del dolore e farlo con una sorta di folle, sconvolgente masochismo. Dinanzi a una tale espressione di macabro disprezzo di sé (del proprio corpo, della propria vita, del proprio mondo) non possiamo che provare sgomento e, da lettori di oggi, incomprensione. Proprio per questo è necessario contestualizzare e comprendere l’origine emotiva e ideologica di un così violento rifiuto della dimensione terrena. Iacopone vive infatti in un’epoca che pare aprirsi alle tentazioni mondane del successo e del profitto e che assiste al ridimensionamento del messaggio di povertà lanciato da Francesco: il furore autopunitivo che cogliamo in questi versi non è che una tragica reazione dinanzi all’impossibilità di un dialogo felice e armonioso con il mondo.

 >> pagina 659

Analisi

Il componimento, dai toni accesi ed esasperati, esprime un fortissimo desiderio di sofferenza. Iacopone vuole soffrire perché sente di essere un grande peccatore. E il peccato va espiato, anche attraverso il supplizio fisico e morale. È questa una concezione della vita etica e spirituale assai lontana dalla luminosa fiducia di Francesco d’Assisi verso un Dio buono e misericordioso, pronto ad accogliere il peccatore pentito. In Iacopone c’è un sostanziale rifiuto del corpo, che viene considerato come ostacolo alla salvezza dell’anima e che dunque va combattuto e mortificato nei modi più crudeli.
Dopo essersi augurato i peggiori malanni fisici, dal v. 39 in poi Iacopone immagina di essere abbandonato da tutti, di essere visitato soltanto dai demòni dell’inferno, e giunge persino a immaginare la propria morte, in termini quasi surreali: il suo corpo verrà divorato da un lupo, che lo trasformerà in escrementi deposti tra spini e rovi. Con pesante sarcasmo verso se stesso, l’autore afferma che le sue reliquie saranno proprio tali escrementi. Il sarcasmo si coglie al v. 61 nell’uso della parola arliquie (“reliquie”), tradizionalmente utilizzata a proposito di parti del corpo dei santi venerate dai fedeli: Iacopone, poiché si reputa un peccatore imperdonabile, crede di meritare un trattamento decisamente molto meno onorevole. Allo stesso modo, dopo la morte egli non compirà miracoli come fanno i santi, ma produrrà in chi si dovesse avvicinare al luogo della sua, diciamo così, “sepoltura” effetti di allucinazione e vessazione diabolica.
Come si è detto, nel componimento di Iacopone è presente una notevole dose di esasperazione, che giunge ai limiti di una visione eterodossa, cioè lontana dal pensiero del cattolicesimo ufficiale. Per la Chiesa qualsiasi peccatore ha diritto al perdono di Dio, quando si sia pentito e abbia confessato i propri peccati. Iacopone, invece, è convinto che non ci sia per lui alcuna possibilità di espiazione (Signor meo, non n’è vendetta / tutta la pena ch’e’ aio ditta, vv. 71-72).
Va detto, tuttavia, che l’atteggiamento del poeta, per essere compreso, deve essere inserito all’interno di una dimensione di tipo mistico: l’autore cercherebbe cioè l’annientamento e l’annullamento di sé per avvicinarsi a Dio. Iacopone sviluppa il concetto di “disprezzo del mondo”, che dava il titolo a un’opera, all’epoca molto fortunata, scritta verso il 1190 dal futuro papa Innocenzo III (al secolo Lotario dei conti di Segni, pontefice dal 1198 al 1216), il De contemptu mundi. In quel testo – che possiamo immaginare Iacopone avesse letto e meditato – si sosteneva la necessità della mortificazione di sé per ottenere l’amore di Dio.
L’autore ha scelto dei vocaboli fortemente realistici (per esempio tutti i nomi delle malattie citate), connotando in tal modo il proprio testo in senso espressionistico. In letteratura si parla di espressionismo per indicare non solo il movimento artistico d’avanguardia del primo Novecento (questa è la primaria e più restrittiva accezione del termine), ma anche una tendenza, ricorrente nel corso del tempo, verso un’esasperazione formale volta a enfatizzare determinati contenuti: il vocabolo è stato utilizzato proprio in tal senso dal critico Gianfranco Contini. In questo testo di Iacopone possiamo allora parlare di espressionismo a proposito dell’enfasi posta su alcune parole molto concrete (come quelle che riguardano il corpo umano e le sue molteplici affezioni patologiche) con un effetto di tipo caricaturale, deformante e grottesco.
Quello di Iacopone è un realismo negativo, che insiste sugli aspetti più sgradevoli e abietti della corporeità – peraltro corrotta – e il registro adottato a tal fine dal poeta è di tipo basso e triviale. Tuttavia possiamo notare due termini, cortesia e villania (posti in posizione rilevata, al primo e all’ultimo verso), che si staccano dal registro linguistico del testo, in quanto tipici dell’orizzonte ideologico e letterario cortese. Ciò testimonia il carattere colto di questa poesia: Iacopone scrive per i propri confratelli (le sue laude erano originariamente tese all’edificazione spirituale dei novizi, cioè dei giovani che si accingevano ad abbracciare la vita religiosa), ma evidentemente non ignora la più raffinata produzione letteraria di tipo profano.
 >> pagina 660

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Iacopone invoca su di sé non solo ogni forma di malattia, ma anche altre disgrazie: quali?


2. Per quale motivo Iacopone reclama sofferenze e dolore? In quale punto della lauda si trova questa spiegazione?

ANALIZZARE

3. Individua i principali accorgimenti stilistici e retorici che permettono di definire questo testo “espressionista”.


4. Nella lauda sono presenti molte figure di suono: individuane ed esemplificane alcune.

INTERPRETARE

5. È possibile affermare che questa lauda è tutta attraversata da un desiderio di annientamento?


6. Da questa lauda e da Donna de Paradiso è possibile dedurre alcuni aspetti della religiosità dell’autore: esponili brevemente facendo riferimento anche al contesto culturale (massimo 15 righe).

Produrre

7. Scrivere per confrontare Confronta le diverse concezioni etiche e spirituali di san Francesco e di Iacopone da Todi che emergono dai testi letti (massimo 25 righe).

SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare

STORIA

Nel Medioevo la lebbra era considerata una punizione divina per i peccati commessi dagli uomini, e chi contraeva questa malattia era allontanato dalla comunità: fai una ricerca sulla condizione dei lebbrosi e, più in generale, degli emarginati in epoca medievale (puoi leggere il capitolo L’emarginato in L’uomo medievale, a cura di Jacques le Goff, Laterza).

La dolce fiamma - volume B plus
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Poesia e teatro - Letteratura delle origini