1. Dal latino alle lingue romanze

1. DAL LATINO ALLE LINGUE ROMANZE

Già nei primi due secoli dopo Cristo il latino parlato nei vari territori dell’Impero romano d’Occidente non era perfettamente omogeneo: su di esso agivano infatti, specie per quanto riguarda la pronuncia, le diverse caratteristiche delle lingue preesistenti dei popoli sottomessi, destinate a fungere da  sostrato allo stesso latino. Ciò tuttavia non comprometteva la possibilità che tutti i sudditi potessero comprendersi tra loro, anche quelli che vivevano nelle province più periferiche, poiché anche queste ultime erano controllate dal potere centrale di Roma.

Con la dissoluzione dell’Impero, però, le invasioni barbariche accentuano in modo irreversibile le differenze: viene meno non solo l’unità politica, ma anche quella linguistica. In molte realtà locali il latino scompare lasciando poche tracce, come in Inghilterra e in Germania, soppiantato dalle lingue germaniche dei popoli invasori. In altre, più profondamente romanizzate, il ceto politico e intellettuale che detta la norma linguistica promuove l’utilizzo di nuovi linguaggi, dialetti che si impongono successivamente come idiomi comuni regionali o nazionali: si tratta delle lingue romanze, formatesi dal tronco latino, per poi differenziarsi assumendo caratteri propri, sempre più lontani dalla comune origine classica.

Tra i diversi territori un tempo soggetti all’autorità romana, dunque, si assiste a un processo di differenziazione linguistica sempre più netta. Non solo: all’interno delle singole popolazioni ha luogo un’ulteriore diversificazione tra la lingua scritta e quella parlata. La prima, appannaggio dei soli uomini colti, ecclesiastici per lo più, rimane a lungo nel solco del latino: certo, il lessico e molte peculiarità formali divergono ormai dai modelli di Virgilio o di Cicerone, si perdono le desinenze dei casi e si affermano diversi neologismi cristiani; tuttavia essa viene comunque recepita come una medesima lingua, immutabile e fissa nelle sue regole (il cosiddetto mediolatino o latino medievale). La lingua parlata è invece in continua evoluzione, modificata dall’uso quotidiano, e si allontana sempre più dalle radici per prendere forme singolari e autonome.

Il riconoscimento della dignità delle diverse lingue romanze è lento e varia da regione a regione. Abbiamo già rilevato come la necessità dell’uso scritto dei volgari si manifesti dapprima nell’ambito politico di cerimonie e giuramenti ufficiali, e poi nella prassi burocratica di atti, testamenti, libri contabili ecc. L’impiego del volgare nella scrittura si estende però anche a testi non finalizzati a una funzione pratica, ma dotati di una veste letteraria, prodotti di un’elaborazione artistica.

Le prime manifestazioni letterarie delle lingue romanze avvengono in momenti diversi. Ciò dipende innanzitutto dal rapporto tra il latino e gli idiomi nazionali: non è un caso che le prime letterature in ordine di nascita siano quelle in cui la distinzione e l’emancipazione del volgare dal latino avvengono più precocemente.

In Inghilterra, intorno alla metà dell’VIII secolo, viene composto un poema epico di più di 3000 versi dal titolo Beowulf: vi si narrano le gesta dell’eroe omonimo alle prese con il mostro Grendel, la sua crudelissima madre e un drago. Alla fine dell’VIII secolo o al principio del IX risale invece il più antico documento dell’epica nazionale tedesca, l’Hildebrandslied (Canto di Ildebrando): nei suoi 68 versi allitterati si canta la leggenda ostrogotica del duello tra un padre e un figlio, nel quale entrano in conflitto il sentimento della fedeltà familiare e quello dell’onore cavalleresco.

Nel resto d’Europa, dove il rapporto fra latino e lingue nazionali è più stretto, la letteratura volgare prende le mosse più tardi: nell’area delle parlate romanze, tuttavia, a partire dalla fine dell’XI secolo si sviluppano forme artistiche destinate a incidere profondamente sull’immaginario letterario dei secoli successivi. Tale fioritura avviene nell’ambito delle corti francesi, dove accanto al genere letterario epico si impongono, grazie all’attività di poeti detti  trovatori e trovieri, i generi letterari del romanzo e della lirica, i quali adattano motivi e forme originali alle esigenze e ai valori di un pubblico raffinato, che sa decifrarne e apprezzarne il messaggio.

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2. LA PRODUZIONE IN LINGUA D’OÏL

A partire dalla fine dell’XI secolo si sviluppa nella Francia del Nord una vasta produzione letteraria in volgare, la lingua d’oïl, così denominata dal modo di dire “sì” in francese antico. Per chiarezza di esposizione, si è soliti distinguere tali opere in una materia di Francia e in una materia di Bretagna: alla prima attengono le cosiddette chansons de geste (canzoni di gesta), in cui vengono cantate le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini, impegnati nella strenua difesa della cristianità e dell’Occidente contro la minaccia saracena; alla seconda appartengono invece le prose e i versi che celebrano le leggende dei cavalieri di re Artù e della Tavola Rotonda. Da tali materie si sviluppano due cicli specifici, ciascuno con temi e caratteri propri: il ciclo carolingio, animato dall'esaltazione dell’eroismo, della dedizione alla fede e della devozione per l’imperatore, e il ciclo bretone, fondato sull’amore e sull’avventura.

Il ciclo carolingio

Le canzoni di gesta sono componimenti in origine cantati (e per questo detti chansons) che raccontano imprese belliche ed eroiche (gesta, appunto) del passato, aggiornate e rie­laborate soprattutto grazie alla cultura orale delle popolazioni romanze. In alcuni casi, l’argomento trae spunto da storie classiche, aventi per protagonisti gli antichi eroi greci e romani. Tuttavia il filone più ricco e importante è costituito dalla narrazione delle azioni dei cavalieri di Carlo Magno, i quali diventano la personificazione degli ideali e dei valori di forza, nobiltà e fede esaltati nel Medioevo.

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Chanson de Roland

Tra tutti, il testo in assoluto più famoso è la Chanson de Roland, la cui composizione anonima risale a un periodo compreso tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo; si tratta di un lungo poema di 4002 decasillabi raggruppati in lasse (o strofe) di varia misura e prive di un vero e proprio sistema di rime, ma spesso ricche di assonanze.

Il poema narra un episodio della guerra di Carlo Magno contro i saraceni, i quali fanno strage della retroguardia dell’esercito franco nella battaglia di Roncisvalle (778). L’episodio è storicamente veritiero, ma viene proiettato in una dimensione fantastica, circondata da un’aura miracolosa. Nella realtà dei fatti, i responsabili dell’attacco furono i baschi, popolazione cristiana delle Asturie (nella Spagna settentrionale), mentre nel testo si descrive un’imboscata tesa dai musulmani, favoriti dal tradimento di un guerriero cristiano, Gano di Maganza.

Non è difficile immaginare quanto la vicenda narrata, in fondo piuttosto remota (più di trecento anni separano l’avvenimento dalla sua trasposizione letteraria), intercettasse l’interesse dell’uditorio, determinandone la partecipazione emotiva: lo spirito cavalleresco che in essa è esaltato ben si accorda con quello che anima sia le crociate sia la cosiddetta Reconquista cristiana dei territori in mano ai saraceni nella penisola iberica. Il pubblico, che affollava le piazze in cui le imprese degli eroi carolingi venivano cantate e rappresentate, si trovava coinvolto dunque non solo dal piacere del racconto, ma anche dalla sua attualità.

Su questa materia, tramandata per via orale (secondo una modalità di trasmissione tipica dell’epica, anche quella classica: si pensi alla tradizione omerica), agiscono il lavoro e l’immaginazione artistica: l’autore del poema sarebbe stato un ignoto poeta, Turoldo, omaggiato secondo un rito convenzionale dai trovieri e dai giullari successivi, che ne avrebbero diffuso l’opera attraverso le corti di Francia e poi nel resto d’Europa.

Dopo sette anni di guerra contro Marsilio, re pagano di Spagna, Carlo Magno lascia l’assedio della città di Saragozza al più valoroso tra i suoi cavalieri, Orlando. Un paladino cristiano, Gano di Maganza, accecato dalla gelosia per Orlando, si accorda con il re nemico, che finge di convertirsi e rinunciare alla guerra. In realtà, mentre il grosso dell’esercito di Carlo si ritira, la retroguardia, capeggiata da Orlando, viene attaccata da migliaia di saraceni. Il paladino, assalito dal numero soverchiante dei nemici, si rifiuta tuttavia di suonare l’ olifante e invocare il soccorso del sovrano, come gli suggerisce di fare il compagno Oliviero: glielo impedisce il senso dell’onore. Solo alla fine, quando il campo è disseminato di morti e lui stesso sta per soccombere, si piega a suonare il corno per avvisare il re dell’accaduto. Dopo che gli angeli hanno portato in cielo l’anima del valoroso eroe, sopraggiunge Carlo, che sconfigge i saraceni, occupa Saragozza e si vendica del tradimento di Gano, facendolo squartare da quattro cavalli.
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Attraverso l’esaltazione di Orlando, guerriero esemplare e al tempo stesso personificazione del martire cristiano, la Chanson de Roland sintetizza e fonde dunque i valori terreni, vale a dire quelli politici e guerreschi, con quelli spirituali. Da un lato troviamo l’esaltazione dell’eroismo, l’amore per la terra natia (la «dolce Francia»), la fedeltà a Carlo Magno e al vincolo feudale; dall’altro aleggia in tutta la narrazione uno spirito agiografico, simile a quello che si coglie nelle vite dei santi. La devozione a Dio è il cardine di una concezione sacra dell’esistenza: la morte dell’eroe che gli conferisce una dimensione sovrumana e premia il soldato della cristianità con la salvezza eterna e il Paradiso.
Il messaggio epico e religioso non fatica a raggiungere il pubblico popolare a cui il testo è indirizzato. Come esige il carattere didascalico della Chanson, la narrazione è elementare, il linguaggio efficacemente semplice, la sintassi lineare e paratattica, il ritmo lento e cadenzato, a volte monotono. Recitata a memoria dai giullari, diffusa oralmente come i poemi epici antichi, riprende da quelli gli stessi moduli espressivi: si ripetono espressioni formulari (modi di dire fissi, che si imprimono nella memoria), epiteti che qualificano i personaggi attraverso una loro caratteristica (per esempio, Carlo è il re «dalla barba bianca»), espressioni che legano le diverse strofe (le lasse) attraverso repliche di verbi o di formule stereotipate. Non manca nemmeno l’appello agli ascoltatori: l’autore ricorre all’imperativo «udite!» per sottolineare i passaggi nevralgici della narrazione.

Il linguaggio musicale

Le composizioni dei trovatori e dei trovieri erano quasi tutte monodiche, cioè a una sola voce. I codici hanno tramandato solo le melodie e non indicazioni su eventuali esecuzioni strumentali; tuttavia dalle fonti iconografiche del tempo, soprattutto miniature, sappiamo che i canti dei trovatori e dei trovieri erano spesso accompagnati da strumenti, come piccole arpe o vielles (strumenti ad arco). L’andamento delle melodie è oggi decifrabile abbastanza agevolmente, ma l’imprecisione della notazione del tempo riguardo alla ritmica rende molto problematico ogni tentativo moderno di interpretazione e di trascrizione. Tuttavia un dato sembra certo: se notevoli differenze separano la poesia provenzale da quella settentrionale, uno solo è il linguaggio musicale delle due scuole, alle cui radici sta probabilmente il movimento culturale irradiatosi nell’XI secolo dai monasteri benedettini.

La dolce fiamma - volume B plus
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Poesia e teatro - Letteratura delle origini