Doc 5 - Andrea Cappellano, I comandamenti dell’amore cortese (da De amore)

Doc 5

Andrea Cappellano

I comandamenti dell’amore cortese

  • Tratto da De amore (Sull'amore), 1185 ca
  • Lingua originale latino

L’autore

Il trattato in 3 libri De amore – considerato la summa sapienziale in latino sulla materia amorosa – viene tradotto in molte lingue europee e ispira i cantori d’amore del Medioevo; dunque è un’opera fondamentale che scalza l’autorità del modello fino a quel tempo giudicato insostituibile, cioè l’Ars amatoria del poeta latino Ovidio (43 a.C.-17 d.C.). Questo fortunato trattato ha un padre incerto: la maggioranza degli studiosi lo identifica con Andrea di Luyères, cappellano della contessa Maria di Champagne negli anni 1184-1186. Quel che è certo è che la sua opera, oltre al successo, conobbe ben presto anche il biasimo. Nel 1277 essa viene infatti solennemente condannata dal vescovo di Parigi per la sua licenziosità.

Fedeltà, obbedienza assoluta, intenso desiderio (anche carnale), turbamento e perfezionamento interiore: queste sono le principali conseguenze del sentimento nutrito dall’innamorato nei confronti della – irraggiungibile – donna amata. L’amore cortese presenta una precisa fenomenologia e requisiti fissi: qui ne troviamo alcuni, dettati sotto forma di precetto da Andrea Cappellano nel secondo libro del trattato.

I. Per ragioni di matrimonio non è giusto rinunciare all’amore.

II. Chi non è geloso, non può amare.

III. Nessuno può legarsi in doppio amore.


VIII. Nessuno senza motivo deve essere privato del suo amore.


IX. Nessuno può amare se non lo spinge amore.

X. L’amore è sempre bandito dalle dimore dell’avidità.
XII. Il vero amante non desidera di cuore altro amplesso se non col proprio amante.
XIII. L’amore divulgato raramente è destinato a durare.

XIV. Il facile possesso svilisce l’amore, il difficile lo fa prezioso.


XV. Ogni amante impallidisce sotto gli occhi dell’amante.


XVI. Alla vista improvvisa dell’amante trema il cuore dell’amante.

XVIII. Solo la gentilezza rende le creature degne d’amore.

XX. L’amoroso è sempre timoroso.


XXIII. Quando si sospetta dell’amante, nasce gelosia e desiderio d’amore.


XXV. Il vero amante crede che nulla è bello se non piace al suo amante.


XXX. Il vero amante è legato senza posa all’immagine dell’altro.

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PER APPROFONDIRE

Religiosi, giullari e cortigiani

Il chierico e il giullare

Fino all’anno Mille, la figura dell’intellettuale coincide con quella del­l’uomo di Chiesa: il chierico viene formato nelle diverse scuole ecclesiastiche, dove impara le Sacre Scritture e si abitua alla riflessione teologica. Il testo di riferimento, vale a dire la fonte principale della sua formazione, è naturalmente la Bibbia, studiata in traduzione latina, soprattutto quella di san Girolamo (347-420), detta Vulgata (cioè “diffusa, divulgata tra il popolo”). Il latino è infatti la lingua della cultura: non più il latino aureo usato da Cicerone, ma una lingua modificata nel lessico e nella sintassi.

Religiosi anch’essi, ma ai margini dell’istituzione ecclesiastica, sono i clerici vagantes, così chiamati in quanto non aggregati a una diocesi né destinati a una chiesa, e che pertanto vivono un’esistenza errabonda. Privi di mezzi e irrequieti nello spirito, si esprimono anch’essi in latino, ma per parodiare nei loro canti “goliardici” i valori ufficiali, rovesciando le leggi e i costumi dominanti. Per questo atteggiamento trasgressivo o addirittura ribelle, sono assimilabili ad altre figure intellettuali, per così dire, “irregolari”: i giullari. Il nome viene dal latino ioculares, cioè “buffoni”: si tratta di saltimbanchi, giocolieri, attori che hanno sostituito il teatro – decaduto dopo la fine dell’Impero romano – con la piazza, il mercato e la corte. È in questi luoghi che il giullare intrattiene e diverte il pubblico, recitando canzoni e poesie, ballando e cantando, spesso inviso alla Chiesa, che giudica le sue espressioni artistiche turpi e pericolose per le anime pure dei credenti.


L’intellettuale a corte

Nell’XI secolo assistiamo alla diffusione della scrittura anche in ambienti non appartenenti al clero, come le corti aristocratiche che si sviluppano prima in Francia e poi, nel Duecento, anche in Italia, più precisamente in Sicilia intorno alla figura dell’imperatore Federico II. Questo nuovo ceto intellettuale si esprime in volgare e si rivolge a un pubblico selezionato, desideroso di assistere alla promozione artistica di precisi modelli culturali ed etici (cavallereschi e cortesi). Per la prima volta nel Medioevo la letteratura diventa sinonimo di svago e intrattenimento, rituale mondano di una società elegante che ama divertirsi in banchetti e feste spensierate. Il letterato – che sia un funzionario, collaboratore del sovrano, o un chierico colto – sa cogliere le possibilità di fama e di guadagno che questa nuova realtà gli propone: protetto dal signore, ne asseconda i gusti e le aspettative, sperimentando nei confronti del potere una condizione cortigiana.


Il predicatore e il missionario

Nel Duecento i monasteri non hanno più il monopolio sul sapere. Tuttavia, alla figura tradizionale del chierico si affianca quella del frate, inserito all’interno degli ordini mendicanti: non più il monaco, concentrato nel severo studio dei classici, ma il predicatore (per lo più appartenente all’ordine dei domenicani) o il missionario (seguace del­l’esempio francescano), che scel­gono di calarsi nella realtà del proprio tempo per invocare, nelle piazze o nelle università, il ritorno alla povertà, smarrita da un clero corrotto, e il rispetto dell’ortodossia teologica, minacciata dal proliferare delle eresie.

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