Doc 2 - Sant’Agostino, I testi classici scrigno dei valori cristiani (da De doctrina christiana)

Doc 2

Sant’Agostino

I testi classici scrigno dei valori cristiani

  • Tratto da De doctrina christiana (La dottrina cristiana), 397-426
  • Lingua originale latino

L’autore

Nato a Tagaste in Numidia (Africa settentrionale) nel 354, Aurelio Agostino è uno dei grandi Dottori della Chiesa occidentale. Figlio di un decurione pagano e di una cristiana, Agostino trascorre una giovinezza dissipata in patria e in Italia, dove insegna retorica, prima a Roma, poi a Milano. Qui matura la crisi spirituale che lo porta ad abbracciare il cristianesimo e a ricevere il battesimo da sant’Ambrogio, nel 387. Successivamente torna in Africa, diventa sacerdote nel 391 e quattro anni dopo viene eletto vescovo di Ippona, dove muore nel 430, all’età di settantasei anni. Fra l’enorme mole di opere teologiche, mistiche, filosofiche e polemiche che fanno di Agostino uno dei pensatori più importanti della cultura occidentale, ricordiamo le Confessiones (Confessioni): uno scritto autobiografico, in cui il santo descrive la propria vita, con particolare attenzione alla conversione religiosa. L’opera da cui antologizziamo il brano seguente, il De doctrina christiana, iniziata nel 397 e conclusa nel 426, è un trattato didattico in 4 libri sul modo corretto di interpretare le Sacre Scritture.

La tradizione pagana deve essere ignorata o combattuta? Sant’Agostino rovescia l’opinione comune, secondo la quale il cristianesimo deve difendersi dagli “attacchi” portati dagli argomenti e dalla visione del mondo dei pagani. Al contrario, qui egli sostiene che dentro le opere classiche sono occultati precetti fondamentali per ogni cristiano. Si tratta di leggerle allegoricamente, estraendo cioè i valori ideologici e morali promossi direttamente da Dio.

Riguardo ai cosiddetti filosofi […] nell’ipotesi che abbiano detto cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve loro sottrarre come da possessori abusivi e adibirle all’uso nostro. Ci si deve comportare come gli Ebrei con gli Egiziani. Questi non solo veneravano gli dèi ed imponevano a Israele oneri gravosi che il popolo detestava fino a fuggirne, ma diedero loro vasi e gioielli d’oro e d’argento e anche delle vesti. Il popolo ebraico all’uscita dall’Egitto di nascosto se li rivendicò come propri, per farne – diciamo così – un uso migliore. Non fecero ciò di loro arbitrio ma per comando di Dio, e gli Egiziani a loro insaputa glieli prestarono:1 ed effettivamente erano cose delle quali essi non facevano buon uso! Lo stesso si deve dire di tutte le scienze dei pagani. Esse non racchiudono solo invenzioni simulate e superstiziose come pure gravi pesi che costringono a un lavoro superfluo, cose tutte che ciascuno di noi, uscendo dal mondo pagano al seguito di Cristo, deve detestare ed evitare. Contengono insieme a questo anche arti liberali,2 più consone con il servizio della verità, e alcuni utilissimi precetti morali; presso di loro si trovano anche alcune verità sul culto dell’unico Dio.

Tutto questo è come il loro oro e argento, che essi non inventarono ma estrassero da certe – chiamiamole così – miniere della divina Provvidenza, che si espande dovunque. È vero che essi nella loro perversione e iniquità ne abusano per rendere culto ai loro dèi; non per questo però il cristiano, pur separandosi con lo spirito dalla loro miserabile società, deve buttar via tali ritrovati, qualora servano alla giusta missione di predicare il Vangelo.

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Dove nasce la cultura

Tra le conseguenze della caduta dell’Impero romano, quelle che riguardano l’istruzione e la cultura non sono certo di poco conto. Nell’età imperiale (a partire dal I secolo d.C., con l’imperatore Vespasiano) il sistema scolastico romano era divenuto uno strumento assai importante per la trasmissione del sapere. Articolato su vari livelli e sostenuto da un massiccio intervento statale, da un punto di vista sia legislativo sia finanziario, esso aveva permesso una diffusa alfabetizzazione della popolazione e una crescente specializzazione grazie al consolidamento dell’insegnamento elementare e superiore e a forme di istruzione privata, quasi sempre controllata dalle autorità statali. Con il declino politico dell’Impero, tale organizzazione entra in crisi per poi scomparire del tutto.

Quali istituzioni si occupano di sostituire le strutture laiche non più presenti? L’unico punto di riferimento rimasto è la Chiesa, che promuove lo sviluppo di scuole parrocchiali e vescovili per educare gli ecclesiastici. Fondamentale si rivela il ruolo delle scuole monastiche, dapprima sorte per istruire i monaci, ma presto destinate a diventare il centro di cultura più importante nel Medioevo.

Diffusi in tutta Europa sul modello dell’abbazia di Montecassino (fondata nel 529 da Benedetto da Norcia), i monasteri ospitano biblioteche ricche di volumi e i cosiddetti scriptoria, laboratori dove i monaci “amanuensi” copiano i manoscritti antichi, svolgendo una straordinaria funzione di conservazione e trasmissione culturale. In un primo momento, nelle scuole interne ai conventi vengono copiati e studiati soprattutto la Bibbia e i testi dei Padri della Chiesa. Più tardi, intorno al VII secolo, quando lo studio della grammatica, della retorica e delle opere letterarie greco-romane comincia a essere ritenuto utile per la lettura delle Scritture, anche il patrimonio dell’antichità pagana viene approfondito e diffuso.

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Secondo una distinzione fissata da Marziano Capella, un grammatico della tarda antichità (V secolo), le discipline necessarie alla formazione dell’intellettuale (che si identifica con il “chierico”, cioè con l’ecclesiastico) sono le sette “arti liberali”, così definite perché appannaggio dell’uomo libero, non assoggettato ai vincoli del lavoro e perciò in grado di dedicarsi alla conoscenza. Di queste discipline, tre riguardano la parola (grammatica, retorica e dialettica), il cosiddetto Trivio, e quattro comprendono le materie scientifiche (aritmetica, geometria, musica e astronomia) riunite nel Quadrivio.

La preminenza data alle arti liberali si può spiegare facilmente: esse vengono ritenute attività dell’anima, base di un sapere spirituale inteso essenzialmente come studio e contemplazione. Viceversa le cosiddette “arti meccaniche”, ovvero manuali, sono finalizzate a scopi pratici, essendo prerogativa di uomini non liberi.

Nonostante il ruolo assunto dai monasteri nel recupero e nella salvaguardia dei classici, le scuole fiorite al loro interno sono poco frequentate. Il basso livello di cultura non riguarda solo i laici, ma anche la grande maggioranza degli ecclesiastici. Proprio dalla coscienza della decadenza dell’istruzione, a cavallo tra VIII e IX secolo Carlo Magno si fa promotore di un capillare progetto di riorganizzazione culturale, riformando il sistema scolastico e riaffermando l’esigenza della ripresa degli studi classici e dell’utilizzo della lingua latina. Inoltre, per contrastare il monopolio ecclesiastico sull’insegnamento, egli costitui­sce presso la corte imperiale (palatium), ad Aquisgrana, sede del Sacro romano impero, un centro di formazione per i funzionari, detto Schola palatina, in cui viene riunito, sotto la direzione del monaco inglese Alcuino di York (735-804), il fior fiore degli intellettuali di tutta Europa. Tale iniziativa, che rappresenta il fulcro della cosiddetta “Rinascita carolingia”, porta allo sviluppo di una rete più ampia di istituzioni scolastiche: non possiamo parlare di una generale diffusione culturale, ma non c’è dubbio che grazie alla riforma carolingia si registrino un miglioramento delle competenze linguistiche e grammaticali, e un maggiore sviluppo della scrittura e della lettura.

Più tardi, soprattutto a partire dall’XI secolo, sorgono, oltre a quelle monastiche, anche scuole laiche: in questi centri, istituiti dal potere regio specialmente in Francia e in Germania, si approfondisce lo studio della cultura classica, mentre in Italia si formano prestigiose scuole giuridiche (Bologna, Pavia, Padova) e mediche (Salerno). In particolar modo, il crescente sviluppo dei centri urbani favorisce il radicamento dei luoghi di istruzione nello spazio cittadino, con la conseguenza di marginalizzare e isolare il contesto rurale dei monasteri. Infine i cambiamenti sociali che avvengono tra il XII e il XIII secolo mettono progressivamente in crisi il modello di istruzione monastico, ormai inadeguato a rispondere alle esigenze dei ceti mercantili sempre più rilevanti sulla scena politica ed economica.

Il prodotto tipico di questa nuova realtà cittadina è l’università, un’istituzione o un centro di studi dove l’insegnante, chierico o laico che sia, viene stipendiato dai Comuni o dagli stessi allievi per la funzione pedagogica che svolge. I frequentanti sono per lo più figli di borghesi che si costituiscono in libere associazioni per apprendere le arti liberali: la loro ambizione non è più quella di formarsi in vista della carriera ecclesiastica, ma di gettare le basi per esercitare in futuro una professione, il più delle volte medica o giuridica (i notai per esempio figurano come personalità chiave nell’esercizio delle funzioni di governo). Il diritto è infatti il fiore all’occhiello dell’università più antica d’Europa, Bologna (fondata nel 1088), in cui si afferma presto anche un importante indirizzo retorico: importante perché l’arte del parlar bene, connessa al contesto sociale e politico dei Comuni italiani, diventa uno strumento essenziale per la nascita di un ceto intellettuale nuovo, destinato ad assumere un posto di rilievo nelle magistrature cittadine e nell’amministrazione civile.

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PER APPROFONDIRE

Tra inchiostri e pergamene

Un supporto prezioso

Nell’Alto Medioevo la carta e la stampa non erano state ancora inventate e i monaci scrivevano sulla pergamena, cioè sulla pelle di pecora, di capra o di vitello. Per ottenerla si toglievano tutti i peli dalla pelle dell’animale e la si immergeva in un bagno di acqua e calce per sgrassarla e per impedirle di marcire. Poi essa veniva tesa su un telaio per non farla accartocciare, raschiata, battuta e frizionata con la pietra pomice fino a renderla morbida, sottile e bianca, e infine tagliata in fogli regolari. Sul foglio, per essere sicuri di non scrivere storto, i monaci tracciavano righe accurate: pensiamo che per copiare tutta la Bibbia occorreva la pelle di almeno cento pecore, l’equivalente di un intero gregge.


«Tre dita scrivono, ma è l’intero corpo che soffre»

Solo pochi frammenti delle opere scritte dagli antichi sono giunti in originale fino a noi: tutto il resto lo possiamo leggere grazie al fatto che è stato copiato nel corso del Medioevo. I monaci utilizzavano il calamo (una cannuccia di legno vuota) o una penna d’oca, entrambi appuntiti. A portata di mano tenevano il calamaio (di solito un corno di mucca svuotato) e il raschietto per cancellare le parole sbagliate o per premere sul foglio in modo che la pagina si mantenesse ben spianata. Di solito il monaco che scriveva non era lo stesso che disegnava, dato che per questo occorreva un talento particolare. Quando tutti i fogli erano stati scritti e miniati venivano cuciti e rilegati, a volte con copertine in oro o avorio e pietre preziose.

I monaci spesso erano costretti a lavorare tenendo il manoscritto sulle ginocchia, assumendo così una posizione molto scomoda. L’unica illuminazione era la piccola luce di una candela o di una lucerna, quando la luce del giorno non era sufficiente. Un copista dell’VIII secolo ha scritto in fondo a un libro: «Carissimo lettore, prendi il libro soltanto dopo esserti ben lavato le mani, gira i fogli con delicatezza, tieni lontano il dito dalla scrittura, per non sciuparla. Chi non sa scrivere crede che non occorra alcuna fatica. E invece quanto è dolorosa l’arte dello scrivere: affatica gli occhi, spezza la schiena; tutte le ossa fanno male! Tre dita scrivono, ma è l’intero corpo che soffre».

La dolce fiamma - volume B plus
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Poesia e teatro - Letteratura delle origini