Il racconto in versi è una forma che resta viva anche nel Novecento: lo dimostrano al principio del secolo i poemetti di Guido Gozzano (1883-1916), che in essi tratteggia vita, desideri e nostalgie di un giovane borghese nella Torino dell’epoca, con una buona spruzzata di autoironia (▶ T2, p. 303). Quest’ultima è una componente tutt’altro che frequente: manca, per esempio, nei poeti più noti all’epoca, come Giovanni Pascoli (1855-1912) e Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che per mettere in scena un racconto ricorre all’espediente narrativo della passeggiata.
Nell’Alcyone d’Annunzio delinea il diario poetico di un’estate in Versilia, occasione per un’immersione nella natura, secondo una parabola che dall’esuberanza di giugno conduce alle malinconie settembrine. Ben diversa è invece la vocazione narrativa e discorsiva mostrata dalla produzione di Umberto Saba (1883-1957), alla cui ispirazione molto devono le raccolte di Giorgio Caproni (1912-1990; ▶ L’autore, Unità 2, p. 406), interprete di una poesia realistica aperta alla quotidianità e alla riflessione filosofica, e da quella di Elio Pagliarani (1927-2012), caratterizzata da temi vivi e concreti quali la condizione delle classi sociali più umili negli anni del boom economico (▶ T4, p. 315).
Un’altra strada viene invece imboccata oltreoceano dall’americano Edgar Lee Masters (1868-1950), che nell’Antologia di Spoon River raccoglie oltre duecento epitaffi di un cimitero immaginario, tesi a cogliere il significato di altrettante esistenze (▶ T3, p. 308). La narrativa in versi, che agli albori prendeva forma in poemi sterminati, dimostra così la sua versatilità. Il poeta caraibico Derek Walcott (1930-2017), più di recente, ha dato un saggio straordinario dell’attitudine – che distingue la poesia da tutte le altre forme letterarie – a condensare in testi brevissimi storie di eccezionale portata, come la vicenda di Ulisse, che balena in Arcipelaghi (▶ T5, p. 319).