T3 - ANALISI ATTIVA - Una buona giornata (da Se questo è un uomo)

analisi attiva

T3

Una buona giornata

  • Tratto da Se questo è un uomo, 1947
  • memorialistica

Per i deportati che sono scampati al terribile inverno polacco finalmente arriva, a lungo attesa, la bella stagione. Si allenta così, da una parte, la morsa del gelo, ma non scompare quella, feroce, della fame. Il passo, tratto dal settimo capitolo dell’opera, racconta una giornata fuori dal comune nel campo di Monowitz.

 Asset ID: 115771 (let-audlet-una-buona-giornata660.mp3

Audiolettura

La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una

proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti

nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione

è più semplice.

5      Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro, ora, non ci

curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta. Al mattino, quando, in

fila in piazza dell’Appello,1 aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e

ogni soffio di vento penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri

corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è

10    ancor buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione

mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima

di ieri; oggi un po’ più caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà

tregua, e avremo un nemico in meno.

Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori dall’orizzonte di

15    fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide,2

ma quando si è sciolto dalle ultime brume3 un mormorio è corso sulla

nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso

i panni, ho compreso come si possa adorare il sole.

«Das Schlimmste ist vorüber», dice Ziegler4 tenendo al sole le spalle aguzze:

20    il peggio è passato.5 Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli

e terribili ebrei Saloniki6 tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali,7 così determinati

a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno

prevalso, nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi

temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro

25    cosa è il campo; ora stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una

delle loro interminabili cantilene.

Felicio il greco mi conosce: «L’année prochaine à la maison!», mi grida; ed

aggiunge: «… à la maison par la Cheminée!». 8 Felicio è stato a Birkenau.9 E

continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza,10 e si ubriacano di canzoni.

30    Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era

discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne;

a ponente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz (qui, un campanile!)

e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento.11 I fiumi della Buna12

ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi

35    di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau,

che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo

abituati a vederlo.

Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i

prati sono verdi: perché, se non c’è il sole, un prato è come se non fosse verde.

40    La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia.

Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo che è la negazione

della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con

numeri e lettere, o con nomi disumani e sinistri.13 Dentro al suo recinto non

cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone

45    e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi.

La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi,

quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli

stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri

di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari,

50    e altri che non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager,

Kazett)14 fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni

d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e

il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.

La Torre del Carburo,15 che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità16 è

55    raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita.

I suoi mattoni sono stati chiamati

Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny,

bricks, téglak,17 e l’odio li

ha cementati; l’odio e la discordia,

60    come la Torre di Babele, e così noi

la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm;18

e odiamo in essa il sogno

demente di grandezza dei nostri

padroni, il loro disprezzo di Dio e

65    degli uomini, di noi uomini.

E oggi ancora, così come nella

favola antica,19 noi tutti sentiamo,

e i tedeschi stessi sentono, che una

maledizione, non trascendente20 e divina, ma immanente21 e storica, pende

70    sulla insolente compagine,22 fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a

sfida del cielo come una bestemmia di pietra.

Come diremo, dalla fabbrica di Buna, attorno a cui per quattro anni i tedeschi

si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì

mai un chilogrammo di gomma sintetica.

75    Ma oggi le eterne pozzanghere,23 su cui trema un velo  iridato24 di petrolio,

riflettono il cielo sereno. Tubi, travi, caldaie, ancora freddi del gelo della notte,

sono grondanti di rugiada. La terra smossa degli scavi, i mucchi di carbone, i

blocchi di cemento, esalano25 in lieve nebbia l’umidità dell’inverno.

Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino

80    la vista, e ci guardiamo l’un l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole:

qualcuno sorride. Se non fosse della fame!26

Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti

non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i

minori e i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale,

85    e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui

così spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre,

piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si

tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello

stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente

90    disposte,27 si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa

abbia eventualmente a venir meno,28 e allora ci si stupisce dolorosamente

al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.

Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso come l’unico

nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso

95    errore,29 così oggi diciamo: «Se non fosse della fame!…».

Ma come si potrebbe pensare di non avere fame? Il Lager è la fame: noi

stessi siamo la fame, fame vivente.

Al di là della strada lavora una draga.30 La benna,31 sospesa ai cavi, spalanca

le mascelle dentate, si libra32 un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa

100  alla terra argillosa e morbida, e azzanna vorace, mentre dalla cabina di

comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa

un mezzo giro, vomita a tergo33 il boccone di cui è grave,34 e ricomincia.

Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso

della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e in giù,

105  miserabilmente visibili sotto la pelle floscia. Non riusciamo a svincolarci35 dallo

spettacolo del pasto della draga.

Sigi36 ha diciassette anni, ed ha più fame di tutti quantunque riceva ogni

sera un po’ di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato.

Aveva cominciato col parlare della sua casa di Vienna e di sua madre, ma poi è

110  scivolato nel tema della cucina, e ora racconta senza fine di non so che pranzo

nuziale, e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di

zuppa di fagioli. E tutti lo fanno tacere, e non passano dieci minuti, che Béla ci

descrive la sua campagna ungherese, e i campi di granoturco, e una ricetta per

fare la polenta dolce, con la meliga37 tostata, e il lardo, e le spezie, e… e viene

115  maledetto, insultato, e comincia un terzo a raccontare…

Come è debole la nostra carne! Io mi rendo conto appieno di quanto siano

vane queste fantasie di fame, ma non mi posso sottrarre alla legge comune, e mi

danza davanti agli occhi la pasta asciutta che avevamo appena cucinata, Vanda,

Luciana, Franco38 ed io, in Italia al campo di smistamento,39 quando ci è giunta

120  la notizia che all’indomani saremmo partiti per venire qui; e stavamo mangiandola

(era così buona, gialla, solida) e abbiamo smesso, noi sciocchi, noi insensati:

se avessimo saputo! E se ci dovesse succedere un’altra volta… Assurdo; se

una cosa è certa al mondo, è bene questa: che non ci succederà un’altra volta.

Fischer,40 l’ultimo arrivato, cava di tasca un involto, confezionato con la

125  minuzia degli ungheresi, e dentro c’è mezza razione di pane: la metà del pane

di stamattina. È ben noto che solo i Grossi Numeri41 conservano in tasca il

loro pane; nessuno di noi anziani è in grado di serbare42 il pane per un’ora.

Varie teorie circolano per giustificare questa nostra incapacità: il pane mangiato

a poco per volta non si assimila del tutto; la tensione nervosa necessaria

130  per conservare il pane, avendo fame, senza intaccarlo, è nociva e debilitante

in alto grado; il pane che diviene raffermo perde rapidamente il suo valore

alimentare, per cui, quanto prima viene ingerito, tanto più risulta nutriente;

Alberto43 dice che la fame e il pane in tasca sono addendi44 di segno contrario,

che si elidono45 automaticamente a vicenda e non possono coesistere nello

135  stesso individuo; i più, infine, affermano giustamente che lo stomaco è la cassaforte

più sicura contro i furti e le estorsioni. «Moi, on m’a jamais volé mon

pain!»46 ringhia David47 battendosi lo stomaco concavo: ma non può distrarre

gli occhi da Fischer che mastica lento e metodico, dal “fortunato” che possiede

ancora mezza razione alle dieci del mattino: «… sacré veinard, va!».48

140  Ma non soltanto a causa del sole oggi è un giorno di gioia: a mezzogiorno

una sorpresa ci attende. Oltre al rancio normale del mattino, troviamo nella

baracca una meravigliosa marmitta49 da cinquanta litri, di quelle della Cucina

della Fabbrica, quasi piena. Templer50 ci guarda trionfante: questa “organizzazione”51

è opera sua.

145  Templer è l’organizzatore ufficiale del nostro Kommando: ha per la zuppa

dei Civili52 una sensibilità squisita, come le api per i fiori. Il nostro Kapo, che

non è un cattivo Kapo, gli lascia mano libera, e con ragione: Templer parte seguendo

piste impercettibili, come un segugio, e ritorna con la preziosa notizia

che gli operai polacchi del Metanolo,53 a due chilometri di qui, hanno avanzato

150  quaranta litri di zuppa perché sapeva di rancido,54 o che un vagone di rape sta

incustodito sul binario morto della Cucina di Fabbrica.

Oggi i litri sono cinquanta, e noi siamo quindici, Kapo e Vorarbeiter55 compresi.

Sono tre litri a testa; uno lo avremo a mezzogiorno, oltre al rancio normale,

e per gli altri due, andremo a turno nel pomeriggio alla baracca, e ci saranno

155  eccezionalmente concessi cinque minuti di sospensione del lavoro per

fare il pieno.

Chi potrebbe desiderare di più? Anche il lavoro ci pare leggero, con la prospettiva

dei due litri densi e caldi che ci attendono nella baracca. Periodicamente

viene il Kapo fra noi, e chiama: «Wer hat noch zu fressen?».56

160  Questo non già per derisione o per scherno, ma perché realmente questo

nostro mangiare in piedi, furiosamente, scottandoci la bocca e la gola, senza il

tempo di respirare, è “fressen”, il mangiare delle bestie, e non certo “essen”, il

mangiare degli uomini, seduti davanti a un tavolo, religiosamente. “Fressen” è

il vocabolo proprio,57 quello comunemente usato fra noi.

165  Meister Nogalla58 assiste, e chiude un occhio sul nostro assentarci dal lavoro.

Anche Meister Nogalla ha l’aria di aver fame, e se non fosse delle convenienze

sociali, forse non rifiuterebbe un litro della nostra broda calda.

Viene il turno di Templer, a cui, con plebiscitario consenso, sono stati destinati

cinque litri, prelevati dal fondo della marmitta. Ché59 Templer, oltre a

170  essere un buon organizzatore, è un eccezionale mangiatore di zuppa, e, cosa

unica, è in grado di svuotare l’intestino, volontariamente e preventivamente,

in vista di un pasto voluminoso: il che contribuisce alla sua capacità gastrica

stupefacente.

Di questo suo dono egli va giustamente fiero, e tutti, anche Meister Nogalla,

175  ne sono a conoscenza. Accompagnato dalla gratitudine di tutti, il benefattore

Templer si chiude pochi istanti nella latrina, esce radioso e pronto, e si avvia,

fra la generale benevolenza, a godere il frutto della sua opera:

«Nu, Templer, hast du Platz genug für die Suppe gemacht?».60

Al tramonto, suona la sirena del Feierabend, della fine del lavoro;61 e poiché

180  siamo tutti, almeno per qualche ora, sazi, così non sorgono litigi, ci sentiamo

buoni, il Kapo non si induce a picchiarci, e siamo capaci di pensare alle nostre

madri e alle nostre mogli, il che di solito non accade. Per qualche ora, possiamo

essere infelici alla maniera degli uomini liberi.


Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1986

 >> pagina 655

A tu per tu con il testo

Le azioni che si compiono, le persone che si incontrano, le parole che si dicono: tutto, nell’esistenza di noi uomini liberi, rivela uno scopo, perché la vita che conduciamo – esserne convinti ci distingue dai bruti – possiede un senso. Ad Auschwitz, però, l’umanità è oggetto di sistematica negazione: l’esistenza dei deportati è degradata a mera sussistenza dal freddo insopportabile, dalla fatica che uccide e dalla fame atroce. In tali miserevoli condizioni, i pensieri e i gesti sono rivolti a un unico, elementare orizzonte: la sopravvivenza nell’immediato. Per i prigionieri del campo, assillati dai bisogni elementari, un raggio di sole e un cucchiaio di minestra in più assumono un valore inestimabile; rispetto al loro stato, anche l’infelicità di chi è libero appare come un desiderabile privilegio.

Analisi attiva

Oggi e qui (r. 5), afferma con desolazione Levi, non ci possiamo porre obiettivi complicati, perché per noi deportati la questione è più semplice (rr. 3-4): non si tratta, infatti, di progettare il futuro, ma “solo” di arrivare a primavera (r. 5), di mangiare e arrivare a sera. Con oggettività, il narratore osserva il comportamento degli esseri umani brutalmente ridotti al semplice istinto di conservazione: la privazione del necessario mette in luce, infatti, le proprietà della sostanza umana (r. 2), vale a dire la nuda natura dell’uomo, che si rivela spietata e crudele tanto più è impegnata nella lotta per la sopravvivenza (come si vede per gli ebrei di Salonicco, ormai veterani del campo, o per Felicio, che ha già fronteggiato l’orrore a Birkenau e sente il feroce entusiasmo di essere ancora vivo).

1. All’inizio del brano, Primo Levi definisce gli ebrei di Salonicco ammirevoli e terribili (rr. 20-21). Inserisci nella tabella tutti gli aggettivi, le azioni, le espressioni che si riferiscono a questo gruppo di prigionieri, inserendole nell’una e nell’altra colonna.


Ammirevoli perché…

Terribili perché…





 >> pagina 656

Mentre il cielo sereno annuncia la stagione più mite, lo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo (r. 41) della Buna simboleggia la negazione della speranza e il trionfo dell’insensatezza.

Qui perfino capire è arduo, tanto arduo quanto assolutamente vitale: un ordine frainteso, un’informazione non colta, un’istruzione ignorata possono, infatti, condurre a conseguenze tragiche e, spesso, alla morte. Nel lager regna una totale confusione linguistica, dove convivono il tedesco, il francese, l’italiano, il polacco, l’ungherese, il russo, l’inglese: lingue amiche e nemiche si giustappongono e si contaminano in un idioma discorde che parla di dolore e di sopraffazione.

La mescolanza dei linguaggi viene presentata attraverso il mito biblico di Babele: all’antica torre, costruzione innalzata dall’arroganza umana per la conquista dei cieli, viene paragonata la superba e inutile Torre del Carburo, al centro della Buna. Superba perché, il lager ne è la prova, è stata eretta dal disprezzo di Dio e degli uomini (rr. 64-65) in nome del sogno demente (rr. 62-63) della superiorità razziale. Inutile perché la fabbrica non è mai entrata in funzione e gli schiavi, morti in moltitudine nella sua costruzione, sono dunque morti invano. Per questo, la torre è vibrante d’odio e l’odio, contro la bestemmia di pietra (r. 71) che essa rappresenta, viene rivendicato dal narratore come una maledizione legittima, in un raro passo di incandescente indignazione.


2. Quando il cielo diventa sereno, i prigionieri possono vedere, in lontananza, una fila di colline basse, verdi di foreste (rr. 34-35). Questo paesaggio, però, non è per loro un segno di speranza, ma una fonte di angoscia: perché?


3. Completa la tabella. La Buna, la grande fabbrica, è descritta come una città, ma morta e disumana, infatti…


I suoi colori sono…

Le strade e gli edifici…

I fiumi…

Il terreno…

I suoi abitanti…

 >> pagina 657

Con l’arrivo della primavera il freddo cessa e si sente più acuta la stretta della fame. Il fenomeno offre a Levi lo spunto per ragionare sull’infelicità umana: pensiamo che le nostre pene abbiano un’unica, grande causa, quando invece le cause sono sempre molteplici e, dunque, la cessazione della maggiore non comporta la fine del dolore. Questo esercizio intellettuale, però, non può negare la perentorietà del bisogno: come possiamo ignorare la fame? Il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente (rr. 96-97).

La disperata immagine richiama al lettore l’inumana insufficienza di generi alimentari a cui sono condannati i prigionieri, inevitabilmente portati a trascurare le funzione umane che non siano legate alla sussistenza. Ogni facoltà e ogni aspetto del vivere si legano così alla necessità di mangiare. L’immaginazione, in primo luogo: davanti alla draga, trasfigurata in un famelico animale che spalanca le mascelle (rr. 98-99) e azzanna (r. 100) la terra, i deportati patiscono come reale l’esclusione dal visionario banchetto. Il ricordo: nessuno, e nemmeno il narratore, può sottrarsi alla tormentosa rievocazione dei pasti del passato, incalzato dall’ossessione della fame. E gli affetti: la madre del giovane Sigi, gli amici dello scrittore, tutti sono richiamati alla mente in situazioni conviviali.

Perfino la buona giornata di oggi, allora, non è da intendersi tanto in senso climatico, quanto esclusivamente in termini alimentari, visto il fortunato ritrovamento di cibo davanti al quale anche la discordia che vige in questa inerme massa di infelici sembra, placata la fame, assumere l’aspetto di una cameratesca convivenza.


4. Individua tutti i termini e le espressioni relative alla personificazione della draga. A quale campo semantico appartengono?


5. Per quali motivi coloro che sono deportati da più tempo non conservano il pane, come invece fa Fischer, arrivato da poco? (sono possibili più risposte)

  • a Perché temono che gli venga rubato. 
  • b Perché il pane è secco e vecchio. 
  • c Perché hanno sempre fame. 
  • d Perché sono ingordi. 
  • e Perché lo digeriscono meglio. 


6. La possibilità di avere una razione extra di cibo è una grande gioia per chi vive nel lager, e Templer è considerato una specie di genio o di eroe perché riesce a farne avere, di tanto in tanto, ai prigionieri. Individua nel testo le espressioni che ti fanno capire la gioia dei prigionieri e l’ammirazione e la gratitudine per Templer e inseriscile nella tabella.


Arrivo della razione extra

Templer


7. Perché il modo di mangiare dei prigionieri viene indicato, in tedesco, con un termine che, propriamente, si riferisce agli animali?

  • a Perché è il termine usato dai tedeschi in segno di scherno e derisione. 
  • b Perché, affamati e con poco tempo a disposizione, i prigionieri sono costretti a ingurgitare in fretta e furia. 
  • c Perché i prigionieri si riducono anche a mangiare gli avanzi. 
  • d Perché il Kapò parla male il tedesco. 

 >> pagina 658

Il passo presenta un’articolata successione di temi e personaggi diversi e mostra un ricco assortimento di scelte espressive. Levi passa infatti, a seconda della situazione e dell’emozione, dall’accentuata razionalità dell’inizio, quasi alla stregua di un saggio o di un trattato (La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, r. 1), alla triste poeticità che si coglie nella descrizione del paesaggio naturale (Si vedevano a mezzogiorno le montagne, r. 31), allo sdegno contro la follia nazista nella similitudine della torre di Babele, riuscendo sempre a ricreare le ossessioni dei prigionieri (Non riusciamo a svincolarci, r. 105) e i loro sentimenti (siamo capaci di pensare alle nostre madri e alle nostre mogli, rr. 181-182).

In questa eccezionale giornata di inattesa gioia, non manca neppure la carica giocosa e carnevalesca di Templer, l’eccezionale mangiatore di zuppa (r. 170). A pancia piena, sembra dire Levi, si può, anche nel lager, scherzare.


8. Sottolinea nel testo, con un colore, i passi in cui Levi espone delle considerazioni generali sull’uomo e sulla sua natura e, con un altro, quelli in cui riflette sull’esistenza nel lager.


9. Nel lager, l’atteggiamento dei prigionieri può essere molto vario. Associa ogni personaggio alle sue caratteristiche peculiari.

  • a) Ziegler
  • b) Felicio
  • c) Béla
  • d) Fischer
  • e) Alberto
  • f) David
  • g) Templer

1) Sarcasmo e vitalità

2) Nostalgia e malinconia

3) Speranza e sollievo

4) Orgoglio e invidia

5) Ironia e consapevolezza

6) Vitalità e astuzia

7) Metodicità e precisione

Laboratorio sul testo

competenze linguistiche

10. Lessico. Sinonimi e contrari. Nel brano che hai letto sono numerosi gli aggettivi impiegati per descrivere i diversi atteggiamenti e comportamenti dei deportati. Per ciascuno degli aggettivi usati da Levi, con l’aiuto del dizionario, indica un sinonimo e un contrario.


Sinonimo

Contrario

ammirevole

terribile

tenace

saggio

feroce

solidale

lento

metodico

trionfante

 >> pagina 659 

PRODURRE

11. Coerenza e coesione. In alcuni passaggi del capitolo, Levi utilizza uno stile saggistico e argomentativo, in cui hanno fondamentale importanza i connettivi testuali, vale a dire quelle espressioni che legano tra loro le diverse parti del ragionamento. Il brano che segue è stato riscritto modificando alcuni di questi legami: tra le due alternative, scegli quella che ti sembra corretta sia sotto l’aspetto grammaticale sia sotto quello contenutistico.


La natura umana è tale / Tutti sanno che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori e i maggiori, da / per una legge prospettica definita. Ciò / Quello è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui sovente / ormai, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: invece / oppure, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, perché / quindi alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a quando / affinché questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.


12. Scrivere per esprimere Quando ci si trova in una situazione molto difficile, a volte sono le cose e le azioni più piccole e banali, quelle che diamo per scontate nella vita di ogni giorno (come, nel caso dei prigionieri, una razione extra di cibo), che possono dare un grande conforto e un temporaneo sollievo. Quali sono le piccole cose e azioni quotidiane, magari banali, che rendono migliore la tua giornata? Fai un esempio e spiegane il motivo (massimo 15 righe).

SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare

Storia

Nei campi di concentramento, i prigionieri venivano sfruttati come forza-lavoro gratui­ta al servizio delle industrie tedesche. Che tipo di industrie erano e quali beni producevano? Fai una breve ricerca ed esponila alla classe oralmente (cinque minuti circa).

SPUNTI PER discutere IN CLASSE

Che cosa significa, a tuo parere, la frase essere infelici alla maniera degli uomini liberi (r. 183)?

 >> pagina 660

Se ti è piaciuto

Il racconto spiazzante della Shoah

Come raccontare la “soluzione finale”? E soprattutto, come essere credibili di fronte all’indicibile? Per molti sopravvissuti Auschwitz impone il silenzio: la scrittura, come ogni forma artistica, è uno strumento inadeguato, una testimonianza incapace di trasmetterne le immagini, il senso, la verità più profonda.

Se per Levi la penna può essere usata come una terapia rigeneratrice e come un appiglio per tornare alla vita, altri artisti hanno utilizzato forme e linguaggi diversi per comunicare l’orrore. Lo statunitense Art Spiegelman si è servito addirittura della graphic novel: il fumetto Maus (1980) descrive infatti l’esperienza del padre dell’autore, sopravvissuto ai campi di concentramento.

Con un’originale scelta figurativa, tutti i personaggi sono rappresentati come animali dall’aspetto umano: gli ebrei hanno il volto di topi (Maus, in tedesco), i nazisti di gatti, i polacchi di maiali, gli americani di cani. Questo permette di raffigurare con efficacia la disumanizzazione della vita nei lager.

E se spiazzante fosse invece il modo per descrivere la tragedia? Diversamente dalla maggioranza delle testimonianze letterarie e cinematografiche sulla Shoah, alcune pellicole fanno pensare provocando, coniugando il dolore con la comicità. Si può ridere fuggendo dalle SS? Il film Train de vie, girato nel 1998 dal regista rumeno Radu Mihaileanu, rinuncia a spiegare la malvagità umana: la violenza può essere soltanto parodiata. E così nell’estate del 1941, in un villaggio ebraico dell’Europa orientale, dopo una corsa a perdifiato per i boschi, il pazzo del luogo avvisa che i tedeschi stanno catturando gli ebrei. L’unica via di fuga è organizzare un finto treno di deportazione, che però porti i malcapitati in Palestina. La carovana si mette in marcia, riuscendo tra mille peripezie a sottrarsi ai nazisti, raggiungendo il confine sovietico. La sgangherata compagnia viene dunque premiata dal lieto fine? La conclusione impone, drammaticamente, i diritti tragici della verità.

L’immaginazione non può impedire il dolore e la morte, ma aiuta a sopportarli, come accade anche nella Vita è bella, interpretato e diretto da Roberto Benigni nel 1997: qui il gioco è lo strumento utilizzato da un padre per alleviare le sofferenze del figlioletto e tenerlo nascosto nel campo di concentramento dove i due si trovano reclusi.

La bugia è una necessità quotidiana quando la realtà è insopportabile, come sa bene Jakob, il commerciante polacco descritto da Jurek Becker e interpretato nel 1999 da Robin Williams nel film Jakob il bugiardo. La menzogna gli permette di raccontare una storia fasulla ma rinfrancante, prima a una bambina scappata dal treno che avrebbe dovuto condurla al lager e poi ai sopravvissuti del ghetto. Jakob afferma infatti di possedere una radio e di conoscere notizie di (fantomatici) successi sovietici ai danni dei nazisti. Anche qui la conclusione è tragica, ma la speranza alimentata dal protagonista fa il suo dovere: con un pizzico di follia, perfino una radio inventata può diventare un’arma di libertà contro l’insensatezza degli uomini.

La dolce fiamma - volume A
La dolce fiamma - volume A
Narrativa