T3 - Tiziano Terzani, Lettera da Kabul

T3

Tiziano Terzani

Lettera da Kabul

  • Tratto da Lettere contro la guerra, 2002
  • reportage giornalistico sotto forma di lettera
Tiziano Terzani nasce a Firenze nel 1938 da umile famiglia. Una borsa di studio gli consente di frequentare il collegio Sant’Anna di Pisa, dove si laurea in Legge nel 1962. Viene subito assunto dalla nota fabbrica di macchine per scrivere Olivetti, ma presto si licenzia perché è attratto dalla carriera di reporter e dalle culture orientali. Nei primi anni Settanta soddisfa queste passioni diventando corrispondente per l’Asia del settimanale tedesco “Der Spiegel”. In questa veste racconta la guerra in Vietnam, alla quale sono dedicati i primi libri. Nel 1979 si trasferisce con la famiglia a Pechino e poi a Tokyo, da dove collabora con periodici italiani e stranieri. Un viaggio nell’Asia sovietica, nei giorni del crollo dell’Unione Sovietica, gli ispira Buonanotte, signor Lenin (1992). Dal 1994 è in India, dove scrive Un indovino mi disse (1995), cronaca di un anno trascorso viaggiando, ma senza prendere aerei. Raccolti i suoi migliori reportage nel volume In Asia (1998), imprime una svolta alla carriera con le Lettere contro la guerra (2002), ispirate dall’attentato alle Torri Gemelle di New York. Il suo ultimo libro, Un altro giro di giostra (2004), è una sorta di viaggio interiore, stimolato dalla grave malattia che lo colpisce e dalla quale cerca di guarire rivolgendosi anche alla medicina non tradizionale. Prima di spegnersi, nel 2004, Terzani si ritira in una valle dell’Appennino toscano, dove conduce lunghe conversazioni con il figlio Fosco, che le raccoglierà in La fine è il mio inizio (2006).

Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 Terzani si reca in Afghanistan per capire meglio chi siano i terroristi islamici, convinto che l’odio chiami odio e che la guerra, scatenata dagli americani alla ricerca di Osama bin Laden, non possa che risolversi in un tragico fallimento. Quando raggiunge la capitale, Kabul, trova un panorama splendido e insieme desolante.

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Audiolettura

Kabul, 19 dicembre 2001

La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi

sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e qualche piastrella di plastica

d’uno stanzone vuoto all’ultimo piano del più alto edificio del centro città

5      e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha

sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come

Babur, capostipite dei moghul,1 avendole viste una volta, ebbe nostalgia per

il resto della vita e desiderò che fossero la sua tomba; la valle percorsa dal

fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a proposito della quale un poeta,

10    giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa?

Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio bazar dei

Quattro Portici2 dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e

del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah.3

Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante

15    musulmano che nel VII secolo dopo Cristo, pur avendo già perso la testa, mozzatagli

da un fendente, continuò – secondo la leggenda – a combattere con

un’arma per mano, determinato com’era a imporre l’Islam, una nuova, aggressiva

religione appena nata in Arabia, a una popolazione che qui, da più d’un

millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta

20    della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la fortezza di Bala

Hissar4 nella cui residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han

languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana.

La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa,

con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale, nella

25    borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto

di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne

perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come

un dolore fisico, la follia del destino a cui l’uomo, per sua scelta, sembra essersi

votato: con una mano costruisce, con l’altra distrugge; con fantasia dà vita a

30    grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa attorno a sé il deserto

e massacra i suoi simili.

Prima o poi quest’uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il

messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri raccontano

non restano che i resti: la Fortezza è una maceria, il fiume un  rigagnolo fetido

35    di escrementi e spazzatura, il bazar una distesa di tende, baracche e container;

i mausolei, le cupole, i templi,

sono sventrati; della vecchia città

fatta di case in legno intarsiato e

fango non restano, a volte in file di

40    centinaia e centinaia di metri, che

dei patetici mozziconi color ocra

come sulla battigia5 le guglie dei

castelli di sabbia costruiti da bambini

e subito espugnati dalle onde.

45    Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L’enigmatico Minar-i-Chakari,

Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad,6 nel

I secolo dopo Cristo, forse per commemorare l’illuminazione di Budda,7 non ha

resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo di antichi sassi.

Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio brulicante

50    di misera umanità; un immenso cimitero impolverato. Tutto è polvere

ed ho sempre di più l’impressione che nella polvere che mi annerisce costantemente

le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa

polvere c’è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le reggie, le case, i giardini,

i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di quella valle un paradiso.

55    Settanta diversi tipi di uva, trentatré tipi di tulipani, sette grandi giardini folti

di cedri erano il vanto di Kabul. Non c’è assolutamente più nulla. E questo non

per una maledizione divina, non per l’eruzione di un vulcano, lo straripamento

di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una

volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra.

60    La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra del secolo scorso e dell’inizio

di questo secolo portata qui dagli inglesi8 – che ora, poco delicatamente, son

voluti tornare a capo della “Forza di pace” –, la guerra degli ultimi vent’anni,

quella a cui tutti, in un modo o nell’altro, magari solo vendendo armi a uno

dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una

65    fredda guerra di macchine contro uomini.

Forse è l’età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità per

la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di

schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l’impressione di esserne trafitto, mutilato,

bruciato. Forse ho perso, se l’ho mai avuta, quella obbiettività dell’osservatore

70    non coinvolto, o forse è solo il ricordo di un verso che Gandhi9 recitava

nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza

degli altri» per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato

come se questa storia non mi riguardasse.

Dall’alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente

75    a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una

gamba. Forse è sua figlia. Anch’io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella

vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle

e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con sacchetti e

pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipote di quell’età e

80    mi immagino lui a respirare quell’aria puzzolenta e cancerogena10 pur di scaldarsi.

Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a rintracciare l’anziano

signore per il quale avevo una lettera di presentazione: l’ex curatore del Museo

di Kabul. L’ho trovato al bazar di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia,11

vende patate. Avrebbe potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere

85    a ognuno di noi: a causa di una guerra.


Tiziano Terzani, Tutte le opere, a cura di À. Loreti, vol. 2, Mondadori, Milano 2011

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Come continua

Terzani scende per le strade e inizia a verificare la situazione sul campo. La guerra aerea americana ha fatto centinaia di vittime, con il solo effetto di inasprire gli animi contro gli occidentali e incitare alla jihad, la guerra santa islamica. In un ospedale di Kabul si affollano decine di mutilati; allo zoo i pochi animali rimasti sono affamati e ringhiosi. Dappertutto, miseria e sofferenza: ormai un’abitudine per gli afghani, in guerra ininterrottamente da decenni.

A tu per tu con il testo

Ma chi glielo fa fare? Che gusto c’è a dormire scomodi, rischiare la pelle, osservare una città massacrata dalla guerra attraverso finestre polverose in un hotel fatiscente, sapendo che da un momento all’altro qualcuno potrebbe fare irruzione per rapirti? Nessuno, se per noi viaggiare non significa altro che andare in vacanza, rilassarsi, stare allegri e non pensare a nulla di spiacevole. Eppure i reporter di guerra non abbracciano il loro mestiere per necessità, ma per passione. E così Terzani, ormai anziano, non riesce a resistere al richiamo. Dopo aver passato una vita a documentare massacri, prepara i bagagli e parte per Kabul. In guerra il primo morto è la verità, e lui lo sa bene. Le autorità fanno di tutto per censurare le notizie scomode, tenere alto il morale della popolazione, accrescere il terrore verso un nemico invariabilmente dipinto come malvagio e “disumano”. Proviamo invece a chiederci: chi abita Kabul? Terroristi o gente normale? La realtà della guerra non si può comprimere in un servizio sbrigativo del telegiornale: è fatta di volti, parole, rumori, sensazioni. Ci serve qualcuno in grado di aiutarci a coltivare l’arte del dubbio, qualcuno che abbia il coraggio di andare a vedere di persona che cosa succede, e di raccontarlo senza filtri ideologici, con onestà. Ci serve gente come Terzani, oggi più che mai.

Analisi

Nella storia recente nessun paese è stato martoriato dalla guerra quanto l’Afghanistan. Raggiunta finalmente l’indipendenza nel 1919, dopo una lunga serie di conflitti per sottrarsi agli appetiti delle potenze coloniali, questa nazione è tornata nella spirale della violenza negli anni Ottanta, quando venne invasa dai sovietici. Al loro ritiro si scatenò una sanguinosa guerra civile, nella quale si affermarono i talebani, fondamentalisti islamici stretti alleati del saudita Osama bin Laden (1957-2011), mente dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. All’indomani del tragico atto terroristico che provocò circa tremila morti, divampò anche in Italia un acceso dibattito su che cosa fare: Oriana Fallaci (1929-2006), famosa scrittrice e giornalista, sostenne nel libro La rabbia e l’orgoglio le ragioni dell’intervento armato in Afghanistan, a difesa della civiltà occidentale minacciata. Terzani si batté invece per difendere la pace e scrisse una serie di Lettere contro la guerra, prima dall’Italia e poi dal Pakistan, dall’Afghanistan e dall’India, dove si recò in quello stesso autunno.
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Da una stanza spoglia, all’ultimo piano di un palazzo, Terzani osserva lo straordinario panorama di Kabul, nel quale ritrova tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato (rr. 5-6): maestose montagne sullo sfondo, la valle percorsa dal fiume, il vecchio bazar, i monumenti che risvegliano in lui le storie apprese dalla bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio (r. 25) che ha portato con sé. La visione del santuario del Re dalle Due Spade gli ricorda per esempio la leggenda del comandante musulmano che in nome della fede continuò a combattere, pur essendo stato decapitato. Questo, da sempre, è il suo metodo: partire dal confronto tra ciò che vede e ciò che ha imparato da una serie di letture sulla storia, per conoscere la società e la cultura dei popoli con cui viene in contatto.
Ma a Kabul è diverso. Qui, Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti (rr. 33-34): la fortezza che domina la città è ridotta in macerie, il fiume è una discarica, i templi sono devastati, molti altri luoghi simbolici sono scomparsi. La città si è trasformata in un enorme termitaio brulicante di misera umanità; un immenso cimitero impolverato (rr. 49-50). Responsabile di questa rovina non è la natura, ma l’uomo, capace di costruire paradisi profumati per poi trasformarli in luridi inferni. Non importa ora distinguere fra le mille guerre che si sono sommate, per documentare l’esito devastante che ha sotto gli occhi. Kabul è un monito: è questo che vogliamo? Quante altre città, nel mondo, oggi somigliano a Kabul?

Terzani non intende soppesare torti e ragioni delle parti in causa, ma descrivere gli effetti delle guerre: non si sente più di perseguire la difficile, a volte impossibile obiettività del reporter. Alle cronache accompagna lucide riflessioni, e non nasconde i propri sentimenti, ammettendo una sorta di isterica sensibilità per la violenza (rr. 66-67). Dopo averne viste di tutti i colori, nella sua carriera, non ha sviluppato la corazza di indifferenza propria di molti colleghi. Al contrario, si sente trafitto, mutilato, bruciato (rr. 68-69) dalla ferocia riconoscibile dappertutto, che lo porta a ricordare un verso in cui Gandhi sostiene che senza la compassione, senza la capacità di immaginare la sofferenza degli altri (rr. 71-72), non è possibile capire il mondo.

Mettersi nei panni altrui è una necessità morale, così come raccontare quello che gli occhi vedono, ovvero il moltiplicarsi delle sofferenze dei più deboli: una donna mutilata che arranca, bambini-mendicanti infreddoliti che si scaldano bruciando pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura (r. 79). Neppure la cultura mette al riparo: il curatore del museo di Kabul si riduce a vendere patate al bazar, pur di guadagnare qualcosa. È una storia che ci riguarda: Avrebbe potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere a ognuno di noi: a causa di una guerra (rr. 84-85).

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false, poi correggi quelle che ritieni false.


a) L’autore, durante la sua visita a Kabul, alloggia in un hotel.

  • V   F

b) L’autore conosce molto bene la storia di Kabul.

  • V   F

c) Prima della diffusione dell’Islam, la popolazione dell’Afghanistan era indù e buddhista.

  • V   F

d) L’autore apprezza molto la bella vista sul panorama che vede dal suo alloggio.

  • V   F

e) La città di Kabul è ridotta a un ammasso di macerie e i suoi monumenti sono distrutti.

  • V   F

f) La città è stata distrutta da una catastrofe naturale.

  • V   F

g) Gli inglesi sono i responsabili dell’ultima guerra combattuta in Afghanistan.

  • V   F

h) L’autore con l’età è diventato più sensibile alla violenza.

  • V   F

i) L’autore con l’età è diventato più obiettivo e imparziale.

  • V   F

j) A Kabul vivono persone mutilate dalle mine.

  • V   F

k) A Kabul i bambini-mendicanti si riparano dal freddo nei palazzi semidistrutti.

  • V   F

l) L’ex curatore del museo di Kabul ora fa un lavoro umile e faticoso per sopravvivere.

  • V   F

 >> pagina 576 

ANALIZZARE E INTERPRETARE

2. Individua nel testo le due sequenze in cui Terzani espone le proprie considerazioni e i propri pensieri: qual è la riflessione che le accomuna?


3. Di quale argomento tratta la prima sequenza descrittiva del brano (dall’inizio a tutti i perdenti della storia afghana, rr. 2-22)? È una descrizione “reale”?


4. Rintraccia nel testo le ricorrenze della parola “polvere” e dei suoi derivati: perché questa parola viene ripetuta tante volte? Di che cosa diventa simbolo?

COMPETENZE LINGUISTICHE

5. I complementi. Individua la funzione logica dei complementi evidenziati in grassetto.


a) Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo (                               ) disteso sul cemento (                               )

b) Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano (                               )

c) con una mano costruisce, con l’altra distrugge (                               )

d) Prima o poi quest’uomo dovrà cambiare strada (                               )

e) le guglie dei castelli di sabbia () costruiti da bambini (                               )

f) in questa polvere c’è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi (                               )

g) Il paradiso è finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra (                               )

h) Forse ho perso, se l’ho mai avuta, quella obbiettività dell’osservatore non coinvolto (                               )

pRODURRE

6. Scrivere per argomentare Terzani è un viaggiatore che, prima di arrivare in un luogo, si documenta con attenzione sui monumenti e sulla storia locale. Ritieni che sia meglio intraprendere un viaggio dopo essersi preparati con cura, avendo pianificato il proprio itinerario e studiato l’arte, la storia e la geografia del luogo, o che sia più stimolante “andare all’avventura”, senza piani, lasciandosi affascinare da ciò che si incontra casualmente? Argomenta la tua posizione in massimo 15 righe.

SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare

Storia e geografia

Fai una ricerca sull’Afghanistan, soffermandoti in particolare sulla sua travagliata storia, costellata da invasioni e guerre, poi esponi oralmente le informazioni che hai raccolto.

Educazione civica

Nel testo è menzionato Gandhi, che fu uno dei leader nella lotta per l’indipendenza dell’India: contro il colonialismo inglese, egli elaborò e praticò la satyagraha, una forma di resistenza non violenta. La sua azione ispirò quella di personaggi come Martin Luther King e Nelson Mandela. Partendo da questi spunti, fai una ricerca sulle forme di lotta non violenta e sui principali esponenti e sostenitori di questa teoria etico-politica.

La dolce fiamma - volume A
La dolce fiamma - volume A
Narrativa