1. Tipologie e caratteri

1. TIPOLOGIE E CARATTERI

Hai mai usato la scrittura per scavare nella tua coscienza, per dare voce alle idee, ai sentimenti, alle paure che si agitano nell’animo? Si scrive di sé per propria iniziativa, o perché qualcuno ci ha pregato di farlo. Si scrive per raccontarsi a un amico, ai nipotini, ai posteri. Si scrive di sé per ristabilire la verità, per conoscersi meglio, o anche solo per vincere la noia, esercitando la memoria. Guardandosi dentro si accende la luce confortante di giorni infinitamente felici, o affiora il buio tremendo di un momento difficile che vorremmo comprendere meglio, per superarlo.

La narrativa d’introspezione concentra l’attenzione sull’interiorità del singolo individuo, del quale mostra passioni, speranze, debolezze. La fragilità, ma anche l’orgoglio e la vanità dell’io che si mette a nudo in un diario, in un’autobiografia, in un romanzo psicologico non sono però esclusivamente di chi racconta guardandosi allo specchio, ma finiscono per appartenere a tutti: il minimo moto di un cuore è in grado di squassarci come il racconto di un terremoto, o di una guerra. Può accadere così che, scoprendo i sentimenti di una persona che neppure conosciamo, magari vissuta secoli fa, possiamo imparare a conoscere meglio noi stessi, qui e ora.

Il diario intimo è la forma più immediata e diffusa di scrittura introspettiva: consiste nell’abitudine di prendere nota, quotidianamente (la parola viene dal latino dies, “giorno”) o con cadenza più o meno frequente e regolare, dei pensieri e delle suggestioni che si affacciano nella nostra mente e degli avvenimenti che capitano a noi stessi o nella realtà che ci circonda. Ogni pagina di diario è in genere introdotta dalla precisazione del luogo e del tempo in cui si scrive. Il carattere personale di questo tipo di scrittura favorisce l’utilizzo di uno stile colloquiale, che dà per sottintesi riferimenti a situazioni e persone conosciute.

Il diario è scritto in prima persona, in presa diretta, senza pretese di obiettività. È una forma autobiografica non retrospettiva: in genere, cioè, verte sul significato da attribuire ad avvenimenti recenti o propone riflessioni condotte al momento. Si tratta insomma di una scrittura “a caldo” e, in quanto tale, si presta bene all’autoanalisi. Chi scrive un diario si confronta con i propri sentimenti, cercando di fare ordine in ciò che si agita ancora confusamente nel cuore. È ciò che si propone la giovane Anne Frank ( T2, p. 493), stendendo su un quaderno note, impressioni, emozioni ed esperienze, indirizzate al diario come se fosse un’amica immaginaria di nome Kitty. Casi come questo rivelano la stretta parentela fra il diario e la lettera, nella quale ci si rivolge a un interlocutore fidato, mettendo a nudo il proprio animo.

Oggi è raro che qualcuno racconti i propri sentimenti prendendo carta e penna. Nel nuovo millennio si usano nuovi strumenti, da Facebook ai blog personali, che sono diventati i mezzi principali per esprimere il proprio temperamento: così però viene meno il carattere intimo di pensieri e confidenze, rivelati non solo a parenti e amici, ma anche a centinaia, a volte migliaia, di sconosciuti.

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L’autobiografia (dal greco autós + bíos + graphé, ovvero “se stesso” + “vita” + “scrittura”) si fonda su una triplice identità: l’autore è al tempo stesso narratore e protagonista dell’opera. Ripercorrendo le tappe principali della propria vita egli mette l’accento sull’evoluzione del proprio carattere, sui momenti decisivi che hanno segnato il suo destino: per esempio il rapporto con i genitori, gli anni della scuola, la scoperta di una vocazione, l’incontro con la persona amata o con una figura carismatica. Sullo sfondo sfilano i luoghi fondamentali che sono stati scenario di questi eventi, ciascuno dei quali assume nella memoria un significato peculiare.

L’autobiografia procede secondo un normale ordine cronologico. A scrivere è di norma un individuo maturo o anziano, disposto a fare un bilancio delle proprie esperienze. Il protagonista, diventato un uomo saggio, disincantato, ironico, interpreta alla luce di ciò che è ora le azioni compiute quando era un ragazzo sventato, ingenuo, entusiasta. In questa distanza si misura lo scarto rispetto alle scritture diaristiche: chi racconta la propria vita si volge all’indietro e tratteggia una parabola esistenziale, che lega ieri e oggi; chi scrive un diario è invece concentrato sulla contemporaneità e non sa cosa gli succederà domani.

Spesso le autobiografie non si devono a scrittori professionisti, ma a uomini e donne che hanno ottenuto celebrità nei campi più diversi. Hanno scritto autobiografie politici, attori e ballerine, campioni dello sport e scienziate, persino briganti e avventurieri. Ad aiutarli, in molti casi, provvedono degli specialisti: i cosiddetti ghost writers (in inglese, “scrittori fantasma”), il cui nome nella maggior parte dei casi non compare nel libro.

In effetti l’autobiografia è un genere ambiguo, a cavallo fra cronaca e invenzione. L’autore è una persona in carne e ossa, ma la storia che racconta è inevitabilmente parziale: anche se ricerca in ogni modo l’oggettività, il punto di vista resta personale. Chi scrive, inoltre, è costretto a operare una selezione fra gli innumerevoli eventi della propria vita, senza contare che molti mentono a bella posta, o si divertono a ingannare i lettori. Insomma, prestiamo pure fede alle autobiografie, ma con giudizio…

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Da secoli gli scrittori sfruttano l’interesse dei lettori per la vita privata altrui, confezionando finti diari o finte raccolte di lettere di uno o più personaggi, che l’autore immagina di ricevere direttamente o di ritrovare per caso. Un romanzo epistolare come I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), a cui si ispirò Ugo Foscolo (1778-1827) nella stesura delle Ultime lettere di Jacopo Ortis ( T1, p. 488), fu preso talmente sul serio da causare nella Germania del tempo una serie di suicidi, a imitazione del disgraziato protagonista.

Del resto, anche nell’autobiografia è spesso visibile una componente letteraria. Nasce di qui il cosiddetto romanzo psicologico, in cui il personaggio che parla in prima persona non coincide se non in parte con l’autore, e in genere ha un nome differente. Questo tipo di romanzo non tenta di catturare il lettore tramite eventi sconvolgenti o peripezie mozzafiato, anzi propone un ritmo lento, caratterizzato da lunghe pause e digressioni. L’esplorazione dell’anima diventa così un percorso tortuoso e la narrazione tende ad abbandonare l’ordine cronologico, per muoversi avanti e indietro liberamente, seguendo la scia dei ricordi, con un continuo viavai tra passato e presente. Il monologo interiore è la tecnica che meglio si presta ad accompagnare questo processo. Ciò è visibile, per esempio, nei crudi racconti dell’ungherese Ágota Kristóf (1935-2011; T4, p. 506), che riversa in una scrittura priva di fronzoli e facili ornamenti l’ansia di scavare nella propria interiorità, lacerata dalla durezza dell’esistenza.

2. L’IO NEL TEMPO

Fin dai tempi più remoti l’essere umano ha avvertito l’esigenza di lasciare traccia di sé, delle proprie idee e del proprio operato: importanti personaggi pubblici dell’antichità, come Giulio Cesare per esempio, hanno sentito il bisogno di raccontare la loro vita, cercando di rispondere alla domanda: “Che cosa ho fatto?”. Ma è principalmente con l’avvento del cristianesimo che nelle persone si fa strada la necessità intima di raccontare anche la sfera più interiore e personale di sé, nel tentativo di delinearne l’essenza. “Chi sono?” è l’interrogativo al quale nel IV secolo d.C. cerca di rispondere, per esempio, Agostino nelle Confessioni, delineando in un serrato dialogo con Dio il percorso che l’ha portato sulla via della salvezza spirituale dopo gli errori di una giovinezza peccaminosa.

A partire dal XVIII secolo a essere posta in primo piano è soprattutto l’infanzia, come paradiso perduto al quale si guarda con nostalgia. È ciò che accade nelle Confessioni del ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), pubblicate fra il 1764 e il 1789: l’indagine sulla vita interiore, condotta da Rousseau nel tentativo di recuperare una dimensione innocente e autentica dell’esistenza, apre la via alle tante opere introspettive scritte durante il Romanticismo. Insiste invece sulla ritrovata fede cristiana il libro più noto della memorialistica italiana ottocentesca, ovvero Le mie prigioni, scritto da Silvio Pellico (1789-1854) dopo la durissima esperienza nel carcere dello Spielberg di Brno, città nell’attuale Repubblica Ceca, dove era stato imprigionato per aver tramato contro l’Austria.

Nella seconda metà dell’Ottocento anche il romanzo si dimostra sede privilegiata per acute riflessioni sui comportamenti e la moralità degli uomini. Scrittori come il russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), autore di Memorie dal sottosuolo e di Delitto e castigo, si rivelano instancabili esploratori della sensibilità, creando eroi ed eroine dalle psicologie complesse e tormentate.

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All’inizio del XX secolo nuove correnti scientifiche e filosofiche mettono in discussione le certezze precedentemente acquisite. La teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955) infrange i confini della fisica classica riconsiderando le nozioni di spazio e tempo, mentre la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) si concentra sui meccanismi dell’inconscio, indagando il ruolo degli istinti nella psiche.

Molti autori enfatizzano la dimensione memoriale, nella convinzione che ciò che accade dentro di noi sia più importante di ciò che accade nel mondo: il francese Marcel Proust (1871-1922), in una pagina del suo ciclo di romanzi dal titolo Alla ricerca del tempo perduto, descrive come il sapore di una madeleine imbevuta nel tè lo invada di un «delizioso piacere», che gli riporta alla mente il ricordo dei giorni lontani in cui, da bambino, lo stesso dolcetto al burro gli veniva offerto da una zia.

L’irlandese James Joyce (1882-1941), nell’Ulisse, dà voce invece ai processi mentali che agitano l’esistenza di un uomo qualunque, Leopold Bloom: grazie alla tecnica del flusso di coscienza, lo scrittore porta sulla pagina libere associazioni di pensieri, mescolando alte riflessioni a stupidaggini che per un attimo balenano nella mente di chiunque.

I due maestri della narrativa d’introspezione italiana sono il siciliano Luigi Pirandello (1867-1936) e il triestino Italo Svevo (1861-1928). Pirandello in novelle e romanzi (come Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila) mette in scena la crisi di identità e la dissociazione dell’io contemporaneo, indagando il contrasto fra le più intime aspirazioni dell’individuo e le ipocrite costrizioni della vita sociale, che conducono all’infelicità o persino alla follia. Svevo è autore di un romanzo psicologico di eccezionale profondità, La coscienza di Zeno, nel quale si compone l’autobiografia di Zeno Cosini, un “inetto”, un inadatto alla vita: indotto a scrivere per seguire la prescrizione di uno psicanalista, Zeno recupera i traumi che hanno segnato la sua esistenza.

Dal medesimo punto d’avvio di Svevo, ovvero la terapia psicanalitica, muove Il male oscuro ( T3, pp. 500) di Giuseppe Berto (1914-1978), romanzo fortemente autobiografico in cui lo scrittore veneto ragiona sulla «lotta col padre» che gli ha avvelenato l’esistenza.

Identità incerte

Un mondo popolato di maschere grottesche e inquietanti, teschi, demoni, fantocci in una caleidoscopica moltiplicazione d’identità… ecco la visione dell’umanità del pittore belga James Ensor (1860-1949).

Verifica delle conoscenze

1. La narrativa d’introspezione è sempre esistita o è un’invenzione moderna?
2. Che cosa differenzia diario e autobiografia?
3. Come viene spesso percepita l’infanzia nelle autobiografie?
4. Chi può scrivere un’autobiografia?
5. Quali sono le caratteristiche di un romanzo psicologico?
6. L’autobiografia si fonda su una triplice identità. Spiega questa affermazione.
7. Quando si sviluppa la crisi dell’io?
8. Chi sono i maestri italiani della narrativa d’introspezione?

La dolce fiamma - volume A
La dolce fiamma - volume A
Narrativa