T3 - ANALISI ATTIVA - Leonardo Sciascia, Una classe di poveri
analisi attiva
T3
Leonardo Sciascia
Una classe di poveri
- Tratto da Le parrocchie di Regalpetra, 1956
- cronaca saggistico-narrativa
In prossimità dell’estate, il maestro Sciascia si aggira pensieroso nell’aula in cui trenta ragazzi scribacchiano di malavoglia i loro esercizi. Ogni giorno, dice, entra a scuola con lo stesso animo con cui uno zolfataro entra in miniera. Non ama il suo mestiere, perché non riesce ad accettare le tante miserie con cui ogni giorno deve fare i conti. La povertà degli scolari lo costringe a riflettere sul suo ruolo.
Audiolettura
Io li incontro per strada, i miei alunni, mentre gridando domandano chi ha
le uova da vendere, li vedo intorno alle fontane che litigano e bestemmiano
aspettando il loro turno per riempire le grandi brocche di creta1 rossa, in giro
per le botteghe. Poi li ritrovo dentro i banchi, chini sul libro o sul quaderno a
5 fingere attenzione, a leggere come balbuzienti. E capisco benissimo che non
abbiano voglia di apprender niente, solo di giocare, di far vibrare lamette2 e
fare conigli di carta, di far del male e di bestemmiare e ingiuriarsi. Prima di
cominciare a spiegare una lezione debbo anzi superare un certo impaccio, il
disagio di chi viene a trovarsi di fronte a persona contro cui ordiamo3 qualcosa,
10 e quella non sa, e magari sta credendo in noi. Leggo loro una poesia, cerco in
me le parole più chiare, ma basta che veramente li guardi, che veramente li
veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato,
in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro arruffati
pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco
15 luminosa4 della poesia. Uno di loro è stato cacciato via dal servizio5 perché pisciava
nell’acqua che i padroni bevevano; un altro ha rubato un migliaio di lire
a una vicina di casa; e tutti son capaci di rubare, di sputare nel cibo degli altri,
di pisciare sulle buone cose che toccano agli altri. E sento indicibile disagio e
pena a stare di fronte a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata,6 le
20 mie armoniose giornate.
Un tempo ogni classe aveva il suo banco degli asini, un limbo7 dove fin dai
primi giorni di scuola venivano respinti gli irredimibili,8 stralunati ragazzi dalla
testa a pera, restavano per tutto l’anno in quell’ultimo banco, come non ci
fossero. Di tanto in tanto il maestro, per ironico scrupolo, li chiamava a ripetere
25 una lezione, a svolgere sulla lavagna un esercizio; non si alzavano nemmeno,
reprimendo uno sbadiglio dicevano «Non mi fido», cioè non mi fido a farlo,
credo di non spuntarcela. C’erano ancora quando io frequentavo le elementari,
e ancora ci sono nelle classi dei maestri più anziani. Ma i regolamenti li proibiscono
e qualche direttore ha pensato fosse pedagogicamente più ▶ ortodosso9
30 istituire le classi degli asini, una classe di ragazzi tutti allo stesso livello mentale
e nozionale. È facile formarle: basta, per ogni gruppo di classi, formarne una di
ripetenti. Coloro che vengono respinti
a ripetere una classe sono di solito irrecuperabili,
assolutamente irriducibili
35 alla sia pure vaga disciplina dello
studio, se no davvero i maestri non li
boccerebbero.
A me, non so se perché il direttore
confida nelle mie positive qualità o,
40 al contrario, perché mi ritiene affatto
sprovveduto,10 tocca di solito una
classe di ripetenti. Se mi ritiene capace
di risollevare le condizioni della
classe, il direttore si illude di certo,
45 come si illuderebbe su chiunque altro,
nessuno essendo capace di un miracolo simile; se invece intende dare un
calcio alla classe, mandarla al diavolo, e me con la classe, bisogna riconoscere
che concretamente capisce le cose della scuola.
Io svolgo il programma come si trattasse di una classe normale, ce ne sono
50 due tre quattro al massimo, che mi seguono. Da sei anni, da quando ho incominciato
a insegnare, mi pare di avere sempre la stessa classe, gli stessi ragazzi.
Il fatto più vero, di là dalle scolastiche valutazioni, è che non una classe di
asini o di ripetenti mi tocca ogni anno, ma una classe di poveri, la parte più
povera della popolazione scolastica, di una povertà stagnante11 e disperata. I
55 più poveri di un paese povero. Quelli dei paesi vicini lo chiamano il paese del
sale,12 la campagna intorno è tarlata di gallerie13 che inseguono il sale, il sale
si ammucchia candido e splendente alla stazione, sale, nebbia e miseria; il sale
sulla piaga, rossa ulcera14 di miseria. E io me ne sto tra questi ragazzi poveri,
in questa classe degli asini che sono sempre i poveri, da secoli al banco degli
60 asini, stralunati di fatica e di fame.
Vengono a scuola, i ragazzi, dopo che la famiglia riceve la cartolina di precettazione15
con citati gli articoli di legge e ricordata la multa: la posta non porta
loro che di queste cartoline, per andare a scuola per il servizio di leva per il
richiamo16 per la tassa. Spesso la cartolina non basta, il direttore trasmette gli
65 elenchi degli inadempienti all’obbligo scolastico al maresciallo dei carabinieri; il
maresciallo manda in giro l’appuntato, a minacciare galera e – io vi porto dentro
– i padri si rassegnano a mandare a scuola i ragazzi. C’era un maresciallo che
questo servizio lo aveva a cuore, mandava a chiamare i padri e sbatteva in camera
di sicurezza,17 per una notte che avrebbe portato consiglio, quelli che più resistevano.
70 E allora a me maestro, pagato dallo Stato che paga anche il maresciallo
dei carabinieri, veniva voglia di mettermi dalla parte di quelli che non volevano
mandare a scuola i figli, di consigliarli a resistere, a sfuggire all’obbligo. La
pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino ai quattordici anni; come se i
ragazzi cominciassero a mangiare soltanto dopo, e mangerebbero le pietre dalla
75 fame che hanno, e d’inverno hanno le ossa piene di freddo, i piedi nell’acqua.18
Io parlo loro di quel che produce l’America, e loro hanno freddo, hanno fame;
e io dico del Risorgimento e loro hanno fame, aspettano l’ora della refezione,19
giocano per ingannare il tempo, e magari pizzicando le lamette dimenticano la
fatica del servizio, le scale da salire con le brocche dell’acqua, i piatti da lavare.
Leonardo Sciascia, Opere. 1956-1971, Bompiani, Milano 2001
Come continua
A tu per tu con il testo
Per gli scolari di Sciascia, la fame a scuola non è quella che ti prende a metà mattina, in vista della ricreazione. È la fame di chi a casa non mangia abbastanza e ogni giorno spera di essere fra i pochi che avranno accesso alla mensa. Fino alla metà del Novecento, nelle zone più disagiate dell’Italia, l’alimentazione era ancora un problema. Le case, poi, non erano certo confortevoli e ben riscaldate. Che un ragazzo della tua età lavorasse, era normale: capitava già ai bambini delle elementari, costretti a pulire le case dei signori o a pascolare le bestie. Per troppe famiglie povere la scuola non era la soluzione, ma un problema. Oggi le cose sono cambiate, ma la piaga del lavoro minorile non è ancora completamente debellata. Si calcola che nel nostro paese riguardi ancora un ragazzo su venti nella fascia fra i sette e i quindici anni. Non si tratta soltanto di chi dà una mano nell’attività di famiglia. In sottoscala e capannoni migliaia di ragazzini – spesso immigrati di recente – in questo momento fabbricano palloni da calcio o cuciono abiti, fuori da ogni regola, per una paga miserabile, come fanno milioni di loro coetanei in Asia, Africa e Sudamerica.
Analisi ATTIVA
1. Individua i passi in cui il maestro Sciascia esprime il proprio imbarazzo davanti alla classe.
2. Il maestro Sciascia si sente a disagio di fronte ai propri studenti perché
- a gli studenti non sono in grado di capirlo.
- b gli studenti sono sporchi e maleducati.
- c si sente un privilegiato in confronto a loro.
- d sa che comunque non impareranno nulla.
3. Quale lavoro svolgono molti degli alunni di Sciascia?
- a I fattorini.
- b I servitori nelle botteghe o nelle case.
- c I braccianti.
- d I minatori.
4. Da chi è composta la classe degli asini (r. 59)?
- a Da ragazzi stupidi.
- b Da ragazzi svogliati.
- c Da ragazzi diversamente abili.
- d Da ragazzi ripetenti.
5. Perché Sciascia, descrivendo la realtà dei suoi alunni, parla di miseria e rancore (r. 13)?
- a Perché a causa della loro povertà i ragazzi provano rancore nei confronti della scuola.
- b Perché essi provano rancore nei confronti di chi è povero.
- c Perché essi vivono la propria condizione di povertà come un’ingiustizia.
- d Perché il maestro prova rancore nei confronti della loro povertà.
Come si manifestano queste due condizioni?
La posta porta soltanto brutte notizie, elencate una dopo l’altra senza virgole, come una scarica che si abbatte sui racalmutesi, i quali si vedono recapitare cartoline per andare a scuola per il servizio di leva per il richiamo per la tassa (rr. 63-64). Ma spesso la cartolina non basta, e occorre un intervento personale del maresciallo dei carabinieri perché i genitori si decidano a inviare a scuola i figli. Di fronte a dei padri di famiglia mandati in prigione, il maestro è tentato di mettersi dalla loro parte. Si chiede che cosa farebbe, se fosse nei loro panni. Che è poi la domanda che tutti dovremmo porci, di fronte ai drammi della miseria: non per giustificare, ma per capire.
Mandare a scuola i ragazzi, in queste condizioni, è a suo giudizio come sequestrarli. La pubblica istruzione, che il maestro rappresenta, è Obbligatoria e gratuita, fino ai quattordici anni (r. 73), ma i ragazzi hanno fame già prima, e freddo. Le nozioni sull’industria americana, o sulla storia del Risorgimento, non li nutrono né li scaldano. Come rimproverarli se in aula si distraggono e non seguono la lezione? Per questo egli decide di stare dalla parte dei vinti: non ama la scuola, ma ama i suoi alunni, anche se non studiano, anche se non si sognano neppure di affezionarsi a lui.
6. Per quali motivi gli studenti descritti da Sciascia quando sono a scuola non hanno voglia di imparare, ma solo di giocare e litigare tra loro? (sono possibili più risposte)
- a Perché sono maleducati e non ascoltano il maestro.
- b Perché sono affamati e ingannano il tempo nell’attesa del pranzo.
- c Perché hanno bisogno di distrarsi dopo le ore di lavoro.
- d Perché il maestro non è in grado di coinvolgerli.
- e Perché vengono a scuola solo per incontrare i propri amici.
7. Anche se non in modo esplicito, a chi viene attribuita, da Sciascia, la responsabilità di questo stato di cose?
- a Alle famiglie.
- b Ai ragazzi.
- c Ai carabinieri.
- d Allo Stato.
Laboratorio sul testo
COMPETENZE LINGUISTICHE
8. Coordinazione e subordinazione. Riconosci la funzione del che nelle frasi seguenti.
Congiunzione | Pronome relativo soggetto
|
Pronome relativo c. oggetto | |
a) li vedo intorno alle fontane che litigano e bestemmiano |
|||
b) E capisco benissimo che non abbiano voglia di apprender niente |
|||
c) basta che veramente li guardi |
|||
d) Uno di loro è stato cacciato via dal servizio perché pisciava nell’acqua che i padroni bevevano |
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e) Coloro che vengono respinti a ripetere una classe sono di solito irrecuperabili |
|||
f) bisogna riconoscere che concretamente capisce le cose della scuola. |
|||
g) la campagna intorno è tarlata di gallerie che inseguono il sale |
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h) me ne sto tra questi ragazzi poveri, in questa classe degli asini che sono sempre i poveri |
|||
i) e mangerebbero le pietre dalla fame che hanno |
PRODURRE
9. Scrivere per ARGOMENTARE Nel 1967 il libro Lettera a una professoressa (▶ Se ti è piaciuto…, Insegnare agli ultimi, p. 412) lanciò una durissima accusa alla scuola italiana, colpevole di bocciare soprattutto i ragazzi appartenenti alle classi sociali più povere e disagiate. Nel volume viene proposta una riforma radicale della scuola, allo scopo di renderla davvero inclusiva:
«Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme:
I – Non bocciare.
II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.
III – Agli svogliati basta dargli uno scopo».
Scegli una delle tre proposte dei “ragazzi di Barbiana” e discutila, motivando la tua posizione in proposito (massimo 20 righe).
SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare
educazione civica
Leggi l’articolo 33 della Costituzione italiana, quello che sancisce il diritto allo studio, e discutilo in classe: ti sembra che i princìpi in esso espressi siano effettivamente realizzati? Come? Che cosa dovrebbe fare lo Stato per renderli davvero operativi? Stila un elenco di proposte e prepara una presentazione orale di circa cinque minuti.
Se ti è piaciuto
Insegnare agli ultimi
Negli anni in cui Sciascia raccontava la difficile vita dei suoi alunni, Maria Giacobbe (n. 1928) compiva la stessa operazione in Sardegna, testimoniando nel Diario di una maestrina (1957) le difficoltà nel fronteggiare la mentalità arcaica di comunità che faticavano a vedere nella scuola un mezzo per uscire dalla povertà. Emigrazione e banditismo erano soluzioni più immediate rispetto a quelle promesse dall’istruzione.
Dieci anni più tardi, nel 1967, alla vigilia di una stagione di grandi cambiamenti sociali, un gruppo di ex alunni di don Lorenzo Milani (1923-1967), che aveva impiantato una scuola popolare a Barbiana, nella campagna fiorentina, scrisse Lettera a una professoressa, nella quale si esprimeva un giudizio durissimo sulle modalità dell’insegnamento in Italia, considerato classista e incapace di stimolare l’interesse. Sin dalla prima frase – «La scuola dell’obbligo non può bocciare» – le tesi del libro suscitarono accese discussioni, che durano tuttora.
Lo scrittore che di recente si è confrontato più intensamente con l’insegnamento di don Milani è Eraldo Affinati (n. 1956), che al sacerdote toscano ha dedicato un appassionato volume, L’uomo del futuro (2016), in cui torna nei luoghi in cui visse, nel tentativo di capire che cosa sia rimasto oggi della sua lezione. Una risposta personale alla domanda Affinati l’ha data nei suoi libri precedenti, e in particolare nella Città dei ragazzi (2008), dove narra di un viaggio in Marocco insieme a due allievi di una comunità nella quale insegna, alla ricerca delle loro radici.
La dolce fiamma - volume A
Narrativa