Del padre della letteratura italiana, Dante Alighieri, non possediamo alcun documento autografo: non una terzina della Divina Commedia, non una riga dalle altre opere, non una lettera, e nemmeno una semplice firma. D’altra parte ci sono giunti dal XIV secolo centinaia di manoscritti che tramandano il suo capolavoro, copiato da anonimi lavoranti ma anche da maestri come Giovanni Boccaccio, che per tutta la vita professò un devoto culto nei confronti del poeta fiorentino, al quale dedicò anche una biografia, il Trattatello in laude di Dante.
Oltre che autore del Decameron, Boccaccio in effetti fu uno studioso di primo piano, al pari di Petrarca, cui era legato da un solido affetto. Tanto che quest’ultimo, con un gesto commovente, nel suo testamento lasciò all’amico «cinquanta fiorini d’oro per una veste da indossare nelle ore di studio e di meditazione nelle notti di inverno». In quelle notti, così come di giorno, Boccaccio leggeva con passione indomabile, costellando i margini dei libri di disegni, manine con l’indice puntato verso un brano significativo, commenti a volte risentiti: come le maledizioni rivolte a Marziale, poeta latino che riteneva troppo pepato.