COME ANALIZZARE - Goffredo Parise, Amicizia

come analizzare

Goffredo Parise

(Vicenza 1929-Treviso 1986)

Amicizia

  • Tratto da Sillabari, 1984
  • racconto

Dieci giovani, uomini e donne, trascorrono una vacanza sulla neve: è l’occasione per intrecciare una speciale amicizia che si manterrà negli anni. La voce narrante li segue uno a uno e annota, di volta in volta, i loro cambiamenti personali, i mutamenti delle loro emozioni, l’evoluzione dei loro rapporti.

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Audiolettura

Un giorno di fine inverno in montagna un gruppo
di persone che si conoscevano poco e si erano trovate
per caso su una vetta gelida e piena di vento
decisero di fare con gli sci una pista molto lunga

5      e solitaria che portava a una valle lontana. Erano
dieci, per una coincidenza felice nessuno di loro era
veramente “adulto”, anzi, erano tutti più o meno timidi
e questo li rese subito fiduciosi uno dell’altro.

Le dieci persone erano: Gioia, una donna con

10    dolci occhi ebraici, pieni di qualcosa di antico e
religioso che era il senso della famiglia. Carlo,
marito di Gioia, alto e biondo con lineamenti quadrati
e occhi quasi bianchi un poco fantascientifici.
Adriana, alta e buona, un pochino ansiosa

15    di essere sempre buona, ma non in anticipo né in
ritardo. Mario, marito di Adriana, con molte fragilità
vaganti negli arti e nel volto, ma con una testa
rotonda piena di bisogno di affetto che riscattava
tutto. Guido, il meno “adulto”, che sciava senza

20    “stile”1 dicendo ai dirupi: “Io ti batto”, e li batteva;
perché lì vicino c’era Silvia, una ragazza-donna
dai tratti mongoli, la erre moscia, che egli amava
(e contemplava) da molti anni, di una bellezza
così grande che ogni persona guardata da lei

25    sorridente si sentiva caduca2 e mortale. Silvia però
(senza la presenza di Silvia i dieci non si sarebbero
mai trovati insieme per caso) amava: Filippo, un
uomo che somigliava ad Achille ma anche a Patroclo3,
perché “umano”, aveva dedicato la sua vita

30    a Silvia. L’ottavo era: Dabcevich (basta così). Poi
Pupa, la più sconosciuta di tutti, che abitava molti
mesi in montagna, aveva occhi gialli con piccole e
grandi macchie nere come il sole e sciava in modo
volante e pieno di silenzio, due cose forse sviluppate

35    in quei luoghi durante la sua infanzia per vivere
e difendersi nella neve come gli scoiattoli e le
lepri. E infine un altro uomo che sapeva fare una
cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari
(sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo, sperando

40    e studiando il modo, senza che nessuno se
ne accorgesse, che tutte queste persone fossero in
armonia tra di loro.

Partirono uno dopo l’altro dalla vetta, tra spinte
di vento e neve, tutti, salvo Pupa e forse Guido

45    che era “incosciente”,4 con un po’ di paura perché
il primo tratto che dovevano percorrere in quel
freddo era cosparso di sassi che affioravano e la
neve così sottile aumentava la velocità proprio
vicino al punto in cui c’era un burrone e si dovevano

50    fermare. Si ritrovarono in quel punto senza
quasi vedersi ma Silvia aveva visto che l’uomo n.
10, l’ultimo, era senza berretto: sfilò dal collo il
suo yachting club (grande foulard di seta blu con
bandierine di tutti i paesi) e glielo diede. Questi

55    avvolse la testa nel foulard come i pirati e si
avviò per primo (tale era stato il benvolere della
dea) nella immensa valle bianca in lieve declivio
tra gli altissimi monti, che era la seconda parte
della discesa. Qui il vento cessò di colpo, e anche

60    il freddo, la velocità divenne alta perché gli
sci affondavano nella neve fresca dando sicurezza
e il sole illuminava tutti in viso in modo così
forte che ognuno provò il sentimento di questa
bellezza. Pupa si bilanciava sulle braccia aperte in

65    lunghi kristiania5 di una traccia sola (e unica per
sempre) che il destino impedì agli altri di seguire:
Gioia disse sottovoce a Mario che scendeva al suo
fianco: “Come è bello, vero Mario?” e Mario provò
per questa frase a lui diretta un attimo di riconoscenza

70    che lei aveva previsto; Silvia si rannicchiò
“a uovo”6 per acquistare velocità (questioni di resistenza
all’aria) e così facendo sorrise a se stessa
con molto affetto e ironia, Filippo tracciò una sua
personale e velocissima scia senza voler competere

75    con Pupa, tutti stavano zitti o parlavano piano,
solo Dabcevich, altissimo e stralunato,7 commise
un eccesso slavo, o austriaco, o russo, gridò: “Sublime,
sublime!” con cui si conquistò per sempre
la simpatia di tutti, poi “sublime” si perdette nelle

80    grandi arie dei monti e non si udì più nulla. Insomma
erano tutti molto felici, in modo così bello da
attribuire la ragione di questo sentimento non soltanto
alle montagne color rosa, alla neve e al sole
ma soprattutto ai propri simili che in quel momento

85    (un momento molto importante della loro vita)
erano i dieci puntini colorati nella valle.

La terza parte della discesa presentò “notevoli
difficoltà”: c’era un passaggio obbligato che dava
su un’apparente voragine, in ombra, perciò gelato,

90    che finiva in una vasta conca di nuovo al sole, con
una piccola baita. Avendo coraggio si sarebbe potuto
scendere senza paura dritti sul ghiaccio, curvare
al sole dove la neve è molle ma a forte velocità,
e poi ancora dritti nella neve fresca fino alla porta

95    della baita. Le donne, salvo Pupa, non l’ebbero, gli
uomini, pochi (Guido, non si sa come, era già arrivato
in fondo), Silvia si fermò chiamando aiuto, accorse
Filippo ma lei pianse, batté i piedi (con gli sci)
e non volle scendere; l’uomo con foulard scivolò in

100  una piccola valle ignota tra neve vergine,8 capitombolò
due volte senza riuscire a fermarsi e pensando
al destino, infatti si fermò contro un cespuglio, vide
due scoiattoli neri tutti raspanti e pieni di paura e
rimase un po’ solo a riposare e a pensare. Ma tutto

105  andò bene e quando arrivò alla baita dove Filippo
voleva organizzare una spedizione di soccorso, Silvia
sorrideva con gli occhi ancora pieni di lacrime.

Il quarto tratto era una stradina sulla costa del
monte, facile, con angoli in cui si scompariva alla

110  vista e dove l’uomo con foulard si fece trovare da
Guido, per scherzo, abbracciato a Silvia. Guido
passò e disse: “Spiritosi!”. Adriana perdette uno
sci, e parve una cosa molto seria all’inizio, poi fu
ritrovato da Filippo. Pupa, sempre prima, aspettava

115  appoggiata ai bastoncini, ravviandosi i capelli con
una forcina in bocca.
Il quinto tratto era una discesa ripida, un po’ in
ombra, anche semplice ma le caviglie di tutti erano
ormai un po’ stanche e ci fu qualche caduta, niente

120  di grave. Carlo però disse a Guido e all’uomo con
foulard: “seguimi, segui le mie code”, oppure: “ecco,
gira qui dove giro io”, ma con pochissima vanità,
cioè con più affetto che vanità e intanto gli altri
erano già in fondo alla valle dentro un bosco di giovani

125  larici. Qui dovettero camminare, spingere con
le racchette, accaldarsi, svestirsi un poco alla volta.
Silvia sfilò il suo berretto bianco di lana di pecora
con grande pon-pon,9 i capelli caddero sulle sue
spalle e in quell’istante entrarono in rifugio dove

130  mangiarono uova, prosciutto, pane con granellini
di kümmel,10 bevvero vino di una cantina di frati,
spedirono cartoline, fumarono, uscirono, presero
due tassì e il sole calò. Sorse la luna bianca come la
neve nel cielo che diventò subito nero come la pece

135  e tornarono a casa, stanchi.

L’anno dopo i dieci amici (erano diventati amici)
si ritrovarono sulla stessa vetta, non per caso,
e discesero lungo la stessa pista. A dire il vero non
erano tutti e dieci, mancava Dabcevich, e questo dispiacque

140  un po’ a tutti, qualcuno dubitò dentro di
sé che la sua assenza avrebbe provocato un vuoto
non grandissimo ma che avrebbe potuto diventare
tale se altri anche piccoli vuoti si fossero formati
nella imprevedibile armonia dell’insieme: ma questo

145  non avvenne perché giunti al secondo tratto
della discesa qualcuno gridò: “Sublime”. Altri ancora
dubitavano, perché le cose felici non si ripetono
(e invece si ripetono e non si ripetono, non c’è una
regola); è vero, c’era qualche differenza, non ci fu

150  bufera all’inizio, il terzo tratto della pista non era
più così pericoloso, l’uomo in foulard aveva un berretto
(d’altra parte non c’era più il foulard), però
si fermarono nella prima baita a bere un vin brûlé11
che l’anno prima non avevano bevuto, si scaldarono

155  al sole che era molto più forte, si scambiarono
una crema che sapeva12 odore ma non sapore, purtroppo,
di zucchero orzo13 e soprattutto uno disse
a Silvia, in disparte:
“Silvia, prima ti ho guardato, hai qualcosa di

160  diverso, cioè sei più bella ma diversa dall’anno
scorso”.

“Che cosa ho?”.
“Mah!”.
“Dimmelo subito. Che cosa?”.

165  “Hai qualcosa, è vero o no?”.
“È vero”.
“E che cosa?”.
“Non lo so, ma è vero”.
Due anni dopo Pupa e l’uomo che chiameremo

170  “in foulard” discesero la stessa pista in una bufera
di vento. I sassi spuntavano dappertutto, la pista
era sepolta dalla neve, dovettero scendere “a gradini”14     
una parte del primo tratto (non Pupa, l’altro,
e Pupa lo guardava con apprensione) coprendosi

175  la faccia con le mani per le lamelle di ghiaccio
che soffiavano a molti chilometro all’ora, poi tutto
si placò come la prima volta, nel secondo tratto
all’apparire della valle serena: il vento scomparve
e le nubi, mutevoli come Silvia, si dispersero chissà

180  dove lasciando il cielo azzurro.
Anni dopo si ritrovarono ancora in quel tratto di
monte e di valle che li aveva resi così felici la prima
volta. Poi smisero di ritrovarsi in quei luoghi, passarono
anni restando sempre amici e lasciando che

185  altri prendessero il loro posto.


Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2011

La dolce fiamma - volume A
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Narrativa