Lo psicologo britannico di origine polacca
Henri Tajfel (1919-1982) sottolinea come i gruppi (classe sociale, famiglia, squadra di calcio e così via) a cui le persone appartengono rappresentino un’
importante fonte di orgoglio e autostima. I gruppi, in tal senso, forniscono un senso di identità sociale, ossia un
senso di appartenenza al mondo, allontanando vissuti di isolamento e di solitudine. Migliorare lo status del gruppo a cui si appartiene produce un impatto benefico sull’immagine di sé.
esempio: qualcuno potrebbe ritenere l’Italia come il paese migliore del mondo da un punto di vista culturale; un modo per migliorare l’immagine di sé in tal senso è discriminare il gruppo esterno, quello al quale non apparteniamo, per esempio affermando che gli americani o i tedeschi sono culturalmente ignoranti.
Il mondo ci appare diviso in “loro” e “noi”, non per scelta razionale, ma sulla base di involontari processi di categorizzazione sociale, attraverso i quali collochiamo le persone in gruppi sociali. Viene così a crearsi un ingroup di cui ci sentiamo parte e con cui ci identifichiamo e un outgroup esterno, che riceve spesso proiezioni negative. Secondo la teoria dell’identità sociale di Tajfel, infatti, l’ingroup tenderà a discriminare l’outgroup per migliorare la propria immagine di sé.
Lo stereotipo, ossia il collocamento delle persone in gruppi e categorie, si basa su un normale processo cognitivo: la tendenza a raggruppare le cose. Nel fare ciò si tende a esagerare le differenze tra i gruppi e le somiglianze nello stesso gruppo.
Allo stesso modo, classifichiamo le persone. Vediamo il gruppo a cui apparteniamo (l’ingroup) come diverso dagli altri (l’outgroup), e i membri dello stesso gruppo come più simili tra loro.
Lo psicologo britannico John C. Turner (1947-2011) sostiene che quando ci sentiamo parte di un gruppo e ci sentiamo molto identificati in esso abbiamo la percezione di assomigliare agli altri membri, in un processo che definisce di depersonalizzazione.