T1 - Aristide Gabelli, Formare lo «strumento testa» per il bene del popolo e della nazione

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Aristide Gabelli

Formare lo «strumento testa» per il bene del popolo e della nazione

In occasione dell’XI Congresso pedagogico italiano, tenutosi a Roma nel 1880, Gabelli presenta una relazione che viene poi pubblicata con il titolo Il metodo di insegnamento. Nel testo egli offre la sua visione della scuola italiana e dell’educazione, sottolineando come la nuova Italia unita abbia bisogno di una scuola in grado di formare le menti, di preparare cioè le nuove generazioni ad affrontare le sfide della società contemporanea attraverso l’attitudine al pensiero critico e autonomo.

Avvertiamo però che non si pretende di preparar la gente a fare delle scoperte, ma di avvezzarla a osservare i fatti, in luogo di giudicarne senza esame, campando di fantasia e a trarre da tutto quello che cade sotto i sensi occasione di esperienza e materia di ammaestramento, formando così quel prezioso strumento testa, senza del quale l’uomo rimane per tutta la vita e in tutte le cose sue una barca senza timone, una cannuccia che il vento piega ora in qua, ora in là. Ora questo strumento abbisogna al popolo, non meno che a tutti gli altri, e il modo di assuefarlo a servirsene rettamente, nella cerchia de’ suoi uffici e delle sue operazioni, non può differire da quello di abituare a fare altrettanto le classi più fortunate, come il modo di avvezzar a camminare un bambino povero non differisce da quello in cui vi si avvezza un bambino ricco1. […]

In un tempo come il nostro, in cui le ferrovie, i telegrafi, i giornali portano in ogni luogo, mettendo, per così dire, in comune il pensiero di tutti, l’unica difesa che resti alla società contro ciò che vi si mescola di esagerato e di falso, sta nel procacciare a quanti più è possibile il solo strumento che serva a saggiarlo. A questo però non si riesce con una istruzione monca o materiale, perché, quando s’è insegnato a considerare le cose leggermente o confusamente nella prima età, è poi difficile di avvezzare a far meglio in quella che le succede, appunto come difficilmente si avvezzerebbe ad andare diritto un uomo che per tutti gli anni della sua fanciullezza fosse stato costretto a camminar gobbo2. C’è e ci deve essere fra le diverse età una differenza grandissima nella quantità e nella qualità delle cognizioni che si somministrano: ma quanto al modo di somministrarle, non c’è un modo di pensar bene per i fanciulli e un altro per gli adulti. La vita è un libro, si sa, sterminato, del quale ognuno legge quel tanto che può; ma l’importante è di avviare a leggervi, affinché ognuno, appresi i principi di quest’arte tanto difficile, l’adoperi, continuando la lettura da sé, quando non avrà più maestri3.

Quest’intento dell’istruzione è generale o umano. Si vogliono innanzi tutto per mezzo delle scuole formar uomini di testa chiara, e quanto a questo non vi può essere differenza da un paese a un altro. […] Ma oltre a questo le scuole devono avere un intento nazionale. In altri termini, esse devono servirci a formar uomini come in ogni altro luogo, sviluppando e fortificando tutte le facoltà e tutte le attitudini dalle quali dipende il loro valore, ma per giunta servire fra noi a formare gli italiani4.

Rispondi

1. Che cosa significa per Gabelli formare «lo strumento testa»?

2. Perché sostiene che « questo strumento abbisogna al popolo» tanto quanto alle «classi più fortunate»?

3. Quale compito assegna alla scuola?

 >> pagina 401

|⇒ T2  Matilde Serao

«Le vie dolorose delle maestre»

La scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927) documenta, in tre articoli apparsi nel luglio 1886 nel periodico magistrale “L’Istitutore”, le condizioni di disperazione e miseria in cui vivono le maestre di scuola dell’Italia post-unitaria. Nel passo che segue, in cui la Serao si rivolge al ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino, rende ragione del titolo assegnato ai suoi articoli: Le vie dolorose delle maestre.

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha fatto una inchiesta amministrativa sul caso della povera maestra Italia Donati, che si è suicidata a Cecina. Ed è risultato: che la maestra era innocente di tutte le accuse vituperevoli che si facevano: che ella aveva opposta la più fiera resistenza ai tentativi di seduzione del sindaco: che la guerra sleale e vigliacca le fu fatta appunto per questa sua fierezza: che non aveva mai chiesto aiuto, in via burocratica, all’ispettore scolastico. Ora si procede a più minute ricerche; e se è possibile, ma pare assai difficile, si potrà punire in qualche modo, materiale o morale, il colpevole.

Intanto, Italia Donati è morta: a venti anni, morta di amarezza, morta di dolore1.

La giustizia che viene a redimerne la riputazione, a proclamarne la virtù, arriva praticamente tardi. Non ridaranno la vita a quel corpo di giovanetta uccisa né le inchieste, né le sottoscrizioni, né le punizioni dei calunniatori.

Onorevole Coppino, provvedete al decoro della morta e farete un’opera di giustizia: ma pensate alle vive e farete un’opera di carità2.

Poiché la via dell’insegnamento primario, in città o nei comuni rurali, è una delle più dolorose che mai fibra femminile debba percorrere. Qui non voglio fare della lirica, non della rettorica: qui narro fatti e dico nomi: qui parlo di una esistenza che in parte ho fatta anche io, e che ho conosciuta profondamente, nei suoi più intimi particolari. Quelle che si mettono a questo duro lavoro, non ne conoscono la durezza e, quando vi sono dentro, provano una delusione amarissima, senza poterne più uscire: o sanno la estensione del sacrificio che vanno a compiere, e con un tranquillo e umile coraggio lo affrontano.

È la necessità che le sospinge alle spalle, è un chiuso avvenire, di miseria, di fame e di disonore che le sgomenta e al quale preferiscono una lunga esistenza di tormentoso e malpagato lavoro. Quando si parla a una giovane alunna delle scuole normali di quello che l’aspetta, quando avrà il diploma e avrà fatto il concorso, ella resta pensosa, una malinconia grande le si diffonde sul volto: ma scrolla le spalle, è rassegnata, queste creature hanno già troppo il senso della vita, sanno troppo che è l’esistenza, per non mettersi, con pazienza, per una via dolorosa3.

Rispondi

1. Chi è Ilaria Donati e perché Matilde Serao ne parla nel suo articolo?

2. Che tipo di esortazione muove Serao al ministro Coppino?

3. Perché la giornalista adotta l’espressione «vie dolorose» per descrivere il destino delle maestre?

I colori della Pedagogia - volume 2
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