Il diritto allo studio e i nuovi analfabeti
Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali e inalienabili della persona sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che all’art. 26 recita:
Ognuno ha diritto ad un’istruzione. L’istruzione dovrebbe essere gratuita, almeno a livelli elementari e fondamentali. L’istruzione elementare dovrebbe essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e quella professionale dovrebbero essere generalmente fruibili, così come un’istruzione superiore dovrebbe essere accessibile sulla base del merito.
Molti paesi hanno recepito questi principi nelle proprie costituzioni e tra questi vi è anche l’Italia. L’art. 34 della Costituzione italiana, infatti, stabilisce che:
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Per la Costituzione italiana lo studio è anche un dovere (art. 33) e questo obbligo, attualmente, si estende dai 6 ai 16 anni, un traguardo raggiunto dopo una lunga battaglia, iniziata agli esordi dello Stato unitario, per combattere l’analfabetismo.
Nel 1861, infatti, gli analfabeti in Italia toccavano una media pari al 78%, con punte anche superiori al 90% nel Sud della penisola. Nel secondo dopoguerra, a distanza di un secolo, l’analfabetismo vero e proprio in Italia riguardava il 30% dei cittadini, una percentuale che è diminuita considerevolmente con l’estensione dell’istruzione scolastica, tanto che oggi secondo il Rapporto delle Nazioni Unite del 2013 l’Italia ha un tasso di alfabetizzazione del 99,2%.
L’analfabetismo funzionale
Ciò che preoccupa oggi non è l’analfabetismo strumentale, proprio di coloro che non sanno leggere e scrivere, quanto l’analfabetismo funzionale, nuova emergenza della società contemporanea.
Secondo la definizione fornita dall’Unesco nel 1978 una persona è alfabeta funzionale quando «può essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento del suo gruppo e della sua comunità». Ne deriva che l’analfabetismo funzionale interessa quelle persone che, sebbene scolarizzate, non sono capaci di decifrare i messaggi dell’ambiente circostante e di partecipare in modo attivo alle attività quotidiane della società in cui vivono. Non riescono a comprendere il significato di un articolo di giornale, pur sapendo leggerne il testo, oppure faticano a compilare una domanda di lavoro, a leggere gli orari dell’autobus e a interagire con le nuove tecnologie.
Secondo lo Human development report nel 2009 l’analfabetismo funzionale in Italia interessava il 47% degli individui. Si tratta di un dato allarmante, che colloca l’Italia in quartultima posizione su scala mondiale rispetto ai 33 paesi presi in considerazione dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nell’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). Secondo il noto linguista Tullio de Mauro la percentuale degli analfabeti funzionali sarebbe ben maggiore e solo il 20% della popolazione italiana sarebbe in grado di orientarsi positivamente nella realtà contemporanea.
Spesso il fenomeno dell’analfabetismo funzionale viene legato anche ai social media. Un binomio che è stato sottolineato anche da Umberto Eco nel discorso tenuto in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e cultura dei media, conferitagli nel 2015 dall’università di Torino. Si tratta di un versante del problema molto delicato. In questo caso gli analfabeti funzionali della rete, definiti dal giornalista Enrico Mentana «webeti», sono coloro che, pur non comprendendo le informazioni condivise nei social network, esprimono la loro opinione in modo acritico, generando polveroni e mettendo in circolazione fake news (“false notizie”).