2 - La scuola nel primo quarantennio post-unitario

2. La scuola nel primo quarantennio post-unitario

2.1 L’avvio del sistema scolastico nazionale

Nel difficile compito di modernizzazione della società, il giovane Regno d’Italia doveva affidarsi all’educazione per costruire valori condivisi. Molti intellettuali si adoperarono a questo scopo (anche con la letteratura per l’infanzia ▶ APPROFONDIAMO, p. 389 |) ma, in una nazione dominata dall’analfabetismo, era innanzitutto necessaria la scuola.

All’indomani dell’unità, fu estesa a tutti i territori del Regno d’Italia la legge Casati, che era stata varata nel Regno di Sardegna all’indomani della Seconda guerra d’indipendenza, a seguito della quale la monarchia sabauda annetteva ai propri domini la Lombardia. Nel testo legislativo si possono rintracciare i caratteri originari del sistema scolastico italiano.

La legge Casati

Il regio decreto 13 novembre 1859, n. 3725 – noto come “legge Casati” dal nome del ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna Gabrio Casati – propone un riordino complessivo del sistema scolastico, pensato in vista delle future annessioni territoriali, e presenta alcuni elementi caratterizzanti:

  • la gratuità dell’istruzione pubblica elementare;
  • l’obbligo dell’istruzione per il primo biennio della scuola elementare nel rispetto delle prerogative della famiglia;
  • il potenziamento dell’amministrazione scolastica nazionale, secondo un modello piramidale, che vede al vertice il ministro della Pubblica Istruzione, affiancato dal Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e da tre ispettori generali, uno per ogni ordine scolastico (il rettore per l’università, il provveditore per l’istruzione secondaria, il regio ispettore, gli ispettori di circondario e il Consiglio per le scuole per l’istruzione elementare);
  • la coesistenza dell’insegnamento privato, ma sotto la «sorveglianza» del ministro e dei «suoi ufficiali» (art. 3);
  • la marcata caratterizzazione in senso nazionale dei contenuti d’insegnamento, con una centralità specifica assegnata allo studio della lingua italiana e delle discipline considerate più efficaci per la formazione dello spirito patrio, come la storia e la geografia.

Sul terreno applicativo emergono subito alcuni punti critici del testo legislativo, destinati a pesare per lungo tempo sulla scuola italiana. Tra questi:

  • il ruolo marginale assegnato alla scuola elementare, la cui titolarità è affidata completamente ai comuni, che faticano a sostenere il peso economico dell’istruzione di base;
  • la scarsa rilevanza assegnata alla formazione dei maestri, tanto che le scuole normali, destinate alla preparazione degli insegnanti di scuola elementare, sono considerate nella legge Casati istituzioni di livello primario.
  • la precarietà dello status giuridico-economico dei maestri, di fatto in balìa delle decisioni delle amministrazioni comunali;
  • la scarsa attenzione nei confronti dell’istruzione tecnica e professionale e il netto prevalere della formazione classica, canale formativo della classe dirigente a carico dello Stato;
  • il rigido accentramento governativo del sistema scolastico, che porta ad annullare le specificità delle realtà locali.

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L’istruzione femminile

Il pittore Telemaco Signorini (Firenze 1835-1901) fu un fervente patriota e partecipò alla vivace vita culturale dell’epoca: vicino al positivismo, scelse una pittura aderente alla realtà, impegnata in senso sociale. Fra i maggiori problemi del giovane Regno d’Italia vi era quello dell’analfabetismo: per combatterlo, e rispondere così all’esigenza di creare cittadini consapevoli, fu adottata in un primo momento la legge Casati, poi fu emanata una serie di leggi volte a garantire a tutti, maschi e femmine, un’istruzione pubblica elementare. Signorini in questo quadro mette l’accento sull’importanza dell’istruzione femminile, allora considerata non necessaria, anche per le bambine del ceto popolare.

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approfondiamo  LA NASCITA DELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA

La letteratura per l’infanzia e la gioventù narra e insegna, avvince e veicola modelli di comportamento, precetti e gerarchie di valori. È una letteratura vòlta a dilettare e ad educare nel contempo, anche se non sempre i due piani riescono a fondersi: spesso, infatti, slittano l’uno sull’altro, “inquinandosi” a vicenda.


Queste peculiarità evidenziate da Anna Ascenzi (La letteratura per l’infanzia oggi, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 87) hanno pesato a lungo sulla concezione della letteratura per l’infanzia, che è stata ritenuta fino a tempi relativamente recenti come un genere letterario minore. Negli ultimi decenni, sdoganata da questo pregiudizio, la letteratura per l’infanzia ha preso “il volo”, specializzandosi in diversi sottogeneri e per fasce di età, dando vita a un mercato librario molto fiorente e seguito.

Le origini

Ma quando nasce la letteratura per l’infanzia? Possiamo rintracciare le sue origini nel Settecento, allorquando, sotto la spinta della cultura illuminista, si afferma un’idea nuova d’infanzia, non più concepita come condizione da superare in fretta, ma come fase dello sviluppo dell’uomo con le sue esigenze e peculiarità. In ambito italiano si distingue per la dolcezza e delicatezza della narrazione la raccolta in tre volumi Manoscritto per Teresa, scritta da Pietro Verri nel 1781 e incentrata sulla nascita, la fanciullezza e l’adolescenza della figlia.

La fioritura della letteratura per l’infanzia

Tuttavia, il vero e proprio sviluppo della letteratura per l’infanzia italiana si registra nel secondo Ottocento, quando sono pubblicati capolavori intramontabili come Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, e Cuore (1886) di Edmondo De Amicis. Da una parte la storia di un immaginario burattino e dall’altra quella di Enrico, un ragazzo della terza elementare di Torino. Due mondi molto diversi, ma entrambi rappresentativi dei valori dell’Italia post-unitaria, da costruire proprio attraverso l’educazione.

Il passaggio verso un nuovo linguaggio, più vicino al vissuto dei destinatari diretti dei libri per ragazzi e antesignano delle svolte contemporanee, si compirà con l’entrata in scena di Luigi Bertelli, in arte Vamba. È soprattutto con “Il giornalino della domenica”, il settimanale illustrato per ragazzi nato nel 1906, che Bertelli rompe definitivamente con i modelli di stampo ottocentesco, proponendosi di accompagnare la crescita culturale dei ragazzi del ceto medio, attraverso un giornale in grado di parlare al cuore e alle menti dei bambini e dei ragazzi. Nel “Giornalino”, tra l’altro, esce a puntate tra il 1907 e il 1908 Il giornalino di Gian Burrasca, il capolavoro di Bertelli destinato a diventare un classico della letteratura giovanile. Anche questa opera offre uno spaccato suggestivo sui valori della società italiana in formazione, ma il tutto è raccontato con gli occhi di Giannino Stoppani, il turbolento protagonista della storia, che ha un’innata capacità di combinare marachelle destinate a smascherare tutte le ipocrisie del mondo degli adulti.

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I difficili esordi della scuola italiana
La legge Casati introduce due principi fondamentali all’interno del sistema scolastico nazionale, ovvero la gratuità dell’istruzione pubblica elementare e l’obbligo di istruzione per il primo ciclo della scuola elementare (prime due classi). Tuttavia, si registrano fin dall’inizio enormi difficoltà nella loro applicazione, sia perché il peso finanziario dell’istruzione elementare ricade interamente sui comuni, sia perché la legge non prevede sanzioni per i genitori che non rispettano l’obbligo di istruire i propri figli.

Un passo in avanti importante si registra con l’emanazione della legge Coppino del 1877, che prende il nome dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino. La legge eleva di un anno l’obbligo scolastico, portando il primo ciclo della scuola elementare da due a tre anni, e stabilisce pene pecuniarie per i genitori inadempienti. Inoltre, introduce il principio dell’aconfessionalità della scuola italiana, in quanto rende l’insegnamento della religione facoltativo, sostituendolo con una disciplina che si propone di curare la formazione civica dei giovani italiani: «Prime nozioni dei diritti dell’uomo e del cittadino». L’applicazione della legge incontra non poche difficoltà, ma si registra presto un aumento del numero delle scuole elementari e degli iscritti e un calo del numero degli analfabeti, tanto che il tasso di analfabetismo passa dal 68,8% del 1871-72 al 48,5% del 1901.

Le prime novità importanti
Le conquiste più significative sul fronte dell’obbligo scolastico, tuttavia, si realizzano agli esordi del secolo successivo, nel corso della cosiddetta età giolittiana (1901-14), dominata dalla figura dello statista piemontese Giovanni Giolitti, fautore di una politica caratterizzata da un cauto riformismo.

Sono gli anni dell’avvio dello sviluppo industriale italiano, nel corso dei quali si assiste a una graduale diffusione dell’istruzione elementare e a una significativa diminuzione del tasso di analfabetismo. Tali progressi sono raggiunti soprattutto grazie ad alcuni provvedimenti legislativi:

  • la legge Orlando del 1904 (dal nome del ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Emanuele Orlando), che eleva l’obbligo scolastico fino ai 12 anni e istituisce il corso popolare, formato dalle classi V e VI elementare e indirizzato a coloro che non proseguono gli studi;
  • la legge Daneo-Credaro del 1911 (dal nome dei ministri della Pubblica Istruzione Edoardo Daneo e Luigi Credaro), che sancisce l’avocazione della scuola elementare allo Stato.

Anche se l’applicazione della legge Daneo-Credaro è resa difficile dall’avvio della Prima guerra mondiale, segna indubbiamente l’avvio di una nuova fase per la politica scolastica del paese. In particolare, nel corso dell’età giolittiana si raggiungono due traguardi importanti:

  • la costituzione di un sistema scolastico capillarmente distribuito nel territorio e funzionale alle esigenze della nascente nazione italiana;
  • il conferimento di maggior stabilità nella battaglia per l’affermazione dell’obbligo scolastico, anche se la lotta all’analfabetismo rimarrà a lungo uno dei “talloni d’Achille” del sistema scolastico italiano.

CITTADINI RESPONSABILI

Il diritto allo studio e i nuovi analfabeti

Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali e inalienabili della persona sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che all’art. 26 recita:


Ognuno ha diritto ad un’istruzione. L’istruzione dovrebbe essere gratuita, almeno a livelli elementari e fondamentali. L’istruzione elementare dovrebbe essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e quella professionale dovrebbero essere generalmente fruibili, così come un’istruzione superiore dovrebbe essere accessibile sulla base del merito.


Molti paesi hanno recepito questi principi nelle proprie costituzioni e tra questi vi è anche l’Italia. L’art. 34 della Costituzione italiana, infatti, stabilisce che:


I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.


Per la Costituzione italiana lo studio è anche un dovere (art. 33) e questo obbligo, attualmente, si estende dai 6 ai 16 anni, un traguardo raggiunto dopo una lunga battaglia, iniziata agli esordi dello Stato unitario, per combattere l’analfabetismo.

Nel 1861, infatti, gli analfabeti in Italia toccavano una media pari al 78%, con punte anche superiori al 90% nel Sud della penisola. Nel secondo dopoguerra, a distanza di un secolo, l’analfabetismo vero e proprio in Italia riguardava il 30% dei cittadini, una percentuale che è diminuita considerevolmente con l’estensione dell’istruzione scolastica, tanto che oggi secondo il Rapporto delle Nazioni Unite del 2013 l’Italia ha un tasso di alfabetizzazione del 99,2%.

L’analfabetismo funzionale

Ciò che preoccupa oggi non è l’analfabetismo strumentale, proprio di coloro che non sanno leggere e scrivere, quanto l’analfabetismo funzionale, nuova emergenza della società contemporanea.

Secondo la definizione fornita dall’Unesco nel 1978 una persona è alfabeta funzionale quando «può essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento del suo gruppo e della sua comunità». Ne deriva che l’analfabetismo funzionale interessa quelle persone che, sebbene scolarizzate, non sono capaci di decifrare i messaggi dell’ambiente circostante e di partecipare in modo attivo alle attività quotidiane della società in cui vivono. Non riescono a comprendere il significato di un articolo di giornale, pur sapendo leggerne il testo, oppure faticano a compilare una domanda di lavoro, a leggere gli orari dell’autobus e a interagire con le nuove tecnologie.

Secondo lo Human development report nel 2009 l’analfabetismo funzionale in Italia interessava il 47% degli individui. Si tratta di un dato allarmante, che colloca l’Italia in quartultima posizione su scala mondiale rispetto ai 33 paesi presi in considerazione dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nell’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). Secondo il noto linguista Tullio de Mauro la percentuale degli analfabeti funzionali sarebbe ben maggiore e solo il 20% della popolazione italiana sarebbe in grado di orientarsi positivamente nella realtà contemporanea.

Spesso il fenomeno dell’analfabetismo funzionale viene legato anche ai social media. Un binomio che è stato sottolineato anche da Umberto Eco nel discorso tenuto in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e cultura dei media, conferitagli nel 2015 dall’università di Torino. Si tratta di un versante del problema molto delicato. In questo caso gli analfabeti funzionali della rete, definiti dal giornalista Enrico Mentana «webeti», sono coloro che, pur non comprendendo le informazioni condivise nei social network, esprimono la loro opinione in modo acritico, generando polveroni e mettendo in circolazione fake news (“false notizie”).

  esperienze attive

Mappatura dell’abbandono scolastico Attingi dai dati ISTAT ed elabora una mappatura sulla situazione dell’abbandono scolastico in Italia, indicando percentuali per fasce di età, provenienza geografica e sociale e principali cause del fenomeno.

2.2 Le condizioni della classe magistrale

Il processo di evoluzione della figura del maestro dall’unità al primo decennio del Novecento è caratterizzato da un forte scarto tra il piano legislativo-normativo e le condizioni reali di esercizio della professione.

Il primo quarantennio post-unitario
I governi post-unitari rimangono a lungo legati all’idea della professione magistrale intesa come missione: l’insegnante della scuola elementare è concepito come una sorta di “sacerdote laico”, che esercita una funzione di “collante sociale”.

Le inchieste governative condotte nel 1864 e nel 1868, però, rivelano la situazione effettiva della classe magistrale post-unitaria, che risulta caratterizzata da:

  • forte eterogeneità dei percorsi formativi (scuole normali governative, scuole pareggiate alle normali, corsi magistrali, conferenze pedagogiche e così via) determinata dall’urgenza di disporre di personale docente, che ha come conseguenza un abbassamento della qualità del livello formativo;
  • rilevante percentuale di docenti che insegnano senza  patente governativa, pari al 43,9% nel 1862-63 e al 21,5% nel 1871-72;
  • importante presenza di personale insegnante appartenente al clero e alle congregazioni religiose maschili e femminili, pari al 33,4%, con punte che oscillano tra il 70% e l’80% in Basilicata, Calabria, Campania, e tra il 50% e il 60% in Liguria, Toscana, Piemonte e negli Abruzzi;
  • precaria condizione giuridica ed economica dovuta all’ambiguità della legge Casati e all’eccessiva discrezionalità dei comuni, per cui i maestri vanno incontro a una sorte incerta e in molti casi svolgono un doppio lavoro per mantenersi.

A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento si assiste a un miglioramento delle condizioni giuridiche ed economiche dei maestri di scuola, per cui è varata una serie di provvedimenti che consentono l’aumento degli stipendi e l’istituzione del Monte pensioni.

Anche sul fronte dell’elevazione della qualità della preparazione dei maestri, negli ultimi due decenni dell’Ottocento si realizzano diversi interventi, in parte dovuti anche alla diffusione della pedagogia positivistica:

  • nel 1880, sotto il ministro Francesco De Sanctis, sono rinnovati i programmi di studio della scuola normale e viene conferito nuovo prestigio alle conferenze pedagogiche, iniziative di carattere provinciale rivolte a tutti i maestri e incentrate su questioni di natura pedagogica e didattica;
  • nel 1888 viene istituito un corso biennale preparatorio per le scuole normali femminili (la cui durata viene estesa a tre anni nel 1889), che permette di colmare l’intervallo di tempo, che riguarda solo le ragazze, tra l’inizio della scuola elementare e quello della scuola normale e fornisce una prima risposta al processo di  femminilizzazione del corpo docente;
  • nel 1896 la cosiddetta legge Gianturco riforma la scuola normale, che viene elevata a istituzione di livello secondario e migliora le procedure di reclutamento e la retribuzione degli insegnanti che lavorano in questo ordine di scuola.

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Il dettato

Il pittore piemontese Demetrio Cosola (1851-1895) dedicò molti suoi lavori al mondo dell’infanzia, che rappresentò con tenerezza nella vita quotidiana: in questo quadro pone in primo piano un lungo banco di scuola interamente occupato da bambine. Nel periodo post-unitario (e nel Novecento fino al secondo dopoguerra) le scuole erano per la maggior parte divise in maschili e femminili; esistevano tuttavia anche rari casi di classi miste, nelle quali comunque i banchi destinati ai bambini erano, come rappresentato in questo quadro, del tutto separati da quelli destinati alle bambine.

  VERSO LA PROFESSIONE   

L’insegnante della scuola primaria

Il docente della scuola primaria accompagna la prima alfabetizzazione culturale dei bambini tra i 6 e gli 11 anni. Ha il compito di facilitare l’acquisizione delle competenze di base previste dai programmi ministeriali (lingua italiana, inglese, informatica, matematica, studio del mondo naturale, principi fondamentali della convivenza civile), nel rispetto dello sviluppo cognitivo e psicologico individuale e all’interno di un ambiente di lavoro in grado di favorire l’autonomia, la riflessione logico-critica del singolo e le relazioni tra gli alunni.

Il percorso formativo

L’unico percorso formativo possibile per diventare insegnante di scuola primaria è il corso di laurea a ciclo unico in Scienze della formazione primaria, che dura cinque anni ed è a numero programmato. Tale numero viene fissato dal Miur (Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca) sulla base del fabbisogno regionale di insegnanti. Lo stesso corso prepara anche gli insegnanti della scuola dell’infanzia e abilita all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria.

Il corso si caratterizza per la sua natura “mista”, in quanto abbina attività teoriche e pratiche. Infatti, non solo prevede laboratori collegati ai contenuti di alcuni insegnamenti caratterizzanti, ma anche attività di tirocinio. Il tirocinio permette un primo approccio concreto alla professione ed è articolato in tirocinio indiretto (svolto in aula secondo un preciso programma che ha l’obiettivo di introdurre lo studente ai principali “strumenti di lavoro” dell’insegnante) e tirocinio diretto (effettuato all’interno delle scuole, che consente allo studente un primo contatto con l’ambiente scolastico).

La carriera

All’inizio della carriera si possono ricoprire incarichi di supplenza, che possono avere una durata variabile e interessare varie scuole. Nelle scuole private l’inserimento può avvenire in modo diretto.

Il primo passaggio di carriera importante per l’insegnante della scuola primaria è rappresentato dall’immissione in ruolo, che garantisce la continuità nell’esercizio della professione. Una volta divenuti insegnanti di ruolo, le uniche possibilità di avanzamento di carriera sono legate agli scatti stipendiali per anzianità e alla partecipazione ai concorsi pubblici per il ruolo di dirigente scolastico. Altre strade percorribili sono: il passaggio alla scuola secondaria di primo grado e l’ottenimento del distacco presso università, istituti culturali e altre amministrazioni statali per svolgere compiti educativi o amministrativi. Le possibilità di distacco, tuttavia, sono in riduzione nelle politiche normative nazionali.

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I primi del Novecento
Nonostante gli importanti progressi compiuti alla fine dell’Ottocento fatichino a essere recepiti sia a livello delle amministrazioni comunali sia a livello della qualità professionale della classe magistrale, il nuovo secolo si apre con un cambio di passo importante. Matura all’interno della classe magistrale una coscienza di categoria, sancita nel 1901 dalla nascita dell’Unione Magistrale Nazionale (Umn).

L’Umn si propone di superare il vecchio associazionismo localistico ottocentesco e di inaugurare una fase di collaborazione con il governo per difendere le battaglie di categoria, tanto che il suo primo presidente è il deputato Luigi Credaro.

I primi frutti di questa strategia si palesano con la legge Nasi (dal nome del ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi) del 1903, la quale:

  • equipara lo stipendio delle maestre che insegnano nelle classi maschili con quello dei maestri;
  • fissa quale unica modalità di reclutamento dei maestri il concorso per titoli o per titoli ed esami;
  • introduce migliorie nel sistema pensionistico della categoria magistrale.

Nel 1904 l’Umn si schiera apertamente con le forze politiche di sinistra e assume una connotazione anticlericale. Da qui l’esigenza dei maestri cattolici di lasciare l’Umn e di dar vita a una nuova associazione magistrale: la Nicolò Tommaseo, che si propone di sostenere le cause che più stanno a cuore agli insegnanti cattolici (libertà d’insegnamento e insegnamento religioso), ma anche di continuare battaglie care a tutta la categoria magistrale, come quella del pareggiamento degli stipendi tra maestre e maestri.

Con l’avocazione della scuola elementare allo Stato, stabilita dalla legge Daneo-Credaro del 1911, di fatto i maestri diventano dipendenti statali. Viene superata, così, la condizione di precarietà del passato, ma si “condanna” la categoria a un sistema “bloccato”, che non premia il merito e le competenze.

Nel giugno del 1919, all’indomani della Prima guerra mondiale, i maestri italiani indicono il primo sciopero di categoria, contro la mancata revisione da parte del governo dei salari degli insegnanti elementari. Ci sono ancora tante altre vecchie questioni da sciogliere (per esempio la riforma della scuola normale e la ridefinizione dello status giuridico di categoria), ma l’avvento del fascismo impone un nuovo corso alla storia.

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Le educande

Accanto alle scuole pubbliche, erano presenti in periodo post-unitario gli educandati, istituzioni collegiali e scolastiche, in genere tenute da religiose, che potevano essere di due tipi: destinate all’educazione di fanciulle orfane o povere oppure (come appare in questo quadro) alla formazione culturale delle giovani di ottima famiglia. Gli educandati avevano in genere al loro interno scuole per ogni ordine e grado di istruzione. Oggi ne sopravvive un numero molto ridotto.

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2.3 Cattaneo e i limiti della scuola prima e dopo l’unità

Politico ed economista milanese, Carlo Cattaneo (1801-69) riserva una costante attenzione alle questioni educative. Lascia un’impronta significativa nella cultura italiana come direttore del periodico mensile “Il Politecnico” e si distingue per la sua intensa partecipazione alle vicende politiche della penisola, specie nel 1848.

Allievo di Giandomenico Romagnosi (1761-1835), eredita dal maestro una visione pedagogica caratterizzata dalla chiara consapevolezza del ruolo sociale e politico dell’educazione e animata dalla volontà di promuovere una riforma educativa improntata a elementi di laicità e di rinnovamento dei curricula per una valorizzazione del sapere scientifico.

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Prima dell’unità d’Italia
Cattaneo propone una lucida analisi della situazione scolastica nel Lombardo-Veneto nel saggio Sull’ulteriore sviluppo del pubblico insegnamento in Lombardia (1848), nel quale evidenzia quelli che a suo avviso rappresentano i limiti maggiori della scuola del tempo:

  • scuole infantili scarsamente frequentate;
  • insegnanti poco preparati e mal retribuiti;
  • metodologia didattica fondata sulla memorizzazione dei contenuti;
  • scarsa rilevanza assegnata alle materie scientifiche;
  • curricula delle scuole tecniche incentrati sul sapere teorico;
  • assenza di scuole professionali.

Muovendo da questo stato di cose, Cattaneo elabora la sua proposta educativa, che si caratterizza per alcuni caratteri fondamentali:

  • il riconoscimento del valore dell’istruzione nella formazione di ogni uomo e cittadino;
  • la promozione di un’istruzione di base per tutti a carico dei comuni e dello Stato, in grado di garantire una migliore retribuzione degli insegnanti;
  • la riorganizzazione delle scuole di livello secondario secondo precisi criteri di specializzazione;
  • la valorizzazione dell’insegnamento scientifico e la riduzione del monte ore assegnato alle discipline umanistiche nei licei;
  • la realizzazione di scuole professionali (di agraria, ragioneria, chimica e meccanica) con attività di laboratorio;
  • una nuova impostazione didattica, graduata sulla base dell’età degli alunni;
  • il miglioramento della preparazione degli insegnanti attraverso canali formativi ad hoc.

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Le “Cinque giornate di Milano”

Il pittore lombardo Giacomo Mantegazza (1853-1920) raffigura in questa litografia un episodio delle “Cinque giornate di Milano” nella Prima guerra d’indipendenza: Carlo Cattaneo avrebbe risposto sdegnato al conte Enrico Martini (inviato dai Savoia per convincere i milanesi a chiedere l’intervento di Carlo Alberto): «Il paese appartiene ai cittadini [...] non sono al servizio dei re, ma della patria!».

Cattaneo, che partecipò alle Cinque giornate di Milano come capo del Consiglio di guerra, fu critico severo della situazione scolastica del Lombardo-Veneto prima ma poi anche di quella del Regno d’Italia. Egli propose un modello alternativo di scuola, fondato sul valore dell’istruzione nella formazione di ogni cittadino e strumento per il rinnovamento sociale, in grado di fornire un’istruzione di base per tutti tenendo conto delle diversità territoriali.

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SONO COMPETENTE Imparare a leggere e a scrivere

Nelle scuole di livello primario dell’età moderna le competenze della lettura e della scrittura erano acquisite separatamente. L’apprendimento della scrittura era ritenuto di livello superiore rispetto a quello della lettura e non tutti gli studenti che frequentavano le scuole dei primi rudimenti vi accedevano, anche perché non tutti si potevano permettere il costo di carta, penna e calamaio.

Il testo di base attraverso il quale gli alunni della scuola di antico regime solitamente acquisivano queste competenze era il catechismo, che garantiva il raggiungimento di un duplice fine formativo, perché insieme alle lettere dell’alfabeto i fanciulli acquisivano anche i primi elementi della fede. Spesso, se le scolaresche erano numerose e povere, si ricorreva all’uso di cartelloni murali, per consentire a tutte le alunne e gli alunni di seguire la lezione di lettura o di esercitarsi sugli stessi modelli di lettere e parole.


I libri di testo: nel corso del Settecento e dell’Ottocento gradualmente l’acquisizione dei due apprendimenti non avviene più separatamente e cominciano a diffondersi dei testi, pensati per accompagnare il primo approccio alla lettura e alla scrittura:

  • gli abbecedari (libri di lettura con cui si impara a leggere partendo dal riconoscimento delle singole lettere, disposte in ordine alfabetico);
  • gli alfabetieri (spesso annessi all’abbecedario e consistenti in tavole murali o fogli di cartone che rappresentano una singola lettera, o gruppi di lettere, associata all’immagine di un oggetto il cui nome inizia con quella lettera);
  • i sillabari (alternativi agli abbecedari, guidano all’apprendimento della lettura attraverso il metodo sillabico, che non procede per singole lettere isolate ma per sillabe).

Gli strumenti: anche gli strumenti di scrittura evolvono e alla penna d’oca si sostituisce la cannuccia di legno (portapennino) in cui si inserisce una sottile punta metallica, il pennino appunto, che intinto nel calamaio permette di conservare una piccola quantità di inchiostro. La svolta si realizza nel 1945, quando il giornalista ungherese László Biró inventa la penna a sfera, che sarà commercializzata su larga scala dal barone Marcel Bich, padre dell’intramontabile penna BIC.


I metodi: sul piano metodologico, va evidenziato che nella scuola di antico regime si insegnava a leggere e a scrivere seguendo il metodo alfabetico, che prevedeva prima l’apprendimento delle singole lettere, poi delle sillabe, delle parole e delle frasi.

Nel corso del Settecento si afferma il metodo fonico, per cui le singole lettere non vengono più insegnate con il loro nome, ma secondo il loro valore fonico (“n” invece di “enne”).

Attualmente i metodi d’insegnamento della lettura e della scrittura più utilizzati sono due:

  • il metodo globale, che enfatizza l’importanza di una lettura finalizzata alla comprensione, per cui si memorizzano parole e frasi intere, per poi procedere per scoperta spontanea al riconoscimento di lettere e sillabe;
  • il metodo fono-sillabico, che privilegia l’aspetto uditivo rispetto a quello visivo e procede seguendo la corrispondenza tra suono e simbolo grafico che lo rappresenta. In Italia questa è la metodologia d’insegnamento prevalente, anche per la corrispondenza quasi completa nella lingua italiana tra grafema e fonema.

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Dopo la proclamazione del Regno d’Italia
L’estensione della legge Casati a tutti i territori del Regno d’Italia e la conseguente costituzione del sistema scolastico nazionale secondo Cattaneo non producono un sensibile miglioramento della situazione scolastica italiana. Nell’articolo La nuova legge del pubblico insegnamento, apparso nel 1860, egli critica apertamente la Casati, mettendo in evidenza alcuni punti negativi come:

  • il sistema di governo centralizzato, che non tiene conto delle diversità territoriali;
  • la prevalenza assegnata alla formazione liceale a discapito di quella tecnico-professionale;
  • lo scarso sostegno fornito alla promozione dell’istruzione elementare.

Cattaneo propone un modello di scuola alternativo a quello ufficiale (che era fortemente autoritario e classista) e, seppure le linee da lui tracciate non troveranno un riscontro pratico nell’immediato, pongono questioni che saranno al centro del dibattito della politica scolastica italiana per oltre un secolo.

per lo studio

1. Quali sono gli elementi cardine e i limiti della legge Casati?

2. Che novità introduce la legge Coppino?

3. Quali sono i principali provvedimenti legislativi in ambito scolastico dell’età giolittiana?

4. Qual è lo stato dell’arte della classe magistrale nel periodo post-unitario?

5. Quali importanti cambiamenti si registrano agli inizi del Novecento per la categoria magistrale?

6. Quali deficienze evidenzia Cattaneo nel sistema scolastico lombardo-veneto?


  Per discutere INSIEME 

1. La scuola elementare è cambiata molto nel corso del Novecento. Intervista i tuoi genitori e i tuoi nonni e raccogli i loro ricordi di scuola.

2. Predisponi insieme ai tuoi compagni un questionario da sottoporre ai tuoi insegnanti di classe, al fine di comprendere il loro punto di vista sulla professione docente.

I colori della Pedagogia - volume 2
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L’educazione dal basso Medioevo al positivismo - Secondo biennio del liceo delle Scienze umane