1 - La riflessione pedagogica

1. La riflessione pedagogica

1.1 Ardigò: la pedagogia e il «fatto educativo»

| Il pensiero del filosofo Roberto Ardigò ▶ L’AUTORE | rappresenta una delle espressioni più avanzate del positivismo italiano. Docente di storia della filosofia presso l’università di Padova, insegna anche pedagogia e condensa le sue riflessioni sulla materia educativa nello scritto Scienza dell’educazione, del 1903.

l’autORe  Roberto Ardigò

Roberto Ardigò nasce nel 1828 a Casteldidone (Cremona) in una famiglia agiata. Presto si trasferisce a Mantova, dove frequenta la scuola elementare e il ginnasio. Nel 1845 entra nel seminario della città, dove si avvicina alle idee liberali. Rimasto orfano, è accolto nella casa di monsignor Luigi Martini, che esercita una notevole influenza sulla sua educazione. Nel 1851 è ordinato sacerdote. Due anni dopo consegue l’abilitazione magistrale e si dedica all’insegnamento nella scuola elementare, nel ginnasio del seminario di Mantova e nelle più prestigiose istituzioni statali della città.

Poco dopo, tuttavia, inizia un lungo e travagliato percorso di riflessione, che lo avvicina alle posizioni positivistiche ed evoluzionistiche e lo porta, nel 1871, a maturare la sofferta decisione di abbandonare la veste talare. Nel 1881 è chiamato a insegnare storia della filosofia presso l’università di Padova, dove rimane come docente fino al 1909.

Numerosi sono gli scritti di Ardigò. Tutti rivelano una vasta preparazione culturale, dovuta anche alla capacità di leggere direttamente i classici e le opere moderne (inglesi, tedesche e francesi). Le opere che maggiormente si collegano al discorso pedagogico sono: Lo studio della storia della filosofia (1881); Sociologia (1886); La scienza dell’educazione (1893 ma rivista nel 1903); la trilogia Il vero (1891), La ragione (1894) e L’unità della coscienza (1898), in cui espone la sua concezione positivistica. Nel 1913 è nominato senatore.

Muore a Mantova nel 1920.

Pedagogia, educazione e istruzione
Nella Scienza dell’educazione Ardigò definisce la pedagogia come scienza dell’educazione, che ha il compito di chiarire in cosa consiste l’educazione, sia a livello di effetti sia di mezzi. Egli dissente da quanti individuano come fine dell’educazione lo sviluppo completo delle attitudini del soggetto e sostiene che più che al fine bisogna essere attenti all’effetto dell’educazione.

Egli, infatti, concepisce l’educazione come un fatto che si iscrive nella natura, sottoposto a determinate leggi. Ne deriva che per Ardigò l’educazione coincide con la formazione naturale, che varia col variare di precise matrici ambientali, quali la società, la famiglia, gli educatori, le maestranze professionali e le istituzioni speciali.

Inoltre, per Ardigò il processo educativo segue uno schema, che si modula secondo quattro momenti: attività, esercizio, abitudine, educazione. L’educazione, pertanto, si configura come acquisizione di abitudini, in quanto rappresenta l’ultimo passaggio di una serie di stimoli prodotti da attività ripetute con esercizio, che conducono all’abitudine. Questa prospettiva assume un certo rilievo soprattutto affrontando il discorso dell’educazione morale, che ha per fine quello di radicare nel soggetto un’abitudine al bene, che lo porta a compiere atti buoni liberamente, per propria convinzione, senza che ci sia una motivazione diretta o una spinta precisa dietro.

Sul piano dei contenuti dell’istruzione il filosofo lombardo segue un’impostazione utilitaristica. Egli, infatti, privilegia le materie scientifiche, anche se non esclude le discipline umanistiche, che riserva alla scuola secondaria, e incoraggia a favorire i contenuti che permettono la conoscenza dell’uomo, delle sue funzioni e del mondo naturale e sociale.

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Il metodo didattico
Alla base del processo educativo Ardigò pone l’esperienza diretta. Egli assegna il primato alle «lezioni delle cose» rispetto alle «lezioni delle parole», anche se non esclude del tutto l’insegnamento scolastico tradizionale, al quale ritiene si debba ricorrere quando non si può attingere all’esperienza diretta.

A questo riguardo, nella Scienza dell’educazione afferma:

Il merito più grande che abbia la pedagogia moderna è quello di avere riconosciuto, che lo stimolo fondamentale e più efficace per eccitare l’attività cosciente del fanciullo è il complesso delle cose che lo circondano; e di avere quindi sostituita la intuizione di queste alle parole del metodo d’insegnamento.

Le lezioni fatte servendosi solo delle parole furono dette formali, quelle fatte per mezzo delle stesse cose, reali, e il metodo seguito in queste si chiamò per ciò reale o intuitivo o anche sperimentale. Da ciò che abbiamo detto sin qui è facile capire quanta sia l’importanza di questo metodo, che noi chiameremo solamente intuitivo, prendendo questa parola nel suo significato più largo.

R. Ardigò, La scienza dell’educazione, Drucker, Padova 1916, p. 53.

Le «lezioni delle cose», pertanto, permettono di procedere secondo il metodo intuitivo, che può muovere dall’osservazione libera della realtà circostante da parte dell’alunno o da esperienze predisposte dall’insegnante.

Per quanto riguarda le «lezioni delle parole», invece, Ardigò ritiene che si possa adottare sia il metodo deduttivo (sintetico), sia il metodo induttivo (analitico). Tuttavia, fa delle precise raccomandazioni a tal proposito:

  • di ricorrere al metodo induttivo nelle scuole elementari e a quello deduttivo negli ordini scolastici successivi, perché solo andando avanti con l’età i ragazzi avranno maturato un adeguato patrimonio di idee generali in grado di farli procedere per deduzione;
  • di tenere presente che nei processi di apprendimento si deve procedere dal noto all’ignoto, dal semplice al composto, dal facile al difficile.

La teoria pedagogica di Ardigò, nonostante alcuni limiti oggettivi, quali la riduzione dell’educazione ad acquisizione di abitudini e la prevalenza assegnata all’aspetto sociale a discapito di quello soggettivo, si è distinta per lo sforzo di sistematizzazione del fatto educativo e per l’aderenza all’esperienza diretta dell’allievo.

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Chiuse fuori di scuola

Questo quadro, grazie alla sua resa psicologica, è uno dei più noti del pittore lombardo Emilio Longoni. Due bimbe, dagli abiti dimessi, sono rimaste chiuse fuori della scuola perché in ritardo; esse appaiono reagire in modo diverso: la più grande, che ha acquisito consapevolezza delle proprie azioni e quindi dell’errore commesso, è preoccupata, mentre la piccola è felice per la vacanza inaspettata. La pedagogia, per Ardigò, è scienza dell’educazione, della quale occorre valutare gli effetti tenendo in considerazione le “matrici” ambientali: la scuola deve fornire un’educazione morale che, mediante l’esercizio e l’abitudine, formi a compiere liberamente atti buoni.

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1.2 Gabelli e la scuola nuova

Convinto patriota e uomo dalla forte tempra morale, il pedagogista Aristide Gabelli  L’AUTORE | ricopre importanti incarichi nella pubblica amministrazione del neonato Regno d’Italia, fornendo un contributo decisivo per la crescita della scuola nazionale.

l’autORe  Aristide Gabelli

Aristide Gabelli nasce a Belluno nel 1830. Nella sua prima formazione ha un ruolo determinante il padre, un uomo pratico, di grande spessore morale e larghe vedute, che lavora come insegnante di matematica prima a Belluno e poi a Venezia, dove si trasferisce con la famiglia.

Nel 1848 inizia a frequentare la Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Padova e completa gli studi nel 1854, senza però conseguire la laurea, a causa degli alti costi per l’ottenimento del titolo.

Ardente patriota, durante la Prima guerra d’indipendenza combatte contro l’esercito austriaco per difendere la Repubblica di Venezia. Restaurato il potere asburgico, per evitare il servizio militare nell’esercito austriaco si iscrive nel 1854 a un corso di perfezionamento a Vienna. Trascorre nella città un triennio molto formativo, ricco di esperienze e di stimoli nuovi.

Ritornato a Venezia nel 1857, trova impiego prima presso il tribunale provinciale di Venezia e poi nello studio legale dell’avvocato Rocca, che lo introduce all’attività pubblicistica, inserendolo tra i collaboratori del periodico giudiziario “L’eco dei Tribunali”.

Nel 1859 è nuovamente chiamato a prestare servizio militare. L’unica via per sfuggire all’obbligo di leva è l’esilio. Così si trasferisce prima a Firenze, poi a Torino e, infine, a Milano, dove inizia a confrontarsi con questioni di carattere pedagogico in qualità di direttore scolastico: infatti, prima è nominato direttore di una scuola tecnica e nel 1865 del Convitto nazionale Longone. Nel 1866 pubblica il suo primo scritto pedagogico, Sulla corrispondenza dell’educazione alla civiltà moderna, nel mensile fondato da Carlo Cattaneo “Il Politecnico”.

Ricopre numerosi incarichi nella pubblica amministrazione. Nel 1869 è nominato provveditore centrale a Firenze, mentre dal 1874 al 1881 è provveditore agli studi a Roma e subito dopo è nominato direttore capo-divisione del Ministero per l’istruzione primaria e popolare. È chiamato a far parte di numerose commissioni che si occupano dell’istruzione, tra le quali quella presieduta da Pasquale Villari, per la quale funge da segretario e stila le Istruzioni generali e speciali premesse ai programmi del 1888.

Le realtà educative incontrate servono da spunto per molti dei suoi scritti, tra i quali: Il metodo d’insegnamento nelle scuole elementari (1870), L’Italia e l’istruzione femminile (1870), Metodo d’insegnare in relazione con la vita (1873), L’istruzione popolare dell’Italia e della Germania all’esposizione di Vienna (1873), Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia (relazione tenuta all’XI Congresso pedagogico italiano svoltosi a Roma nel 1880), La scuola educativa (1887), Sul modo di riordinare l’insegnamento religioso (1890).

Muore a Padova nel 1891.

Il fine dell’educazione
Egli cala i principi del positivismo nella concreta realtà scolastica. Il suo progetto è animato da un preciso obiettivo: adeguare la società italiana post-unitaria, ancora arretrata e “immatura”, al nuovo Stato italiano, libero e moderno. All’educazione spetta il compito di colmare questo divario, favorendo la formazione di cittadini consapevoli, dotati degli strumenti adeguati per vivere appieno il proprio tempo.

L’educazione per Gabelli deve preparare alla vita reale e per corrispondere a questo fine pratico deve formare uomini di «testa chiara», che hanno perfetta padronanza di sé e sanno come interagire positivamente con il contesto storico-sociale in cui vivono. L’educazione deve sviluppare il pensiero critico e autonomo del soggetto e questo per Gabelli vale anche e soprattutto per il popolo, che va messo nelle condizioni di esercitare i propri diritti.

Egli crede fermamente nell’importanza di un’alfabetizzazione di base per tutti gli italiani, fruita in una scuola laica, statale e obbligatoria. La sua è una prospettiva laica, che però non rinnega l’insegnamento religioso, ritenuto una componente culturale della società italiana e un insostituibile strumento di formazione morale e di conservazione-controllo delle masse popolari, se mantenuto entro i limiti degli insegnamenti evangelici.

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Il compito della scuola
Gabelli ritiene che la scuola debba preparare persone mature in grado di interagire positivamente con il contesto circostante. Egli prefigura una scuola educante, che non si limita solo a istruire, ma si prende in carico il compito di educare.

Per Gabelli il punto di partenza di ogni processo educativo deve essere l’esperienza dell’educando. Egli incoraggia a tenere presenti le esigenze del fanciullo, il suo mondo fantastico, il suo bisogno di muoversi, di fare e di conoscere, impostando le lezioni sulla base di ciò che l’alunno ha appreso prima del suo ingresso a scuola.

Gabelli si oppone al dogmatismo e al sapere preconfezionato e guarda a un’educazione scolastica capace di formare lo «strumento testa», di stimolare la riflessione critica e costruttiva e di abituare a un modo di pensare in grado di permeare tutte le azioni umane. È questo il messaggio centrale del suo lavoro pedagogico, che trova la sua presentazione più compiuta nello scritto Il metodo di insegnamento nelle scuole (1880) e nei Programmi per la scuola elementare del 1888, conosciuti anche come “Programmi Gabelli, per l’indubbia impronta conferita dal pedagogista alla concezione generale del testo.

In particolare, nei “Programmi Gabelli si prospetta una scuola elementare incentrata sul contatto diretto con il mondo reale (metodo oggettivo) e guidata da maestri artefici non solo di un rinnovamento intellettuale e morale degli individui, ma anche capaci di un significativo rinnovamento metodologico della scuola.

Il maestro deve avvezzar gli alunni a osservare appunto le cose in mezzo alle quali vivono, facendo loro comprendere quanto frutto di ammaestramento possono trarre colla loro testa da tutto quello che li circonda. […] Venendo alla formazione dell’animo, sarebbe da avvertire per prima cosa, che in questa dovrebb’essere riposto principalmente l’ufficio della scuola, se non fosse che da un lato, date le poche ore che l’alunno passa fra le sue mura, essa di frequente non basta contro la dannosa influenza di molte famiglie, e dall’altro che l’intelligenza stessa, meglio è istruita, e più vi conduce. […] Il potere della scuola è proporzionato alle disposizioni d’animo e al contegno del maestro. […] Il maestro dovrà quindi cogliere tutte le occasioni per infondere ne’ suoi alunni i sentimenti che più conferiscono al benesser civile, l’amore dell’ordine, della concordia, della tranquillità laboriosa e della socialità umana, distogliendoli, ove bisogni, da gare e da odi municipali, e facendo che il nome d’Italia e la compiacenza di appartenere a una gran nazione valida e stimata campeggi nel loro pensiero e nel loro cuore.

Istruzioni generali ai Programmi per la scuola elementare del 1888, in F.V. Lombardi, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1985, La Scuola, Brescia 1987, pp. 75, 79-80.

Per Gabelli sulla formazione della personalità non incidono soltanto i contenuti, ma anche e soprattutto il modo in cui questi vengono trasmessi. Uno dei meriti maggiori del pedagogista sta proprio in questa valorizzazione formativa del metodo, che deve attivare lo spirito di ricerca e di partecipazione all’esperienza del soggetto.

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La fatica dello studio

Antonio Mancini (1852-1930), pittore che giovanissimo raggiunse fama internazionale, amò rappresentare la vita umile e, ricordando la sua infanzia povera e difficile, dipinse spesso bambini e bambine del popolo con grande partecipazione e capacità di interpretazione psicologica. In questo quadro ritrasse il figlio della sua portinaia, Luigino: un bimbo vestito poveramente, che appare assai affaticato dallo sforzo della lettura. Gabelli ritiene che scopo dell’educazione sia quello di formare cittadini consapevoli, dotati di capacità critica, a qualsiasi classe sociale essi appartengano: i ceti popolari, in particolare, proprio mediante l’educazione devono essere messi in grado di comprendere ed esercitare i propri diritti.

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DA ORAIN POI

L’aula scolastica

In passato ogni corpo sociale aveva una scuola, che poteva essere pubblica, privata oppure presentarsi nella forma del collegio d’istruzione, dell’educandato o del conservatorio. Il cuore dell’attività scolastica era rappresentato dall’aula.

La stessa aula poteva accogliere più classi e le classi di norma non erano organizzate in base all’età degli alunni, ma in base al loro livello di conoscenza. Così poteva accadere che nella prima classe vi fossero bambini di età molto diverse. Per arrivare a classi formate principalmente da coetanei bisogna attendere l’Ottocento, quando si affermano i sistemi scolastici nazionali.

Le scuole erano solitamente distinte tra maschili e femminili, rari erano i casi di classi miste e, laddove presenti, prevedevano una netta divisione dell’aula, per cui un lato era riservato ai banchi per i maschi e l’altro era occupato dai banchi destinati alle fanciulle. Le classi miste si affermeranno in Italia soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

Circa la disposizione degli arredi scolastici, si verifica una svolta nel corso dell’Ottocento, quando si afferma la lezione simultanea e l’insegnante ha bisogno di un “pulpito” dal quale “celebrare” la stessa lezione per tutta la classe. È a questo punto che il fulcro dell’aula diviene la cattedra, affiancata dalla classica lavagna nera in ardesia e posta in posizione rialzata su un predellino, per consentire all’insegnante una visuale migliore della classe. Davanti alla cattedra sono schierati i banchi multiposto (che potevano accogliere fino a 5 studenti) fissati al pavimento, con schienale unito al pianale di scrittura. La classe così concepita permetteva il mantenimento della disciplina, anche in presenza di scolaresche molto numerose.

Solo intorno agli anni Trenta del Novecento si afferma il banco monoposto con la seduta integrata allo scrittoio, che sarà definitivamente soppiantato negli anni Sessanta dall’entrata in scena del banco in formica verde con seduta mobile, grande protagonista della storia della scuola più recente, che si presterà anche a una gestione più “democratica” dello spazio classe, non più caratterizzato esclusivamente da file di banchi parallele, ma aperto anche a nuove disposizioni (per esempio a ferro di cavallo o a isola), in grado di rendere l’apprendimento più coinvolgente e stimolante.

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L’eredità di Gabelli
Purtroppo, le novità introdotte nei cosiddetti “Programmi Gabelli saranno ribaltate nei successivi Programmi per la scuola elementare varati nel 1894 dal ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli, che proporranno una visione dell’istruzione popolare completamente diversa, figlia del nuovo clima politico dell’epoca, quello dell’Italia crispina. «Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può»: questo sarà il motto guida delle nuove disposizioni didattiche. All’idea della scuola come luogo di promozione sociale si sostituirà quella di una scuola concepita come luogo di disciplinamento, in cui il maestro deve assolvere in primo luogo una funzione di controllo sociale. A ogni modo la lezione di Gabelli lascerà un segno indelebile nella scuola italiana, fungendo da “apripista” verso prospettive educative che potranno essere valorizzate appieno con l’avvento dell’attivismo pedagogico.

per lo studio

1. Che cos’è la pedagogia per Ardigò?

2. Che tipo di posizione esprime Ardigò rispetto alle «lezioni delle cose» e alle «lezioni delle parole»?

3. Qual è il compito dell’educazione secondo Gabelli?

4. In che modo Gabelli valorizza la funzione formativa del metodo?


  Per discutere INSIEME 

1. Elabora insieme ai tuoi compagni alcune proposte didattiche in cui applicare la metodologia della lezione «delle cose» a una o più discipline presenti nel tuo piano di studi.

2. Rappresenta in una mappa concettuale la tua personale visione del rapporto tra metodo e contenuti e condividila con la classe.

I colori della Pedagogia - volume 2
I colori della Pedagogia - volume 2
L’educazione dal basso Medioevo al positivismo - Secondo biennio del liceo delle Scienze umane