1.2 TRAMANDARE IL SAPERE IN UNA CIVILTÀ ESSENZIALMENTE ORALE
L’introduzione della scrittura alfabetica, nell’VIII secolo a.C., non ebbe un impatto culturale significativo sul mondo greco. Anche quando la composizione dei testi è scritta, infatti, la loro trasmissione, fino a buona parte del V secolo a.C., è ancora affidata all’oralità. In una cultura essenzialmente orale, qual è per diversi secoli quella greca, in che modo un popolo tramanda la propria memoria e le proprie conoscenze?
In questa unità ci soffermeremo sul principale canale attraverso cui i greci dell’epoca arcaica (VIII-VI secolo a.C.) trasmisero alle nuove generazioni il proprio patrimonio culturale: la poesia, in particolare l’▶ epica e la lirica.
Nella Grecia arcaica si sviluppò una forma di pedagogia poetica affidata agli aedi (“cantori”) e ai rapsodi (“cucitori di canti”), rispettivamente esecutori e compositori: due figure che spesso coincidevano poiché in ogni performance l’esecutore rimodulava il testo. Agli aedi e ai rapsodi si deve l’invenzione della tecnica e del linguaggio propri della poesia greca arcaica. Essi allietavano i banchetti presso le corti aristocratiche o si esibivano in luoghi pubblici in occasione di feste religiose o gare poetiche. Lo scopo di ciò non era semplicemente ricreativo, ma anche e soprattutto educativo e sociale. I poeti, infatti, erano incaricati di tramandare non una propria visione del mondo, non sentimenti intimi e personali, ma i miti della comunità cui appartenevano. Con l’accompagnamento della cetra, e a volte al ritmo della danza di un coro di giovani, essi tramandavano le gesta e la fama degli eroi e degli antenati, contribuendo a generare l’identità culturale del pubblico.
Il poeta, figura di rilievo nella società, era trattato con rispetto e veniva connotato con caratteristiche speciali. Per esempio, in un passaggio dell’Odissea il cantore Demodoco viene così descritto:
Venne l’araldo, guidando il valente cantore.
Molto la Musa lo amò, e gli diede il bene e il male:
gli tolse gli occhi, ma il dolce canto gli diede
Omero, Odissea, VIII, 62-64, trad. it. di A. Privitera, Mondadori, Milano, 1981, p. 101
Demodoco è rappresentato cieco, secondo un’antica simbologia che attribuiva ai poeti e ai profeti, proprio perché privi della facoltà visiva, il dono di una sapienza straordinaria: una capacità di vedere di gran lunga superiore a quella dell’uomo comune. Più precisamente, la poesia è un dono delle Muse, grazie alle quali l’aedo viene “posseduto” magicamente dalla capacità creativa di usare le parole, ricordare le vicende del passato e i miti. Alla base della sua opera vi è dunque l’ispirazione, descritta come un processo creativo e di memorizzazione che ha origine nella relazione con le Muse. In questo senso i poeti arcaici, anche se a volte esprimono consapevolezza della propria tecnica, si rappresentano come intermediari delle Muse presso gli ascoltatori. Sono capaci di recitare, improvvisando, e di comporre la poesia nel corso stesso dell’esecuzione, seguendo specifici schemi metrici e usando formule fisse, cioè ripetendo frequentemente espressioni, versi o porzioni di verso.