T1 - Orazio, Gratitudine verso il padre per l’educazione ricevuta

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Orazio

Gratitudine verso il padre per l’educazione ricevuta

Il poeta Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.) manifesta la sua gratitudine nei confronti del padre in componimenti che sono tra i più belli della letteratura latina. Il padre non considerò sufficiente mandare il figlio dal più affermato insegnante della città di Venosa (Potenza) e, pur essendo di umili origini, si trasferì a Roma per offrirgli il meglio dell’educazione. Inoltre non badava a spese e lo accompagnava alle lezioni.

[…] Eppure, se la mia indole, per il resto diritta, è intaccata soltanto da difetti non gravi e non numerosi, come i nèi che tu riprendessi sparsi qua e là in un corpo di egregia bellezza: se nessuno potrà, in buona fede, rimproverarmi avidità, sordidezza o malfamati bordelli; se io vivo, tanto per lodarmi da me, puro e senza colpe e caro agli amici, di tutto questo ha merito mio padre: povero del suo magro campicello1, egli non volle mandarmi alla scuola di Flavio, dove andavano i ragazzi, grandi figli dei gran centurioni2, astuccio e tavoletta sulla spalla sinistra, portando ogni quindici del mese gli otto assi3 di retta; osò invece portarlo a Roma il suo ragazzo, perché fosse istruito nelle discipline che un qualsiasi cavaliere o senatore4 fa imparare ai suoi propri rampolli. Se uno avesse visto il mio vestito e i servi al mio seguito, come si usa nelle grandi città, avrebbe creduto che i denari per quelle spese mi venissero dal patrimonio degli avi. E poi, lui di persona mi stava a fianco, il più impeccabile degli istitutori, nel mio giro fra un professore e l’altro.
[…] Mai avvenga, finché sono sano di mente, ch’io mi mostri, neanche un poco, scontento di un simile padre, mai dunque io abbia a cercarmi delle scuse, come fa la più parte degli uomini, che dice non esser sua la colpa se non ha genitori nati liberi e illustri. Assai diversi da questi sono, in me, e parole e pensiero: se infatti la natura, a partire da una determinata età, ci facesse percorrere a ritroso il tempo trascorso e ci permettesse di scegliere, in ragione della nostra vanità, altri genitori, ciascuno quelli che preferisce, e se io, contento dei miei, non volessi prendermeli onorati di fasci e di seggi5, pazzo certo sarei a giudizio del volgo, savio forse per te […]. È questa la vita di chi è libero dall’ambizione che rende infelici ed opprime. Ed io mi consolo a pensare che, in questa maniera, vivrò una vita più piacevole che se avessi avuto un questore per nonno e per padre e per zio.

Rispondi

1. Da questa satira quali informazioni ricaviamo sul padre di Orazio?
2. Dal punto di vista etico, quali effetti ha sortito l’educazione su Orazio?
3. Da chi prende le distanze il poeta? A chi si contrappone?

 >> pagina 210 

|⇒ T2  Quintiliano

Imparare insieme

In questo brano dell’Institutio oratoria, Quintiliano argomenta la validità di un approccio educativo fondato sulla collaborazione tra compagni, anticipando teorie e approcci contemporanei, quali l’educazione tra pari e l’apprendimento cooperativo.

Come l’emulazione favorisce i progressi di chi è più avanti negli studi, così ai principianti, ancora giovanissimi, risulta maggiormente piacevole l’imitazione dei compagni che non quella dei maestri, per il semplice motivo che è più facile. Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione.

Rispondi

1. Quali indicazioni pedagogiche è possibile estrapolare da questo brano?
2. Sottolinea nel testo la similitudine usata da Quintiliano, poi commentala.

 >> pagina 211 

|⇒ T3  Seneca

Finché vivi, impara

Le Lettere a Lucilio sono l’opera di Seneca che meglio esprime le dimensioni pedagogiche del suo pensiero. La scrittura delle Lettere ha impegnato l’autore nell’ultima fase della sua vita ed è stata bruscamente interrotta dalla condanna a morte. Anche se Seneca e il suo amico Lucilio hanno mantenuto una comunicazione regolare, non è chiaro se queste lettere siano state effettivamente inviate. Quel che è certo è che la forma epistolare ha reso possibile all’autore un dialogo più ampio con se stesso e con i posteri.

Sei pronto a rompere i rapporti con me, se ti tengo nascosta una sola delle mie azioni giornaliere. Vedi come sono sincero con te: voglio confidarti anche questo. Seguo le lezioni di un filosofo1, e sono già cinque giorni che vado a scuola, per sentirlo parlare, alle due del pomeriggio. «Bell’età per istruirsi!» dirai. E perché no? Non è stolto rifiutarsi di apprendere solo perché si è rimasti a lungo senza apprendere? «E che? Farò come i bellimbusti2 e i giovincelli?» Buon per me, se solo questo è sconveniente alla mia vecchiaia: questa scuola ammette uomini di ogni età. «Val la pena d’invecchiare, per andar poi dietro ai giovani?». Dunque, io andrò a teatro o al circo; anzi, non mancherò a nessun combattimento di gladiatori; ma dovrò vergognarmi di andare da un filosofo? Bisogna cercare di apprendere finché si ignora qualcosa e, se crediamo al proverbio, «finché si vive». E tale espressione non trova un’applicazione più adatta che questa: finché viviamo, dobbiamo imparare l’arte di vivere. Del resto, in quella scuola ho ancora qualcosa da insegnare. «Che cosa?» mi domanderai. Che anche un vecchio deve imparare. Tutte le volte che entro in quella scuola, arrossisco per il genere umano. Come sai, chi va alla casa di Metronatte deve passare davanti al teatro dei Napoletani. È sempre pieno zeppo e vi si giudica con grande attenzione chi sia un buon flautista; il suonatore di tromba greco e il banditore3 hanno anch’essi una grande folla di ammiratori. Ma nel luogo in cui si ricerca la virtù, in cui si impara a diventare uomini onesti, siedono pochissimi; e molti pensano che essi non abbiano niente di meglio da fare e li chiamano esseri inetti e oziosi.

Rispondi

1. Seneca afferma di vergognarsi del genere umano, perché?
2. Che cosa si impara nella scuola di Metronatte?
3. Oggi è una consapevolezza acquisita da parte della pedagogia che l’educazione sia un processo che dura tutta la vita. All’epoca di Seneca questa concezione non era così diffusa. Da quali frasi si può comprendere?

 >> pagina 212 

|⇒ T4  Seneca

La virtù è armonia

Il brano di Seneca che qui proponiamo è tratto dalla Lettera 74, che contiene un’intensa raffigurazione del saggio stoico.

Il saggio non si affligge per la perdita degli amici o dei figli; sopporta la loro morte con lo stesso animo con cui attende la sua; non teme questa più di quanto provi dolore di quella.
Infatti la virtù è armonia e tutte le sue azioni concordano perfettamente con essa. Orbene, questo intimo accordo si rompe se l’animo, che deve dominare le avversità, cede al rimpianto dei cari perduti. Ogni forma di trepidazione, di ansia e di rilassamento è contraria alla virtù. La virtù è, infatti, la sicurezza di un animo libero nei suoi movimenti, imperturbabile, pronto ad ogni evento. «Ma come! Il saggio non soffrirà qualcosa di simile al turbamento? Il suo volto non cambierà mai di colore e le sue membra non saranno mai scosse da un brivido? Non proverà nessuno di quegli impulsi naturali che sfuggono al controllo dell’animo?» Sì, lo ammetto. Ma egli conserverà sempre la convinzione che nessuna contrarietà è un male reale che possa abbattere uno spirito sano. Farà con ardimento e con prontezza tutto quello che c’è da fare. Potrebbe dirsi stolto il comportamento di chi agisce in modo fiacco e contraddittorio, e va col corpo da una parte e con l’animo dall’altra, e disperde le sue energie fra impulsi del tutto contrari. Infatti non può provocare che disprezzo chi si inebria di grandi affermazioni e poi non fa volentieri neppure quelle cose in cui si esalta a parole. Se poi teme qualche male, si sente agitato nell’attesa come se il male fosse già venuto, e ciò che teme di dover soffrire lo soffre già in anticipo per paura. Come nel corpo malato ci sono dei sintomi che precedono la consunzione1 – una grande apatia, una stanchezza non prodotta da alcuna fatica, sbadigli e brividi per tutte le membra –, così un animo debole si sente scosso dal male prima di esserne colpito; lo previene e si abbatte anzitempo. Ma è cosa veramente sciocca stare in ansia per il futuro e, prima che giungano i patimenti, farli venire e attirarli a sé; mentre la cosa migliore sarebbe differirli, se non è possibile evitarli. Vuoi tu la prova che non bisogna angosciarsi per quello che deve ancora venire? Se uno sente dire che fra cinquant’anni avrà una disgrazia, non si turba, a meno che, saltando il periodo intermedio, non si abbandoni coll’immaginazione a quella pena che dovrà patire fra tanti anni. E, alla stessa maniera, ci sono anime deboli che amano rivangare le loro antiche pene e si rattristano al ricordo di avvenimenti da lungo tempo trascorsi. Sia le cose passate, sia quelle che dovranno avvenire sono lontane da noi: non le sentiamo. Non può produrre dolore se non ciò che tocca la nostra sensibilità. Addio.

Rispondi

1. Quali sono le caratteristiche del saggio, secondo Seneca?
2. Perché la paura è da evitare?
3. Quale atteggiamento bisogna avere rispetto al passato e al futuro?

 >> pagina 213 

|⇒ T5  Plutarco

Rispettare inclinazioni, desideri e tempi dei figli

Nel seguente brano Plutarco espone le sue riflessioni su come alcuni genitori educano i figli. Egli critica i genitori che venerano i propri figli e che, per il desiderio che essi primeggino sugli altri, li caricano di troppe attività, senza rispettare le loro inclinazioni e i loro tempi. Inoltre accusa anche quei genitori che non si informano su come i propri figli vengono istruiti. L’estratto termina con un elogio della memoria, che va continuamente allenata.

Ho già visto alcuni padri per i quali il troppo amore divenne causa di disamore. Che intendo dire, tanto per rendere più chiaro il mio discorso con un esempio? Smaniando dalla voglia di veder primeggiare più in fretta i loro ragazzi in ogni campo, li caricano di fatiche sproporzionate, col risultato che non riescono a reggerle e finiscono per crollare, e in ogni caso, oppressi dai patimenti, non accolgono docilmente l’insegnamento. Le piante si sviluppano con la giusta quantità di acqua, ma se si esagera soffocano: così anche la mente «con giuste fatiche s’accresce, ma da quelle eccessive finisce sommersa» […] Bisogna dunque dare ai ragazzi la possibilità di riprender fiato dalle continue fatiche, riflettendo come tutta la nostra vita sia divisa fra riposo ed impegno. Per questo furono inventate non solo la veglia ma anche il sonno, e così la guerra e la pace, il tempo brutto e quello buono, le attività lavorative e le feste. Per dirla in breve, il riposo è il condimento delle fatiche. Si può constatare come questo non riguardi solo gli esseri viventi, ma anche le cose inanimate, visto che allentiamo archi e lire per poterli tendere di nuovo. In generale, il corpo è preservato dal senso di vuoto e di pieno, la mente dal riposo e dalla fatica.
È giusto biasimare certi padri, che affidano i figli a pedagoghi e maestri ma poi non si premurano affatto di osservare o di ascoltare di persona come li istruiscano, venendo così meno in modo gravissimo ai propri doveri. Dovrebbero invece controllare periodicamente i loro ragazzi, a pochi giorni di distanza; gli stessi maestri, poi, si prenderanno più cura degli allievi, se saranno chiamati di volta in volta a renderne conto. […]
Più di ogni altra cosa, poi, si deve allenare la memoria dei ragazzi e irrobustirla con l’abitudine, perché essa è, per così dire, il magazzino del sapere. Essa va esercitata sempre, con i ragazzi che ne siano naturalmente ben dotati e con quelli, al contrario, che ne abbiano poca, perché nel primo caso rafforzeremo la ricchezza delle doti naturali, nel secondo ne colmeremo le carenze: così i primi saranno migliori degli altri, i secondi di se stessi.

Rispondi

1. Quale ritmo dovrebbe avere l’insegnamento per essere maggiormente efficace, secondo Plutarco?
2. Che conseguenze ha sugli studenti esercitare tensioni eccessive o avere pressanti aspettative?
3. Perché la memoria è così importante nel processo educativo?

 >> pagina 214 

|⇒ T6  Sesto Empirico

Non è possibile insegnare

Il brano che proponiamo è un estratto dello scritto Contro i matematici, dove Sesto Empirico mette in discussione l’insegnamento esaminando il rapporto che si crea tra chi è esperto e colui che non lo è ancora.

Chi non è esperto non può insegnare a chi non è esperto, proprio come un cieco non può fare da guida a un altro cieco; né colui che è esperto può insegnare a chi è parimenti esperto, giacché nessuno dei due aspirava precedentemente ad imparare e né questo ha maggiore bisogno di imparare rispetto a quello né rispetto a questo, essendo tutti e due parimenti dotati di conoscenza. Né colui che è inesperto può insegnare a colui che è esperto, giacché una tal cosa sarebbe come se si dicesse che chi ha la vista degli occhi si lascia guidare da chi ne è privo. E in realtà l’inesperto, essendo privo dei principi dell’arte, non potrebbe insegnare a nessuno quelle cose che egli stesso non conosce neppure in modo elementare, laddove colui che è esperto, osservando accuratamente i principi dell’arte e possedendone piena conoscenza, non avrà affatto bisogno di uno che glieli insegni. Ci rimane allora soltanto la possibilità di affermare che colui che è esperto è maestro di chi non è esperto. Ma ciò è ancora più assurdo delle precedenti ipotesi: infatti in un passo dei nostri Scritti scettici è stato dimostrato che chi è esperto dubita insieme con noi circa i principi dell’arte, laddove colui che non è esperto, fin quando è non-esperto, non può diventare esperto né, quando sia esperto, può diventare esperto, ma lo è già. Difatti, se egli è inesperto, è simile a chi è nato cieco o muto, e allo stesso modo in cui quest’ultimo per le sue condizioni naturali non è riuscito a pervenire alla conoscenza dei colori o dei suoni, così anche l’inesperto, in quanto è inesperto, è cieco e sordo rispetto ai principi dell’arte e non può né vedere né udire quale sia ciascuno di essi; se, d’altra parte, egli è diventato esperto dell’arte, egli non è più nell’atto di ricevere l’insegnamento, ma lo ha già ricevuto.

Rispondi

1. Secondo te, che cosa significa essere esperti in qualcosa? Rifletti sulle tue competenze. Quali sono? E come le adoperi?
2. Rifletti sull’importanza dell’apprendimento che avviene attraverso esperimenti ed esperienze laboratoriali a scuola. Che valore ha per te?
3. Quali sono le pratiche di insegnamento che ritieni per te più utili?

 >> pagina 215 

|⇒ T7  Il libro di Rut

La storia di Rut

Tra i testi sacri dell’ebraismo, Il libro di Rut esprime con particolare bellezza la pedagogia della terra. Narra le vicende di Rut, una giovane vedova moabita, e di sua suocera, l’ebrea Naomi. La solidarietà tra suocera e nuora mette in moto gli eventi del libro, che culmina con un colpo di scena: Rut, donna di origini pagane e straniere, dà origine a una discendenza da cui nascerà il grande re Davide.

E fu nei giorni del giudicare i giudici1 e fu fame nella terra. E andò un uomo da Bet Lèhem di Giuda a emigrare nei campi di Moàb lui e la sua donna e i due figli suoi.
E nome dell’uomo è Elimèlec e nome della sua donna è Naomi e nome dei due figli suoi Mahlòn e Chiliòn, Efratiti2 da Bet Lèhem di Giuda. E vennero campi di Moàb, e furono là.
E morì Elimèlec uomo di Naomi e fu lasciata lei e i due figli suoi.
E sollevarono per loro3 donne moabìte, nome dell’una Orpà e nome della seconda Rut. E abitarono là come dieci anni.
E morirono anche loro due Mahlòn e Chiliòn. E fu lasciata la donna dai suoi due nati e dal suo uomo.
[…] E disse Naomi alle due sue nuore: “Andate, tornate donna a casa di sua madre. Farà Iod4 con voi misericordia come voi avete fatto con i morti e accanto a me.
Darà Iod a voi e troverete quiete, donna casa del suo uomo”. E baciò loro e sollevarono le loro voci e piansero. […] E baciò Orpà sua suocera e Rut si attaccò a lei [… e disse]: “Non premerai in me per abbandonarti, per tornare via da dietro di te. Perché verso ciò che andrai andrò e in ciò che pernotterai pernotterò, tuo popolo è mio popolo e tuo Elohìm5 mio Elohìm. In ciò che morirai morirò e là sarò sepolta. Così farà Iod a me e così aggiungerà perché la morte farà distacco tra me e te6”.
E vide che decisa è quella a andare presso di lei. E cessò di parlare verso di lei.
E andarono loro due finché vennero a Bet Lèhem. […] E fu come vennero a Bet Lèhem e tumultuò tutta la città sopra di loro e dissero: “Questa è Naomi?”.
E disse verso di loro: “Non chiamerete me Naomi. Chiamate me Amara perché ha fatto amarezza Saddài7 a me molta.
[…] E tornò Naomi e Rut la moabìta sua nuora con lei, che torna dai campi di Moàb. E esse vennero a Bet Lèhem in inizio di mietitura di orzi.
[…] E disse Rut la moabìta verso Noami: “Andrò, su, al campo e racimolerò8 nelle spighe dietro chi troverò grazia nei suoi occhi”, E disse a lei: “Vai, figlia mia”.
E andò e venne e racimolò nel campo dietro i mietitori. E avvenne sorte: parte del campo è a Boàz che è dalla famiglia di Elimèlec. 
E ecco Boàz venne da Bet Lèhem e disse ai mietitori: […] “A chi è la giovane, questa?”.
E rispose il giovane che sta sopra ai mietitori e disse: “Giovane moabìta è lei che torna con
Naomi dai campi di Moàb”.
E disse: “Racimolerò, su, e raccoglierò negli òmer9 dietro i mietitori”. E è venuta e è stata da allora, il mattino, e fino ad adesso, questo il suo abitare a casa poco”.
E disse Boàz verso Rut: “[…] Non andrai a racimolare in un campo altro e anche non passerai via da questo. E così starai attaccata con le mie giovani.
I tuoi occhi nel campo che mieteranno e andrai dietro di loro, forse non ho ordinato ai giovani di mai toccarti? E avrai sete e andrai verso i vasi e berrai da ciò che attingeranno i giovani”.
E cadde sul suo volto e si prostrò a terra e disse verso di lui: “Per quale causa ho trovato grazia nei tuoi occhi per farmi riconoscere e io sono straniera?”.
E risposte Boàz e disse a lei: “Raccontare è stato raccontato a me tutto ciò che hai fatto presso tua suocera dopo la morte del tuo uomo. E hai abbandonato tuo padre e tua madre e terra di tua nascita e sei andata verso un popolo che non hai conosciuto ieri, l’altrieri.
Fara integro Iod il tuo agire. E sarà la tua ricompensa integra da parte di Iod Elohìm di Israele, che sei venuta a ripararti sotto le sue ali”.
[…] E raccontò a sua suocera ciò che aveva fatto con lui e disse [il suo nome].
E disse Naomi a sua nuora:
“Benedetto lui a Iod che non ha abbandonato la sua misericordia presso i vivi e presso i morti”. E disse a lei Naomi:
“Vicino a noi l’uomo, da parte di chi ha (diritto di) riscatto10 di noi è lui”.
[…] “È buono figlia mia che uscirai con le sue giovani e non premeranno in te in un campo altro”.
E si attaccò nelle giovani di Boàz per racimolare fino a terminare di raccolto degli orzi e raccolto dei frumenti. E stette con sua suocera. E disse a lei Naomi sua suocera: “Forse che non cercherò per te un appoggio che sia bene per te?
E adesso non è Boàz nostro parente, che sei stata con le sue giovani? Ecco lui sparge l’aia di orzi la notte11.
E ti laverai e spalmerai e metterai i tuoi manti sopra di te e scenderai all’aia. Non ti farai conoscere all’uomo fino a suo terminare di mangiare e bere. E sarà nel suo giacere e conoscerai il luogo che giacerà là e verrai e scoprirai un lato dei suoi piedi e giacerai. E lui racconterà a te ciò che farai”.
E […Rut] scese all’aia. E fece come tutto ciò che aveva ordinato sua suocera.
[…] E fu nel mezzo della notte e tremò l’uomo [Boàz] e fu scosso: e ecco una donna che giace a un lato dei suoi piedi. E disse: “Chi sei tu?”. E disse: “Io sono Rut tua serva e hai steso la tua ala sopra la tua serva perché riscattatore sei tu”.
E disse: “Benedetta tu per Iod figlia mia, hai agito bene, la tua misericordia l’ultima è più della prima: senza andare dietro ai ragazzi, sia un povero che un ricco.
E adesso figlia mia non temerai, tutto ciò che dirai farò per te. Perché conosce ogni porta del mio popolo che donna di valore tu sei.
[…] E prese Boàz Rut e fu a lui per donna e venne verso di lei12. E dette Iod a lei gravidanza e partorì un figlio.
E dissero le donne verso Naomi: “Benedetto Iod che non ha fatto cessare per te un riscattatore oggi. E sarà chiamato il suo nome in Israele.
E sarà per te come chi fa tornare fiato e per sostenere la tua vecchiaia. Perché tua nuora che ti ha amato lo ha partorito, che lei è buona per te più di sette figli”.
E prese Naomi il bambino e lo pose nel suo petto e fu per lui da allevatrice.
E chiamarono per lui le vicine un nome per dire: “È partorito un figlio a Naomi” e chiamarono il suo nome Òved, lui è padre di Isciài padre di Davide.

Rispondi

1. Riassumi oralmente il ritratto di Rut che emerge da questo brano.
2. Confronta la prima parte del testo e l’ultima: come cambia la visione che Naomi ha di se stessa e il modo in cui gli altri la vedono?
3. Chi è il riscattatore? Approfondisci il significato della parola e il suo ruolo secondo l’antico diritto ebraico.

I colori della Pedagogia - volume 1
I colori della Pedagogia - volume 1
L'educazione dal mondo antico all’alto Medioevo - Primo biennio del liceo delle Scienze umane