4.1 VIVERE FELICI SECONDO SENECA
Insieme a Epitteto e Marco Aurelio, Seneca | ▶ L’AUTORE | è il principale esponente dello stoicismo in epoca imperiale. La filosofia stoica gli offre un riferimento forte, in un momento in cui le istituzioni romane attraversano una profonda crisi, segnata da lotte per il potere dalle quali – considerata la sua posizione privilegiata di consigliere dell’imperatore Nerone – egli non può ritenersi completamente estraneo.
L’insegnamento racchiuso nello stoicismo è finalizzato più a “imparare a vivere” che ad acquisire conoscenze, e va perciò praticato per tutta la vita. Anzi la volontà di sapere può essere addirittura dannosa. Per questo Seneca raccomanda di indirizzarla bene, scegliendo accuratamente le letture, valorizzando la qualità a discapito della quantità e applicandosi allo studio con determinazione, senza saltare da un argomento all’altro.
Questo atteggiamento di ricerca esistenziale caratterizza più in generale il rapporto di Seneca con la filosofia. Contrariando la volontà del padre, che lo avrebbe voluto totalmente assorbito dagli studi di retorica – che erano il presupposto fondamentale della carriera politica –, Seneca si dedica alla filosofia fin da giovane. Si avvicina anche alla corrente pitagorica | ▶ UNITÀ 3, p. 84 |, all’epicureismo, alla ▶ scuola dei Sesti e ad altre prospettive, senza mai cercare di organizzare queste influenze eterogenee in un pensiero sistematico.
Per Seneca la filosofia è l’unico sapere capace di rendere liberi; persino le arti “liberali”, chiamate così perché ritenute degne degli uomini liberi, non si propongono di formare l’uomo virtuoso. La musica, per esempio, insegna ad armonizzare suoni emessi da strumenti diversi e a riconoscere i suoni lamentosi, ma non insegna a essere coerenti con se stessi e a evitare di lamentarsi nelle sventure. Allo stesso modo, il geometra insegna a misurare i latifondi.
Ma a cosa serve determinare l’estensione di un podere se non si è capaci di dividerlo con il proprio fratello? Se non si è in grado di distinguere quanto basta a un uomo e se non si impara a perdere tutti i possedimenti senza perdere il buonumore?
La fiducia di Seneca nella filosofia è così profonda che nella Lettera 66 afferma: «l’efficacia della filosofia è tale da giovare non solo a chi vi si applica con fervore, ma anche a chi si limita a un semplice contatto», a patto che non le si opponga resistenza e non le si manifesti ostilità. Il maestro e il discepolo, infatti, devono tendere a un obiettivo comune: il primo a far progredire, il secondo a voler progredire. Chi frequenta la scuola di un filosofo solo per il piacere di ascoltare e appuntare belle parole, che poi ripeterà senza profitto, invece che con il proposito di regolare il proprio comportamento e trovare il senso del vivere, non è allievo ma “inquilino”. Se lo scopo della vita felice viene meno, ecco che la filosofia si trasforma in filologia e si riduce a gusto estetico per la forma.
Ma che cosa vuol dire essere felici? In fedeltà alla scuola stoica, Seneca ritiene felice la persona che vive secondo natura, cioè assecondando la ragione, ovvero la caratteristica peculiare e migliore dell’essere umano. Altre qualità, come la bellezza e la forza, appartengono anche agli animali e alle piante, mentre la ragione è propria degli uomini e li rende di poco inferiori agli dèi. La felicità, dunque, non si acquisisce attraverso possedimenti, ricchezze, riconoscimento sociale, ma vivendo secondo ragione. Un’anima così orientata è equilibrata, sana e vigorosa: è consapevole di ciò che va ricercato e di ciò che va evitato, non è schiava né della buona né della cattiva sorte, non cede a minacce e a lusinghe, non si lascia esaltare e neppure deprimere dagli imprevisti.
Una simile imperturbabilità, che presuppone una certa indipendenza dall’esterno e capacità di bastare a se stessi, in che modo può conciliarsi con le relazioni e la convivenza, che in una prospettiva pedagogica sono essenziali?
Al riguardo il pedagogista Cosimo Costa sottolinea come il bisogno degli altri abbia una doppia sfaccettatura: una, negativa, si manifesta nell’istinto del gregge, che conduce a perdere la propria singolarità e autonomia di giudizio; l’altra, positiva, si esprime nel riconoscimento degli altri come interlocutori che favoriscono anche la propria crescita e nella valorizzazione della convivenza come spazio per mettere in opera le proprie qualità. La prima possibilità è decisamente rifiutata da Seneca, che propone invece la seconda via, affermando nella Lettera 60: «È vivo chi è utile a molti, è vivo chi fa buon uso di se stesso; quelli che si nascondono, immobili nel loro torpore, stanno in casa loro come in una tomba». Questo atteggiamento raggiunge l’apice nel rapporto di amicizia. L’amicizia è distinta dalla dipendenza, dal servilismo e dalla condiscendenza. È un punto di arrivo, e presuppone che le due persone stiano camminando sulla via della saggezza. La misura dell’amicizia è che si può parlare all’amico come a se stessi, nella consapevolezza che i difetti non interrompono l’amicizia: anzi, proprio la relazione con l’altro permette di prendere coscienza di sé e trasformarsi.