1 Professionisti della sapienza nell’Atene del V secolo a.C.

1. Professionisti della sapienza nell’Atene del V secolo a.C.

1.1 LA RICERCA SULLA SOGGETTIVITÀ UMANA

Il V secolo a.C. è un periodo di grandi trasformazioni per la storia del pensiero greco: l’indagine sul cosmo e la ricerca di un principio fisico o intellettuale capace di spiegare la realtà lasciano spazio a una riflessione sull’essere umano e sulla vita collettiva, che diventa prioritaria per studiosi, artisti e filosofi.
La fioritura del teatro, con le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide e con la commedia di Aristofane, la nascita della storiografia, la figura di Socrate e la sofistica si collocano proprio nel V secolo a.C., in particolare ad Atene, che dopo le vittorie sui persiani e sotto il governo democratico di Pericle (461-429 a.C.) conquista il primato politico sulle altre póleis e diventa il centro culturale più attivo della Grecia. I sofisti, non ateniesi di nascita e “maestri itineranti” da una città all’altra, scelgono proprio Atene come luogo privilegiato del loro insegnamento e della loro professione.

1.2 LA SOFISTICA E L’INSEGNAMENTO COME PROFESSIONE

Sofistica è il termine usato per designare la corrente di pensiero sorta nel V secolo a.C. per opera di pensatori detti sofisti. La parola non indica una scuola, come è stata per esempio quella pitagorica, caratterizzata da interessi e ricerche comuni. Il termine “sofista”, il cui senso generico è “sapiente”, designa una qualifica di tipo professionale e si riferisce a una particolare competenza di natura tecnica o intellettuale. I sofisti, attivi nella seconda metà del V secolo a.C., si definivano infatti i professionisti della sapienza: capaci di esercitarla, ma soprattutto di insegnarla. L’insegnamento fu infatti la professione a cui più si dedicarono. Non erano propriamente filosofi, né scienziati e neppure pensatori alla ricerca della verità. Piuttosto si occupavano dell’educazione degli uomini e della loro formazione politica soprattutto attraverso l’insegnamento della retorica, ovvero l’arte della persuasione. Con i sofisti l’areté, la virtù spirituale e morale per eccellenza, prima solo ereditabile, diventa insegnabile.
Anche se la sofistica, come si è già detto, non fu una scuola, è possibile rintracciare nel pensiero e nell’attività dei sofisti una serie di elementi comuni, quali:
  • l’attenzione per l’uomo come soggetto individuale e sociale;
  • il relativismo, ossia l’idea che non esista una verità assoluta e che la verità è sempre soggettiva;
  • l’utilitarismo, secondo cui il sapere deve avere un risvolto ▶ pragmatico;
  • la predilezione per il metodo induttivo, che parte dall’esperienza per arrivare alla formulazione di idee generali;
  • la dialettica, cioè l’arte di far prevalere con argomentazioni serrate una tesi a prescindere dalla verità del suo contenuto;
  • la retorica, cioè l’insieme delle tecniche relative all’arte del discorso | ▶ APPROFONDIAMO |.
Delle opere dei sofisti conosciamo solo alcuni frammenti, e scarse sono anche le notizie dei dossografi, gli scrittori che raccolsero le dottrine (dóxaidei pensatori greci antichi.
I sofisti fecero dell’insegnamento una professione, un mestiere. Il loro era, come scrive lo storico francese Henri I. Marrou (1904-1977), un «precettorato collettivo»: essi riunivano «attorno a sé i giovani che venivano loro affidati e di cui assumevano la formazione completa per tre o quattro anni».
Questa formazione veniva impartita dietro compenso.
Dunque, le grandi novità che contraddistinguono l’insegnamento dei sofisti da quello dei sapienti che li precedono sono:
  • la cerchia circoscritta di allievi a cui si rivolgono (il loro insegnamento non è indirizzato alla generica collettività);
  • il pagamento di alte cifre in denaro da parte degli alunni per apprendere un sapere la cui efficacia è pratica, sociale e politica.
La clientela non era assicurata: i sofisti si spostavano di città in città, accompagnati dagli alunni che a mano a mano trovavano. Per strada, nelle piazze o nei santuari bisognava persuadere il pubblico e, per farlo, usavano diverse strategie: domande e risposte brevi (brachilogia) o lunghi discorsi (macrologia). Questi ultimi potevano essere improvvisazioni brillanti e quindi estemporanee, oppure discorsi accuratamente preparati e scientificamente rilevanti.
I lunghi discorsi oratori dei sofisti hanno dato vita a un nuovo genere letterario: la conferenza. Le conferenze, che venivano retribuite, potevano essere di propaganda, e quindi aperte a tutti, oppure trattare temi tecnici e specifici per un pubblico selezionato.
I sofisti insegnavano l’arte della politica, e lo fecero prevalentemente ad Atene, che con Pericle visse la sua età d’oro, il periodo di massimo splendore culturale ed economico. È questa l’epoca in cui l’economia della città, prima legata all’agricoltura e al possesso della terra, fa un grosso balzo in avanti grazie allo sviluppo delle attività artigianali e commerciali; le arti e la cultura raggiungono vette senza precedenti (si pensi alla costruzione del Partenone, tempio consacrato alla dea Atena); le riforme democratiche di Pericle, inoltre, pongono le condizioni per la partecipazione dei ceti sociali meno abbienti alla vita politica.
In questo clima di dinamismo sociale, agonismo politico e intensa fioritura economica, culturale e artistica, i sofisti educavano gli uomini a diventare buoni cittadini, ad amministrare gli affari dello Stato e a esercitare il potere in modo efficace. Lo facevano insegnando ai loro allievi a padroneggiare la retorica, l’arte della persuasione, l’uso strategico della parola, mediante il quale ogni cittadino poteva arrivare a occupare un ruolo in seno alla propria comunità.
L’atteggiamento critico e dubbioso dei sofisti in merito al valore indiscusso della cultura tradizionale e dei fenomeni sociali, quali la religione e il mito, le leggi e il progresso, fa di loro delle figure dinamiche e innovatrici. Tuttavia, poiché il fondamento del loro insegnamento e del loro pensiero è l’arte della persuasione e dell’argomentare le proprie opinioni, essi veicolano una concezione relativistica dei valori e una certa indifferenza rispetto ai contenutinon trasmettono quindi una teoria, ma un insieme di tecniche per affermarsi nella società. Per questo furono fortemente criticati soprattutto da Aristofane, Platone e Aristotele, i quali vedevano in loro i rappresentanti di un vuoto individualismo e della privatizzazione del sapere.
I due più eloquenti esempi di questa nuova pedagogia fondata sull’arte della parola ci vengono dai padri fondatori della sofistica: Protagora e Gorgia.

approfondiamo  CHE COS’È LA RETORICA

Il vocabolo “retorica” «viene dal radicale greco rhe, che indica l’atto del dire, del discorrere, in modo pregnante e nello stesso tempo largo (come è nella natura stessa del discorrere). Poiché essa interviene su problemi di “tutti”, deve far ricorso allo strumento più diffuso di cui disponga l’umanità, e questo è appunto l’uso della parola, anzi della sequenza di parole che fa capo alla frase». La retorica comprende cinque parti: l’invenzione, la disposizione, l’elocuzione, la mnemotecnica e l’azione.
L’invenzione «corrisponde alla ricerca dei luoghi, ovvero appunto degli argomenti con l’aiuto dei quali si può sperare di ottenere il consenso intellettuale delle menti […]. Gli argomenti, una volta trovati, debbono essere disposti convenientemente, secondo una strategia ben calcolata del discorso; si può decidere di partire da argomenti minori e di poco conto, marginali, periferici, per innescare una marcia ascendente e giungere infine agli argomenti di maggior peso; o, invece, si può optare per uno schema discendente». L’elocuzione è l’«ampio ricorso alle risorse dell’espressione verbale», mentre la mnemotecnica è, «alla lettera, il ricorso alla memoria dell’oratore, il quale conduceva la sua performance, potremmo dire oggi, in presa diretta, senza potersi concedere pause di riflessione, momenti di interruzione, di sospensione: o se avesse osato prendersi tali pause, esse potevano essergli rivoltate contro, venendo interpretate come esitazioni, dubbi, difficoltà di ragionamento, con un effetto rovinoso sulla propria audience. Da qui la necessità che il buon oratore, prima di prendere la parola, si ponesse in capo l’ordine di successione dei vari argomenti cui desiderava fare ricorso, in modo da evocarli a tempo e luogo opportuni, senza dimenticanze e salti». Tuttavia, il buon oratore deve anche «“agire” la sua orazione, presentarla con l’accompagnamento del corpo, l’abile regia di effetti sonori, con parole pronunciate talora smorzando i toni, talaltra alzandoli fino a punte di massima intensità».

R. Barilli, La Retorica, Mondadori, Milano, 1983

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Le colonne del sapere

Questo murale è stato realizzato dall’artista bolognese BLU ad Atene nel 2011, mentre il paese stava attraversando una crisi economica che ha messo in discussione la sua appartenenza all’Unione Europea. L’opera d’arte, infatti, ritrae un tempio della Grecia antica i cui pilastri sono colonne di monete da 1 euro che stanno per crollare. Questa immagine suggerisce, provocatoriamente, ciò che oggi fa da sostegno a uno dei simboli principali della cultura greca antica, ampiamente riconosciuta come fondamento della democrazia europea: il valore della valuta europea. Ma i soldi possono essere i pilastri della cultura di un popolo? Che ruolo può giocare l’economia nella trasmissione del sapere e dei valori? I sofisti, che sono stati i primi a richiedere una retribuzione per il loro insegnamento, hanno a loro tempo suscitato un acceso dibattito sull’offerta a pagamento della formazione e sulle conseguenze della mercificazione dell’educazione.

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Protagora e l’umanesimo relativistico
Protagora nacque tra il 484 e il 481 a.C. ad Abdera, colonia greca sulla costa meridionale della Tracia, nell’Egeo settentrionale. La sua professione di sofista lo portò a viaggiare molto: soggiornò a lungo in Sicilia e ad Atene. Durante il governo oligarchico dei Quattrocento che prese il potere ad Atene nel 411 a.C., fu accusato di empietà: i suoi libri vennero bruciati ed egli si sottrasse alla condanna a morte fuggendo per mare. Delle sue opere rimangono pochissimi e brevi frammenti, ma della sua dottrina ha trattato in alcuni suoi dialoghi Platone, che riconobbe in Protagora un pensatore profondo.
Due frammenti concisi e lapidari sintetizzano il suo pensiero. Il primo, contenuto nel libro La verità o i discorsi demolitori e riportato da Platone nel Teeteto, afferma: «Di tutte le cose è misura l’uomo: di quelle che sono per ciò che sono, di quelle che non sono per ciò che non sono». Questa frase fonda e sancisce quello che viene chiamato “umanesimo relativistico”. Secondo Protagora, infatti, non esiste un principio esterno, assoluto, autonomo cui fare riferimento; è l’uomo, attraverso il suo punto di vista, sempre soggettivo, a essere criterio e misura di ciò che accade. L’uomo ricava ciò che sa da ciò che esperisce, e poiché le esperienze umane sono sempre relative, in quanto dipendono da un particolare punto di vista, ne consegue che tutto il sapere dell’uomo è relativo.
Questo significa anche che su ogni cosa ci possono essere opinioni contrastanti. L’insegnamento di Protagora, infatti, si basava sull’antilogia (discorso contraddittorio, dal greco antí, “contro”, e lógos, “discorso”), tant’è che Antilogie è il titolo della sua opera più importante, andata completamente perduta. Secondo Protagora, dunque, su ogni questione si può sostenere sempre il pro e il contro, e l’abilità oratoria consiste nell’avere ragione in ogni circostanza, nel rendere più forte, vero e buono il discorso più debole.
Non esistendo un criterio assoluto di verità, la scelta del singolo e dell’intera comunità, secondo Protagora, va orientata verso ciò che è utile per se stessi e per la collettività cui si appartiene. Infatti:

A chi è malato i cibi sembrano e sono amari, a chi sta bene, al contrario, sono e sembrano gradevoli. Se non che non è lecito inferire da ciò che di questi due l’uno è più sapiente dell’altro – che non è possibile – e nemmeno si deve dire che l’ammalato, perché ha tale opinione è ignorante, ed è sapiente il sano perché ha opinione contraria; bensì bisogna mutare uno stato nell’altro, perché lo stato di sanità è migliore.
E così, anche nell’educazione, bisogna tramutar l’uomo da un abito peggiore a un abito migliore. Ora, per codesti mutamenti, il sofista adopera discorsi come il medico farmaci: ma nessuno mai indusse chicchessia che avesse opinioni false ad avere opinioni vere; né di fatti è possibile che uno pensi cose che per lui non esistono, o cose estranee a quelle di cui abbia in quel momento una data impressione, ché queste soltanto per lui sono vere ogni volta. 

Platone, Teeteto, 166e-167e, trad. it. di M. Valgimigli, introd. e note di A. M. Ioppolo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 71-73


Il compito dell’educatore, dunque, consiste nell’insegnare la virtù dell’accortezzaintesa come capacità di scegliere ciò che serve, per se stessi e soprattutto per la città – la dimensione politica, infatti, secondo Protagora è fondamentale per le comunità umane –, e di saper distinguere l’utile dal
dannoso.
Un altro frammento che va nella direzione del relativismo, in senso però ▶ agnostico, dice: «Sugli dèi io non posso sapere né che esistono, né che non esistono, né quale sia la loro forma: molte sono le cose che lo impediscono, la loro invisibilità e il fatto che sia breve la vita dell’uomo». Anche rispetto alle divinità, quindi, il parametro di conoscenza di cui l’uomo deve avvalersi è la propria esperienza.

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Perché le guerre di religione?
I numerosi murales della città di Belfast raccontano i troublescioè le violenze e gli attentati che tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso hanno insanguinato con migliaia di morti l’Irlanda del Nord a causa del conflitto religioso tra gli unionisti, per lo più protestanti, che volevano la permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito, e i separatisti repubblicani, di religione cattolica, che chiedevano invece la riunificazione politica dell’Irlanda. Solo nell’aprile 1998 si pose fine al conflitto con la firma dell’accordo del Venerdì Santo e due successivi referendum che decisero la permanenza nel Regno Unito dell’Irlanda del Nord. Negli ultimi anni il messaggio sui muri è cambiato. I giovani writer vogliono mandare messaggi positivi, di unione e pace. Emblematico è in questo senso il murale Il figlio di Protagora. L’immagine rappresenta un ragazzo irlandese, rivolto ai passanti, che tiene in mano una colomba trafitta da due frecce: su una, la croce dei Cavalieri di Malta, ripresa come simbolo dal protestantesimo, sull’altra la croce latina di tradizione cattolico-cristiana. Il titolo fa riferimento al filosofo greco Protagora, noto per il suo agnosticismo religioso. Il messaggio del murale rappresenta dunque una provocazione per ribadire l’inutilità delle contrapposizioni religiose, che non hanno ragione di sussistere e sono lesive della convivenza tra le persone e della pace.

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CITTADINI RESPONSABILI

La libertà di espressione

L’articolo 21 della Costituzione italiana tutela la libertà di stampa e di espressione, affermando che «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Questo articolo è spesso travisato da coloro che, in nome di tale garanzia di libertà, dichiarano di avere il diritto di diffondere messaggi che istigano all’odio razziale, alla violenza contro le donne, gli omosessuali e le persone trans. Per esempio, un caso è rappresentato dalle “Sentinelle in Piedi”, un gruppo di persone nato nel 2013 per difendere la libertà di espressione minacciata, a loro avviso, dal disegno di legge Scalfarotto, che si proponeva di contrastare la violenza discriminatoria motivata da odio contro le persone omosessuali o di diversa appartenenza etnico-culturale, nazionale e religiosa.
“Le Sentinelle in Piedi” non volevano, in realtà, difendere la libertà di espressione, bensì limitarla a chi aveva un pensiero diverso dal loro.

Gorgia: maestro di retorica
Gorgia nacque in Sicilia, a Lentini (Siracusa), intorno al 483 a.C. Giunse ad Atene nel 427, dove riscosse un grande consenso con la sua arte oratoria e come insegnante di retorica. Scrisse diverse opere di vario genere, tra cui: un trattato filosofico dal titolo Sul non essere o sulla natura, il cui contenuto ci è noto sotto forma di compendio; un’orazione funebre in lode dei cittadini ateniesi caduti nella guerra del Peloponneso; un manuale intitolato Téchne (“Arte retorica”), dove era forse esposta la sua teoria sulla retorica. Le uniche opere a essersi conservate sono le due orazioni fittizie intitolate Encomio di Elena e Difesa di Palamede, in cui Gorgia dimostra con solide argomentazioni logiche l’innocenza dei due eroi: l’una ritenuta responsabile della guerra di Troia, l’altro accusato di aver tradito gli ▶ achei in cambio di denaro.
Nell’opera Sul non essere, Gorgia dimostra tre tesi:
  • nulla esiste. Non esistono né l’essere né il non essere: il non essere non c’èperché se ci fosse sarebbe essere e non essere insieme, e questa è una contraddizione in termini; l’essere non c’è, perché se ci fosse sarebbe o eterno o generato, o entrambe le cose insieme. Tuttavia, se fosse eterno sarebbe infinito, quindi non sarebbe in nessun luogo e non esisterebbe affatto; se invece fosse generato, dovrebbe essere nato o dall’essere o dal non essere, il che non è possibile. Infatti dal non essere non nasce nulla, e se l’essere è nato dall’essere, significa che c’era prima e quindi non è stato generato;
  • se anche qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile dall’uomo. «Le cose pensate – spiega il filosofo Nicola Abbagnano – non esistono: altrimenti esisterebbero tutte le cose inverosimili e assurde che all’uomo piace pensare. Ma se è vero che ciò che è pensato non esiste, allora sarà anche vero che ciò che esiste non è pensato e che perciò l’essere, se c’è, è inconoscibile».
  • se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri.
    Noi ci esprimiamo con la parola, ma la parola non è l’essere, dunque con le parole non possiamo comunicare l’essere.
Ne consegue l’impossibilità, secondo Gorgia, di fondare una verità e un’▶ etica unica e assoluta, perché la parola non può comunicare la verità, può solamente esprimere suggestioni e sentimenti al fine di persuadere in ogni circostanza.
Nel pensiero del filosofo la parola ha il potere di suscitare emozioni e passioni, «è un potente sovrano, ha la virtù di troncare la paura, di rimuovere il dolore, d’infondere gioia, d’intensificare la compassione», agendo come una sorta di farmaco che crea dipendenza e incanta. Affinché la parola possa esplicare questo suo enorme potere, tuttavia, è necessario che la forma e lo stile siano accurati. Grande maestro di stile, Gorgia infuse alla sua prosa un forte colorito poetico, ponendo particolare attenzione al ritmo e alla musicalità delle frasi e delle parole e facendo ampio uso di rime e figure retoriche di vario genere.
Egli impartiva il suo insegnamento somministrando agli allievi esercizi di vario tipo, quali: imitazione di orazioni da lui composte e attività di composizione virtuosistica su soggetti immaginari. In questo modo gli studenti si addestravano nella pratica oratoria. Importante era anche l’aspetto della retorica dedicato all’improvvisazione.

FINESTRE INTERDISCIPLINARI – Psicologia & Teatro

IL TEATRO COME MEZZO DI RIFLESSIONE PEDAGOGICA: I DUE DISCORSI

La commedia del V secolo a.C. fu un fenomeno artistico di carattere politico: attraverso la satira, infatti, venivano posti all’attenzione del pubblico situazioni e personaggi di attualità e aspetti della vita civile. In questo passo delle Nuvole del commediografo Aristofane viene messa in scena la contesa tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto. Il primo rappresenta un modello educativo chiuso, tradizionalista, conformista; l’altro riproduce un amorale individualismo dove vince solo chi riesce, senza scrupolo, a prevalere sugli altri.

DISCORSO GIUSTO Vieni qui, presentati agli spettatori: la faccia tosta, ce l’hai.
DISCORSO INGIUSTO Va’ dove ti pare: più gente ci sarà e più facilmente ti rovinerò, parlando.
DISCORSO GIUSTO Tu, rovinarmi! E chi sei?
DISCORSO INGIUSTO Il discorso.
DISCORSO GIUSTO Quello debole.
DISCORSO INGIUSTO Ma vinco te, che pur affermi esser più forte di me.
DISCORSO GIUSTO Con quali arti?
DISCORSO INGIUSTO Inventando nuove sentenze.
DISCORSO GIUSTO Già, questa roba che fiorisce adesso (indicando il pubblico) per via di questi sciocchi.
DISCORSO INGIUSTO Saggi, non sciocchi.
DISCORSO GIUSTO Io ti concerò molto male.
DISCORSO INGIUSTO E che farai, dimmi?
DISCORSO GIUSTO Dirò il giusto.
DISCORSO INGIUSTO E io ribatterò e ti sconvolgerò ogni cosa: affermo, infatti, che la giustizia non esiste affatto.
DISCORSO GIUSTO Affermi che non esiste?
DISCORSO INGIUSTO E su, allora: dove si trova?
DISCORSO GIUSTO Presso gli dèi.
DISCORSO INGIUSTO E allora, se esiste giustizia, come mai Zeus non l’ha pagata, lui che ha messo in catene suo padre1.
DISCORSO GIUSTO Ahi, già mi sento male: datemi un catino!
DISCORSO INGIUSTO Un vecchio pazzo sei, e squilibrato!
[…]
DISCORSO GIUSTO Per causa tua, nessun ragazzo vorrà andare a scuola. E gli Ateniesi si accorgeranno, un giorno, che cosa vai insegnando a questi sciocchi.
DISCORSO INGIUSTO Sei ridotto da far pietà.
CORO Basta con le risse e gli insulti. Ma tu, fa’ vedere (a Discorso Giusto) che cosa insegnavi a quelli di una volta; e tu (a Discorso Ingiustopoi, questa nuova educazione: udito il vostro contraddittorio, egli scelga da chi andare a scuola2.
DISCORSO GIUSTO Facciamo così.
DISCORSO INGIUSTO Facciamolo.
[…]
DISCORSO GIUSTO Vi dirò dunque l’antica educazione com’era, quando io fiorivo dicendo il giusto e la modestia era tenuta in conto. In primo luogo, un ragazzo non doveva sentirsi nemmeno a bisbigliare una parola: poi, dovevano sfilare per le vie in ordine, verso la casa del maestro, tutti quelli di un quartiere insieme, nudi anche se nevicava come farina da uno straccio. Poi ancora, il maestro cominciava con l’insegnar loro un canto, che essi imparavano senza accavallar le cosce […] mantenendo l’accordo tramandato dai padri3.
[…] A scuola di ginnastica, poi, dovevano sedere con le gambe allungate, in modo da non mostrar nulla d’indecente a quelli fuori;
[…]
DISCORSO INGIUSTO Roba vecchia […] Da tempo mi sentivo strozzare fin nelle viscere e ardevo dalla voglia di mandar per aria tutta codesta roba con opposti argomenti. […]
Ma considera, o giovinetto, quante cose comporta la temperanza e di quanti piaceri dovresti privarti: fanciulli, donne, cottabo4ghiottonerie, bevute, risate. E ti par che valga la pena di vivere, senza queste cose? D’accordo. E vengo ora ai bisogni di natura. Tu hai fatto qualche sciocchezza, ti sei innamorato, hai cornificato qualcuno e sei stato sorpreso: sei perduto, perché non sei capace di parlare.
Ma se te la fai con me, approfitta pure della natura, salta, ridi, non aver nulla per turpe.
E se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male, e poi danne la colpa a Zeus: anche lui è debole di fronte all’amore e alle donne. E tu, mortale, come saresti più forte di un dio?

Aristofane, Nuvole, 889-1082, in Commedie, trad. di R. Cantarella, Istituto editoriale italiano, Milano, 1949, pp. 148-152

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La memoria della città
Nel 2017 a Lentini, in Sicilia, è nato un progetto per riqualificare il quartiere Badia. L’idea di rigenerazione urbana che l’iniziativa sottende è quella di creare un percorso “di cultura a cielo aperto”. Attraverso l’arte e in particolar modo la street art, si desidera far rivivere la memoria della città, ritraendo anche le persone che ne hanno fatto la storia.
Per l’edizione 2018 sono stati invitati quattro artisti, tra cui Marta Lorenzon. L’illustratrice di Pordenone ha ritratto Gorgia, il filosofo nativo di Lentini, con capelli grigio-azzurri, una folta barba e uno sguardo fiero.

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1.3 ASPASIA DI MILETO: LA STRANIERA INTELLETTUALE

«Non esiste nessuna donna greca che non sia diventata famosa se non attraverso gli uomini, o per lo meno, attraverso un uomo» scrive Nicole Loraux (1943-2003), storica e antropologa del mondo antico. Aspasia, infatti, è la donna più conosciuta e famosa dell’▶ età classica perché fu maestra di Socrate e compagna di Pericle.
Aspasia non era originaria di Atene, veniva dalla Grecia asiatica, da Mileto, la culla della sapienza filosofica. «La compagna di Pericle era ad Atene una straniera e tale restò fino alla morte […] e forse fu proprio questo statuto di meteca (straniera), che le impediva di essere la moglie legittima dell’uomo con cui viveva (Pericle), a dare alla milesia la libertà di essere un’intellettuale e quel prestigio, un po’ soffocante ma eccezionale, che nell’Atene classica era collegato al suo nome», scrive Loraux.
Aspasia si trasferì ad Atene poco dopo il 450. Come racconta lo scrittore greco Plutarco nella Vita di Pericle, lo statista ateniese si innamorò di lei perché «era sapiente e versata nella politica» e maestra di retorica. Non divenne mai sua moglie, perché Pericle stesso aveva da poco emanato una legge che escludeva dalla cittadinanza i nati da matrimoni con uno straniero. Rimase la sua compagna, la sua consigliera privilegiata, la sua maestra.
La loro relazione si fondava su una grande affinità intellettuale e Aspasia fu l’autrice di numerosi discorsi tenuti da Pericle. Per lei questi ripudiò la moglie e, prosegue Plutarco, «presala a casa, e avuto da lei un altro figlio, le dimostrava talmente tanto amore da abbracciarla e baciarla tutte le volte che usciva e rientrava dall’agorà». Questa relazione fu così importante per Pericle che egli, rimasto senza eredi poiché i figli legittimi erano morti, modificò la legge sulla cittadinanza per consentire al figlio avuto con Aspasia di essere iscritto nella lista dei cittadini.
Aspasia frequentò politici importanti e intellettuali di spicco, tra cui il filosofo Socrate. La tradizione antica fa di lei un’etèra | ▶ APPROFONDIAMO |, ma illustri cittadini ateniesi si recavano ad ascoltarla con le loro mogli perché, a quanto pare, le educava alla convivenza e al sodalizio domestico.
Pare che Socrate ebbe come maestra Aspasia sia nell’arte retorica sia nelle questioni filosofiche riguardanti l’amore. I due, infatti, condividevano una visione paritaria della relazione tra i sessi e «una visione dell’insegnamento nel quale l’amore è strumento primario di trasmissione di sapere» (V. Andò, grecista).

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La maestra di Socrate

Nell’Atene del V secolo a.C., dove l’azione della donna è confinata all’ambito domestico e il silenzio è considerato una delle maggiori virtù femminili, la figura di Aspasia rappresenta un caso del tutto eccezionale.
A casa di Aspasia, eccellente maestra di oratoria originaria di Mileto, si riunivano per dibattere con lei filosofi, artisti, politici, poeti. In questo dipinto l’anziano filosofo Socrate e il giovane Alcibiade, politico e generale ateniese, ascoltano ammirati le sue parole. Pare che il primo abbia avuto Aspasia come sua maestra nell’arte retorica e nelle questioni filosofiche riguardanti l’amore.

  esperienze attive

Ius soli e ius sanguinis Nel 451 a.C. Pericle introdusse una legge secondo la quale si poteva essere cittadini ateniesi solo se nati da genitori entrambi ateniesi. Oggi come si può diventare cittadini italiani? Che cosa s’intende per ius soli e per ius sanguinis? Cerca informazioni sull’argomento, poi discuti con i compagni sul ruolo della legislazione nella costruzione di una società inclusiva.

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approfondiamo  LE TRE DONNE DELL’UOMO ATENIESE: MOGLIE, CONCUBINA, ETÈRA

Dice Demostene1, in un celebre passo, che l’uomo ateniese poteva avere tre donne: la moglie (damar o guné) per avere figli legittimi; la concubina (pallaké“per la cura del corpo”, vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; e, infine, l’etèra, hedonés heneka, ovverosia per il piacere. Questa “tripartizione” delle funzioni femminili, nel rapporto con l’uomo (di per sé estremamente sintomatica della strumentalità del rapporto uomo-donna), pone peraltro alcuni problemi, determinati dalla necessità di delimitare i confini del ruolo di concubina. Nella consuetudine quotidiana, infatti, il rapporto con la pallaké (che, a volte, era accolta addirittura nella casa coniugale) era sostanzialmente identico a quello con la moglie, ed era sottoposto a una regolamentazione giuridica che da un canto imponeva alla concubina l’obbligo della fedeltà, esattamente come se fosse una moglie; e dall’altro riconosceva ai figli nati dalla concubina alcuni diritti successori, sia pur subordinati a quelli dei figli legittimi. Ma questo non significa che il diritto ateniese autorizzasse la bigamia, come si è spesso affermato citando una frase di Diogene Laerzio2. Scrive Diogene, in effetti, che gli ateniesi «a causa della scarsità di uomini, desideravano aumentare la popolazione e approvarono una legge secondo la quale un uomo poteva sposare una donna ateniese e avere figli da un’altra». E anche recentemente la frase è stata considerata una prova del fatto che il diritto ateniese, sia pur temporaneamente e in circostanze eccezionali, avrebbe ammesso la bigamia.
Ma, a ben vedere, la frase significa una cosa molto diversa. Più precisamente, significa che gli ateniesi riconobbero ai figli nati fuori dal matrimonio un certo status. In altre parole, riconobbero e regolarono giuridicamente l’esistenza delle concubine, accanto alle mogli, ma in posizione diversa da queste, stabilendo una precisa gerarchia fra i due rapporti stabili che l’uomo poteva avere.
Ma, come dice Demostene, la gamma dei possibili rapporti che un uomo ateniese poteva avere con le donne non si esaurisce qui. Oltre alla moglie e alla concubina, infatti, egli poteva avere anche una terza donna che, pur non essendo legata a lui da un rapporto stabile, non era neppure, tuttavia, un’accompagnatrice occasionale: e questa terza donna era l’etèra.
Più educata di una donna destinata al matrimonio, l’etèra, destinata, invece, professionalmente ad accompagnare gli uomini nei luoghi nei quali moglie e concubina non potevano seguirli, era una specie di rimedio organizzato da una società di uomini che, avendo segregato le donne, riteneva tuttavia che la compagnia di alcune di esse potesse rallegrare le attività sociali, gli incontri fra amici, le discussioni che le mogli, oltre a non dovere, non erano comunque in grado di sostenere. Ed ecco quindi l’etèra, la terza donna, alla quale l’uomo remunerava un rapporto (anche sessuale) che, pur non essendo esclusivo, non era neppure meramente occasionale.
Una “compagna” dunque (perché questo è il significato di etèra) alla quale l’uomo chiedeva e pagava una relazione in qualche misura gratificante anche sotto il profilo intellettuale, e quindi del tutto diversa sia dal rapporto con la moglie sia da quello con una prostituta | ▶ APPROFONDIAMO, p. 122 |.

E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Le donne nell’antichità greca e romana, Einaudi Scuola, Milano, 1995, p.49

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approfondiamo  LA PROSTITUZIONE FEMMINILE

Nella maggior parte dei casi di condizione servile, la prostituta (pornéera una donna che, pur esercitando una professione non vietata dalla legge (che puniva come reato la prostituzione maschile, ma non quella femminile), era oggetto di pesante riprovazione sociale, e veniva presa in considerazione dalle leggi della città solo per due motivi: per fissare il limite massimo della sua tariffa, e per pretendere da lei il pagamento di un’imposta sul reddito.
Molto diversa da quella di una comune prostituta, però, era la condizione della donna che, anziché vendersi nelle strade o nei bordelli, si vendeva nei templi.
Come in Oriente, anche in Grecia esistevano delle prostitute sacre (hierodoúlaiche, dopo essere state consacrate alla divinità, si vendevano ai pellegrini, devolvendo i proventi delle loro attività al tempio presso cui prestavano servizio.
Quale fosse lo statuto giuridico delle hierodoúlai è cosa discussa, ritenendosi da alcuni che esse fossero delle schiave del tempio e da altri, invece, che la consacrazione alla divinità le rendesse libere, anche se obbligate a vivere nel tempio e a prestare ivi servizio come prostitute. Ma ai nostri effetti la questione non ha particolare rilevanza. Comunque destinate a vendersi, le hierodoúlai erano, in ogni caso, delle prostitute privilegiate, e non solo per la protezione e gli agi, certamente maggiori di quelli di cui godevano le altre prostitute, che derivavano loro dalla vita nel tempio. Il loro privilegio consisteva anche e soprattutto nella loro “sacertà”1 che le collocava nella scala sociale in una posizione molto diversa da quella delle pornái, e circondava la loro attività di un alone che consentiva loro, come dice Pindaro (poeta greco, 518-438 a.C.) nel suo famoso skolion2 dedicato alle “ragazze sacre” di Corinto, di «senza biasimo negli amabili letti della tenera età cogliere il frutto», e che indusse Simonide (poeta greco, 556-468 a.C.) a ringraziarle per avere contribuito, con le loro preghiere, alla vittoria sui Persiani. 
 

E. Cantarella, L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana, Einaudi Scuola, Milano, 1995, pp. 51-52

per lo studio

1. Quali trasformazioni investono il pensiero greco nel V secolo a.C.?
2. Quali innovazioni apportano i sofisti nel campo della trasmissione del sapere e che cosa si intende per relativismo quando si parla di loro?
3. Che cosa accomuna Socrate e Aspasia rispetto al tema dell’educazione?


  Per discutere INSIEME 

Ai nostri giorni secondo te in quale donna si esprime la sapienza propria di Aspasia? Fai una ricerca insieme ai tuoi compagni in un piccolo gruppo, soffermandoti su un’intellettuale contemporanea. Quindi esponetela e descrivetela in classe.

I colori della Pedagogia - volume 1
I colori della Pedagogia - volume 1
L'educazione dal mondo antico all’alto Medioevo - Primo biennio del liceo delle Scienze umane