2. Le organizzazioni e il lavoro: tra industria e servizi

2. Le organizzazioni e il lavoro: tra industria e servizi

2.1 UNA SOCIETÀ POST-INDUSTRIALE

Con l’espressione “società postindustriale” si fa riferimento ad alcuni grandi cambiamenti che hanno investito le società occidentali a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso soprattutto dal punto di vista dei processi produttivi. Questi hanno riguardato innanzitutto la transizione da un’economia fortemente basata sulla produzione industriale e di massa, a un’economia centrata sui servizisulla personalizzazione dei prodotti.
Se nel dopoguerra la maggior parte della forza lavoro era impiegata nell’agricoltura e nelle fabbriche, dagli anni Ottanta in poi sempre più persone lavorano nel cosiddetto settore terziario. Tradizionalmente, infatti, il sistema produttivo viene suddiviso in tre settori:
  • primario, che include l’agricoltura, le attività minerarie, le foreste e la pesca;
  • secondario, che include l’industria manifatturiera e le costruzioni;
  • terziario, che raggruppa tutte le diverse tipologie di servizi.
Del settore terziario fanno quindi parte tanto i trasporti e le comunicazioni, gli esercizi pubblici e commerciali, i servizi immobiliari e quelli alle imprese, quanto l’istruzione, la sanità pubblica e la pubblica amministrazione, nonché la ricerca, la formazione e il volontariato. Nel complesso, quindi, del settore terziario fanno parte attività anche molto diverse tra loro, ma che hanno alcune caratteristiche in comune, che rendono possibile distinguerle dai beni.
La differenza essenziale tra un bene e un servizio consiste nella loro materialità: i beni sono materiali e possono essere toccati, come una bicicletta, una lavatrice o un telefono, i servizi sono immateriali e, quindi, non possono essere toccati, come nel caso di una lezione a scuola o delle cure mediche. È possibile toccare il risultato di un servizio, come quando ordiniamo qualcosa al bar o al ristorante, ma non il servizio stesso, come l’atto di cucinare o di servire una bevanda.
Il primo a definire le caratteristiche dei servizi, nel 1968, fu l’economista americano Victor R. Fuchs (n. 1924), il quale rilevò come l’immaterialità dei servizi comporti alcune conseguenze. Il fatto che i servizi siano intangibili fa sì che si esauriscano nel momento della loro produzione: il servizio ricevuto al bar o al ristorante termina non appena abbiamo finito di consumare ciò che abbiamo ordinato. Ciò vuol dire che i servizi non sono immagazzinabili o trasportabilinon possiamo mettere nello zaino e portare con noi il trattamento ricevuto al ristorante, dal dentista o dal parrucchiere. I servizi, quindi, necessitano di essere realizzati in presenza del consumatore, da cui sono inseparabili. Un’operazione clinica, una lezione a scuola o un taglio di capelli, per esempio, richiedono necessariamente la presenza di chi fruisce dei servizi stessi.
In una società sempre più digitalizzata, tuttavia, alcune di queste caratteristiche diventano meno stringenti. Le tecnologie digitali oggi consentono lo sviluppo di servizi a distanza. Per esempio, è possibile fruire di corsi di formazione anche online, parlare col proprio medico e ricevere referti di analisi a distanza, ordinare da mangiare attraverso un’applicazione, acquistare un biglietto ferroviario o aereo senza bisogno di recarsi in stazione o in un’agenzia di viaggi e senza dover parlare con nessuno.
Questo ci riporta al secondo fenomeno che caratterizza la società postindustriale, ossia la diffusione delle tecnologie digitali e l’▶ automazione dei  processi produttivi. Già a partire dagli anni Settanta, all’interno delle grandi fabbriche, gli operai addetti alla produzione iniziano a essere sostituiti da macchinari computerizzati capaci di eseguire l’intera fabbricazione di un prodotto. Il lavoro dell’operaio diviene dunque quello del tecnico specializzato che controlla i macchinari. La sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine diminuisce la necessità di manodopera e può anche implicare un aumento della disoccupazione. Allo stesso tempo, nuovi macchinari e tecnologie richiedono nuove figure professionali e favoriscono la nascita di nuovi lavori. Il diffondersi delle tecnologie informatiche e dell’automazione porta così al tramonto di alcuni lavori – per esempio, quello dell’addetto alla biglietteria ferroviaria, del cassiere del supermercato o del casellante autostradale –, ma anche al sorgere di nuove professionalità quali il web designer, il tecnico informatico o il programmatore.
Come scriveva già nel 1973 il sociologo statunitense Daniel Bell (1919-2011), in una società post-industriale l’informazione e la conoscenza rappresentano la principale risorsa strategica. Ciò implica:
  • il passaggio da un sistema basato sulla produzione delle merci a uno orientato alla produzione del sapere;
  • l’aumento del numero di lavoratori impiegati nel settore terziario e dei cosiddetti knowledge workers (“lavoratori della conoscenza”);
  • la crescente centralità del saper fare, quale capacità di tradurre il sapere teorico in idee e tecnologie in cui la collettività possa riconoscersi e identificarsi;
  • la rilevanza che, a livello politico e sociale, assumono professionisti appartenenti ai settori della scienza, della comunicazione, dell’informazione e delle industrie culturali;
  • la nascita e lo sviluppo di nuove discipline e teorie legate allo sviluppo sociale e tecnologico.
Qualche anno prima, nel 1969, il sociologo francese Alain Touraine | ▶ L’AUTORE | aveva usato l’espressione “società post-industriale” per riferirsi non tanto al tipo di sistema produttivo, quanto alla nascita di nuovi soggetti politici e temi di rivendicazione sociale. Se il movimento operaio si era infatti sempre concentrato su problemi riguardanti il lavoro e i diritti dei lavoratori, i movimenti studenteschi, femministi e delle minoranze etniche avevano messo in questione la gestione dell’istruzione, dei trasporti, dei mezzi di comunicazione e, più in generale, della vita collettiva. Donne, studenti e minoranze etniche divengono così nuovi attori collettivi capaci di influenzare il dibattito politico e l’organizzazione dell’intera società.
A circa mezzo secolo di distanza, i lavori di Bell e Touraine appaiono quasi come una profezia: le tecnologie digitali hanno dato un ulteriore impulso ai processi di automazione del lavoro; le professioni più ambite richiedono conoscenze sempre più esperte; i movimenti sociali, più che i tradizionali partiti, orientano il dibattito politico e cercano di dialogare con le istituzioni: si pensi, per esempio, alla questione dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale.

  INVITO ALL’ASCOLTO   
Kraftwerk, THE ROBOTS

Le parole We are the robots (“Siamo i robot”) cantate, nel 1978, dal famoso gruppo elettronico tedesco Kraftwerk, sono una profezia della nostra era, caratterizzata dalla presenza pervasiva delle tecnologie digitali, dai processi di automazione e dal “lavoro delle macchine” (non a caso il termine “robot” deriva dalla parola ceca robota, lavoro pesante).
All’epoca unici nel loro genere ed espressione della scena musicale underground ed elettronica della Germania Occidentale degli anni Settanta, i Kraftwerk sono divenuti nel tempo un riferimento essenziale per tutta la successiva musica electro o synth-pop contemporanea.

l’autore  Alain Touraine

Alain Touraine nasce a Hermanville-sur-Mer (Francia), nel 1925, e costituisce una figura chiave per la sociologia del Novecento. Formatosi presso l’École Normale Supérieure di Parigi, Touraine diventa inizialmente famoso per una ricerca intitolata Evoluzione del lavoro operaio nelle officine Renault (1955). Qui, rifacendosi a Marx, individua tre modelli idealtipici di organizzazione del lavoro, a seconda del tipo di tecnologie impiegate e del livello di automazione del lavoro che queste implicano. In seguito, getta le basi teoriche per una sociologia dell’azione (Sociologia dell’azione, 1965), che gli fornisce gli strumenti per chiarire il passaggio dalla società industriale verso un nuovo stadio, che egli definisce “post-industriale” (La società post-industriale, 1969). A partire dalla metà degli anni Settanta, privilegia lo studio dei movimenti sociali, cosa che lo porterà in anni più recenti a occuparsi anche di disuguaglianze sociali (Eguaglianza e diversità. I nuovi compiti della democrazia, 1997); globalizzazione (La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, 2008); identità e diritti collettivi (Noi, soggetti umani. Diritti e nuovi movimenti nell’epoca post-sociale, 2017).
Alla base del suo pensiero vi è l’idea che la società non possa ridursi alle sue regole e a schemi di funzionamento e che, anzi, l’azione collettiva tenda sempre a modificare e superare tali regole. Per Touraine la società è infatti un sistema d’azione, ossia un insieme complesso di attori definiti da intenzioni, orientamenti culturali e rapporti sociali.
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2.2 LE ORGANIZZAZIONI: I MODELLI PRODUTTIVI

I modelli produttivi che avevano segnato il Novecento sono essenzialmente due.
  • Il taylor-fordismo. Nato durante gli anni Venti negli Stati Uniti nelle fabbriche automobilistiche della Ford, è immortalato nell’immagine degli operai che, all’interno di grandi ambienti produttivi, lavorano alla catena di montaggio. Essa è l’applicazione della cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro” teorizzata da Frederick W. Taylor (1858-1915), da cui il nome taylor-fordismo. Secondo Taylor, l’organizzazione del lavoro poteva essere “scientifica” grazie a una rigida definizione di tempi e metodiOvvero, scomponendo i processi di lavoro in tante micro-fasi, calcolando i tempi minimi necessari per ognuna di esse, e assumendo operai specializzati capaci di rispettare tali tempi. Con l’introduzione della catena di montaggio, infatti, sono i “pezzi” ad arrivare agli operai e il ritmo del lavoro è dettato dalla macchina. Per limitare gli sprechi di tempo, il singolo operaio deve concentrarsi unicamente sulla sua mansione, senza bisogno di conoscere le diverse fasi del processo produttivo né di comunicare con i colleghi.
    Il modello taylor-fordista era pensato per un mercato e una produzione di massa: vendere grandi quantità di prodotti il più possibile standardizzati.
  • Il toyotismo. Sul finire degli anni Settanta si assiste alla rapida ascesa nel mercato automobilistico dell’industria giapponese, il cui modello si ispira invece alla cosiddetta “produzione snella” (lean production). Tale modello ribalta la concezione del mercato e del prodotto. Per massimizzare il loro profitto, le organizzazioni devono essere capaci di adattare il prodotto a quelle che sono le richieste specifiche dei clienti e dunque passare dalla produzione di grandi quantità di prodotti altamente standardizzati a quantità variabili di prodotti personalizzati. Taiichi Ohno, manager e ingegnere della Toyota, identificò i principi della produzione snella nel cosiddetto just in time (“giusto in tempo”) e nella cosiddetta fabbrica a sei zeri:
    • zero stock;
    • zero difetti;
    • zero tempi morti di produzione;
    • zero conflitto;
    • zero tempo di attesa per il cliente;
    • zero burocrazia.

    Le linee di produzione assumono una forma a U, in modo che gli operai possano vedere ciò che accade nelle diverse fasi del processo produttivo, intervenendo nel caso vi siano difetti e autocorreggendo l’errore in tempo reale. È questo il cosiddetto principio di auto-attivazione, che restituisce agli operai una maggiore autonomia e discrezionalità nell’eseguire il lavoro: a fronte di& gravi errori o problemi, essi ora possono addirittura fermare la produzione. Nella fabbrica toyotista il baricentro della produzione si sposta quindi dagli uffici dei manager alle officine: i tecnici si calano nei gruppi di lavoro (in produzione) e i manager diventano responsabili dei risultati delle unità loro assegnate. Ciò porta a costruire un senso di comunità, indispensabile al fine di garantire la collaborazione tra i lavoratori. L’organizzazione dev’essere capace di costruire attivamente tale senso di comunità attraverso la gestione della cultura organizzativa. Essa comprende quell’insieme di valori, simboli, artefatti e rituali tipici dell’organizzazione che producono un senso di appartenenza in chi lavora, stimolando così l’impegno. Gli stimoli al lavoro possono essere di carattere materiale, per esempio, premiando economicamente chi ottiene i risultati migliori, ma anche di carattere immateriale, per esempio incentivando la creatività, l’intraprendenza, l’autostima, il senso d’identità e di appartenenza collettiva.

Il passaggio dal taylor-fordismo al toyotismo segna quindi una profonda frattura: produzione di massa, standardizzazione, gerarchia e sicurezza del posto di lavoro, da un lato, e, dall’altro, adattamento dei prodotti alla crescente variabilità delle richieste degli acquirenti, maggiore qualificazione e autonomia degli operai, incentivi materiali e immateriali, ma anche una maggiore intensità del flusso produttivo. Ma il passaggio dal taylor-fordismo al toyotismo è rilevante in quanto mostra come l’attenzione per la conoscenza e il lato “immateriale” del lavoro prenda forma non solo per la rilevanza acquisita dal settore terziario, ma anche all’interno della stessa industria manifatturiera.

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2.3 LE ORGANIZZAZIONI: I SERVIZI

Le organizzazioni, sia che producano servizi sia che producano beni materiali, prestano sempre più attenzione agli aspetti intangibili che accompagnano i prodotti e la produzione. Che il prodotto sia un’auto, un computer, una lavatrice o un abbonamento a una compagnia telefonica, il servizio (quello alla clientela, per esempio) è sempre più parte integrante e qualificante. Talvolta, si preferisce un prodotto di una determinata marca a quello di un’altra proprio per i servizi connessi: una compagnia telefonica può essere preferibile a un’altra perché ha un servizio clienti molto efficiente o perché offre determinati servizi aggiuntivi ai suoi abbonati; lo stesso dicasi per un’automobile o uno smartphone. Del resto, in un mondo globalizzato, in cui i prodotti abbondano ed è possibile acquistarli senza recarsi fisicamente in negozio, i servizi collegati e l’attenzione per il cliente divengono proprio quegli elementi che possono fare la differenza.
Sull’esempio della Toyota, le organizzazioni si distinguono oggi anche per il loro porre sempre più attenzione alla costruzione dell’identità e della cultura organizzativa. Imprese quali Google o Apple rappresentano gli esempi più famosi di come oggi le aziende costruiscano la loro cultura e la loro immagine attorno ad alcune caratteristiche specifiche: i rapporti informali, il lavoro come passione e l’esaltazione della creatività individuale.
Inoltre le organizzazioni dedicano molta attenzione alle attività di ricerca e sviluppo e investono sempre di più nei processi di digitalizzazione e automazione, tanto nel campo dell’industria, quanto dei servizi. Non a caso, da alcuni anni si parla di “industria 4.0”, proprio per indicare la tendenza a creare nuovi modelli di business e aumentare la produttività degli impianti e la qualità dei prodotti attraverso l’uso integrato di diverse tecnologie.
Cambiano di conseguenza le competenze e le abilità ricercate: il ▶ problem solving rimane la competenza non specifica più richiesta, e parallelamente, diventano più importanti la creatività e la capacità di pensare fuori dagli schemi tradizionali. 

L’immagine a fianco (1), per esempio, riassume efficacemente alcuni dati che inquadrano il livello di “tecnologizzazione” delle imprese rilevato dall’Istat in Italia nel 2018.

I valori riportati sono quelli medi, dunque bisogna guardare un po’ più nel dettaglio. Del campione fanno infatti parte imprese diversissime, sia per prodotto e settore di mercato, sia per dimensioni. In particolare, c’è un ampio divario tra grandi e piccole imprese nel livello di digitalizzazione e di investimento in specifiche figure professionali.
Il grafico a fianco (2), per esempio, mostra come livelli “alti” o “molto alti” di digitalizzazione siano presenti nel 44% delle imprese con almeno 250 addetti e solo nel 12,2% delle imprese da 10 a 49 addetti.
Lo stesso dicasi per l’investimento in figure professionali con competenze ICT, dove il divario tra imprese con almeno 250 addetti e imprese da 10 a 49 addetti è ancora maggiore, come indicato dal grafico a fianco (3).
Al pari di ciò che accade con la scienza e la tecnologia, infine, nell’età postindustriale le organizzazioni sono sempre più in contatto con la società. Ciò vuol dire che le organizzazioni vengono valutate non solo per quella che è la loro performance economica, ma anche in base a criteri di etica e responsabilità sociale. Il trattamento riservato ai lavoratori e il rispetto dei loro diritti, l’attenzione per gli impatti ambientali derivanti dalla produzione, il tipo di valori che l’organizzazione promuove divengono così parte della sua immagine e identità, al punto, in alcuni casi, da incidere sul suo successo | ▶ APPROFONDIAMO |. Non a caso, sempre più organizzazioni certificano la qualità, la provenienza e la sostenibilità delle loro filiere produttive. Basti pensare a tutti i prodotti “bio” che si trovano nei supermercati o ai prodotti del cosiddetto “mercato equo e solidale”, che cercano di valorizzare le piccole aziende dei paesi in via di sviluppo.

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2.4 IL LAVORO NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Abbiamo detto che nella società contemporanea – “post-industriale” o “della conoscenza” che sia – l’informazione e la conoscenza costituiscono importanti risorse strategiche e fattori di produzione. Non solo quindi crescono i lavori nel settore dei servizi, ma in generale aumenta la quantità di conoscenza incorporata e richiesta dai diversi lavori. Per esempio, oggi anche chi fa il magazziniere o il cameriere, per citare due lavori tradizionalmente considerati “semplici”, deve comunque essere in grado di maneggiare alcune tecnologie digitali e deve quindi possedere le adeguate competenze. Da notare che, al pari delle competenze relazionali, ossia il saper interagire con gli altri in modo adeguato alla situazione, anche le competenze digitali di base, quali usare un computer, connettersi a Internet o scrivere una e-mail, sono sempre più spesso date per scontate dalle imprese e dai profili professionali che esse ricercano.
Se quello delle competenze e del continuo aggiornamento delle proprie conoscenze è quindi un tema che oggi taglia trasversalmente diversi lavori e professioni, varie ricerche sociologiche rilevano però come a livello strutturale il lavoro segua tendenze opposte:
  • crescita del settore terziario e, al contempo, permanenza della grande industria e diffusione delle piccole imprese;
  • nascita di nuove professioni ad alto contenuto di conoscenza e crescita parallela di lavori poco qualificati;
  • occupazioni in cui il lavoro è garantito a vita, come nel pubblico impiego, e occupazioni precarie con contratti di lavoro a scadenza mensile;
  • maggiore autonomia, ma anche maggiori possibilità di controllo dei lavoratori attraverso le tecnologie digitali.
Nella società contemporanea, quindi, il lavoro si frammenta, sia in termini di professioni e settori di produzione, sia in termini di condizioni e diritti dei lavoratori.
Come è stato notato dal sociologo statunitense Richard Sennett (n. 1943) nel famoso testo pubblicato all’inizio degli anni 2000, L’uomo flessibile, la società post-industriale non ha solo dato impulso a nuovi lavori e portato alla diffusione di professioni prima considerate marginali, come il barman, il tatuatore o il barbiere, ma ha dato vita a un nuovo paradigma nel mondo del lavoro, quello della flessibilità. Questa diventa la principale caratteristica tanto delle organizzazioni, quanto del lavoro e dei lavoratori, e si esprime nella diffusione dei contratti di lavoro temporanei, nella maggiore facilità che hanno le imprese nel licenziare i lavoratori, nel delocalizzare e affidare ad altre imprese fasi della produzione così come, più in generale, in una gestione del tutto nuova del tempo di lavoro. Questo infatti non è più rigido, ma è sempre più variabile e può essere di mezza giornata (part-time), oppure concentrarsi nel fine settimana, o variare a seconda dei periodi dell’anno o dei mesi. In altre parole, viene meno la centralità dell’impiego a tempo indeterminato o “a vita” e dell’orario di lavoro standard tipico del Novecento: 8 ore lavorative al giorno, per un totale di 40 ore settimanali.
Secondo Sennett e altri sociologi contemporanei, in tal modo cambia il significato stesso del lavoro, in quanto vengono meno i legami forti che nel Novecento avevano caratterizzato la relazione tra individui e lavoro e che facevano sì che le persone si identificassero con il loro lavoro e l’organizzazione in cui erano impiegate. Soprattutto, è venuto meno il lavoro come principale elemento di stabilizzazione della vita delle persone, fonte di identità sociale e strumento per la costruzione della propria traiettoria di vita.
Luciano Gallino | ▶ L’AUTORE |, tra i più autorevoli sociologi italiani del Novecento, ha sottolineato come l’instabilità, a livello professionale e individuale, sia divenuta una condizione “normale”. Ciò fa del lavoro qualcosa di sempre più “individualizzato”, cioè riduce il lavoro, i diritti a esso collegati e le sue modalità di organizzazione a una dimensione sempre più individuale. Come dire che se in epoca fordista tra i compiti dello Stato vi era anche quello di assicurare un’occupazione al maggior numero di persone possibile, il lavoro e la sua ricerca diventano ora una responsabilità individuale.
ESEMPIO: fino al 1990 in Italia sono esistiti gli Uffici di collocamento, presso i quali ci si poteva iscrivere in qualità di disoccupato per poi aspettare di ricevere un’offerta di lavoro. Oggi esistono invece i Centri per l’impiego, il cui compito rimane quello di facilitare l’incontro tra domanda e offerta i lavoro, svolgendo però un’attività prevalentemente formativa, ovvero offrendo corsi e tirocini utili a fornire a chi è in cerca di lavoro le conoscenze idonee per rendersi appetibile sul mercato.
Nella società contemporanea, l’incremento delle abilità, delle competenze e dei saperi professionali si accompagna quindi a un’incertezza dei rapporti d’impiego e all’assenza di una sicura prospettiva di lavoro. La maggiore autonomia e libertà dei lavoratori prendono così forma in un contesto di maggiore instabilità del mercato del lavoro e del proprio percorso professionale e di vita.
In questa situazione, anche il ruolo dei sindacati cambia e si ridimensionaI sindacati sono le organizzazioni che si occupano di rappresentare e difendere i diritti dei lavoratori e nel corso di tutto il Novecento, in particolare dagli anni Sessanta in poi, hanno giocato un ruolo estremamente importante in Europa, in quanto principale controparte in materia di lavoro delle imprese e dei governi. Erano i sindacati, attraverso la cosiddetta “contrattazione collettiva”, a discutere e a stabilire con le imprese e i governi i salari e le condizioni di lavoro per i lavoratori. In una situazione in cui il lavoro e l’identità professionale era stabile, i sindacati non avevano difficoltà a rappresentare gli interessi dei lavoratori, in quanto questi appartenevano a categorie altrettanto stabili e omogenee: gli operai, gli insegnanti, i contadini e così via. Oggi è difficile per i sindacati rappresentare le rivendicazioni e le identità di gruppi di lavoratori sempre più variabili, tanto per numerosità quanto per interessi e prospettive di carriera.

approfondiamo  IL “CASO” OLIVETTI

L’esperienza dell’azienda Olivetti – fondata da Camillo Olivetti nel 1908, a Ivrea – costituisce un’interessante vicenda imprenditoriale, nota a livello mondiale.
L’Olivetti è stata per molti anni tra le eccellenze internazionali nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione di prodotti tecnologici, facendo dell’Italia degli anni Cinquanta uno dei paesi all’avanguardia nel campo delle tecnologie dell’informazione. Tuttavia, la Olivetti divenne famosa non solo per i suoi prodotti, ma soprattutto per il suo modello di organizzazione aziendale e per le idee del suo presidente, Adriano Olivetti, che successe al padre Camillo nel 1938.
Adriano Olivetti concepiva la fabbrica non solo come un luogo di produzione, ma soprattutto quale centro dello sviluppo della società e dell’economia. Un luogo di socializzazione che, oltre a produrre beni, doveva garantire la realizzazione dell’individuo.
Egli pose quindi grande attenzione alle condizioni di lavoro: ridusse l’orario di lavoro, introdusse il sabato festivo e la tutela per il periodo di maternità e offrì assistenza medica ai dipendenti e alle loro famiglie, facendo vaccinare i loro bambini contro la poliomielite prima ancora che divenisse obbligatorio per legge. Non solo, costruì quartieri per le abitazioni dei dipendenti dotati di tutti i servizi necessari (come biblioteche, mense e asili), convinto com’era che il benessere dei lavoratori si costruisse anche al di fuori dei luoghi di lavoro e che le imprese dovessero essere al servizio della comunità che le ospita. La sua biblioteca, sempre aperta e a disposizione di tutti i cittadini di Ivrea, divenne ben presto un centro di ritrovo culturale.
Olivetti voleva che la fabbrica fosse un luogo di cultura e innovazione: assunse anche artisti e fondò un centro di formazione e ricerca fornendo un contribuito sostanziale nel dare vita a una rilevante generazione di sociologi. Introdusse inoltre delle modifiche al lavoro in catena di montaggio, cercando di assegnare agli operai mansioni più complesse e soddisfacenti della replica continua di un semplice gesto. In particolare, dette vita a gruppi di produzione incaricati della costruzione di una parte della macchina e responsabili della sua qualità prima del passaggio del prodotto al gruppo successivo. I risultati furono eccellenti e permisero all’azienda di presentare nel 1959 il calcolatore “Programma 101”, oggi considerato il primo personal computer mai realizzato.

l’autore  Luciano Gallino

Luciano Gallino (1927-2015) è stato un eminente sociologo italiano. La sua formazione sociologica inizia presso la fabbrica Olivetti, dove collabora all’Ufficio studi relazioni sociali e dove dal 1960 al 1969 ricopre la carica di direttore del Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull’organizzazione.
Dal 1971 al 2002 insegna sociologia all’università di Torino, continuando a far parte e a dirigere diversi centri di formazione e di ricerca applicata e ricoprendo per alcuni anni il ruolo di presidente del Consiglio italiano delle scienze sociali e dell’Associazione italiana di sociologia. Parallelamente alla sua attività di ricerca e d’insegnamento, collabora con autorevoli quotidiani nazionali (quali “La Stampa” e “la Repubblica”) contribuendo anche al dibattito politico ed economico.
Attento osservatore della realtà che lo circonda, Gallino concentra i suoi studi principalmente sulla sociologia del lavoro, sottolineando sempre l’importanza del benessere dei lavoratori e delle politiche a sostegno dell’occupazione. I suoi scritti più recenti sono dedicati ai rischi sociali derivanti dalla precarietà del lavoro, dai processi di automazione in fabbrica e dall’eccessiva importanza assunta dai mercati finanziari nell’economia globale.

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2.5 OCCUPAZIONE E DISOCCUPAZIONE

Come si struttura il mercato del lavoro nella società contemporanea?
Innanzitutto il mercato del lavoro rappresenta un tipo molto particolare di “mercato”. In economia, il mercato è il luogo, fisico o figurato, in cui avviene l’incontro tra compratori e venditori, ovvero tra la domanda e l’offerta di un determinato bene. La funzione del mercato è quella di rendere possibili gli scambi, sulla base dei quali si determinano i prezzi dei diversi beni. Se un bene è molto richiesto, ovvero se c’è molta domanda e poca offerta, il suo prezzo sale, viceversa scende quando l’offerta è molto superiore alla domanda: un esempio sono gli affitti degli appartamenti, che aumentano o diminuiscono a seconda del numero di quelli disponibili e delle persone che cercano casa.
Secondo l’economia, la dinamica della domanda e dell’offerta regola il prezzo di qualunque bene o servizio venga scambiato; secondo la sociologia, il lavoro è un bene con delle caratteristiche uniche, che lo rendono diverso dagli affitti o dai pomodori.
Innanzitutto, a differenza di altre merci, il lavoro non può essere fisicamente separato dalla persona che offre la prestazione lavorativa. In secondo luogo, ciò che di fatto le persone offrono sul mercato del lavoro è il proprio tempo, le proprie competenze e le proprie abilità manuali, tutte cose che non nascono per essere vendute. I lavoratori inoltre, diversamente da qualsiasi altro tipo di “merce”, possono organizzarsi e contrattare il prezzo e le modalità di esecuzione del loro operato. Se a ciò si aggiunge che il lavoro rappresenta uno dei principali ambiti di socializzazione e costruzione dell’identità sociale in età adulta, nonché il principale strumento per ottenere un reddito, accedere ai servizi di ▶ welfare, quali, per esempio, le pensioni, e, in alcuni casi, acquisire ed esercitare potere a livello sociale, si capirà come mai il funzionamento del mercato del lavoro non sia riducibile alla pura dinamica della domanda e dell’offerta.
Il mercato del lavoro come istituzione sociale
Per la sociologia, il mercato del lavoro rappresenta una vera e propria istituzione sociale, in quanto il suo funzionamento è regolato dal diritto del lavoro, ovvero da leggi e specifici interventi dello Stato. In Italia, per esempio, così come in quasi tutti i paesi europei, lo Stato, in accordo con i sindacati, stabilisce il salario minimo per le diverse categorie di lavoratori. Non solo, il mercato del lavoro risente anche delle politiche per il lavoro come, per esempio, quando lo Stato abbassa le tasse che le imprese devono pagare per le nuove assunzioni così da incentivarle.
Il mercato del lavoro presenta due componenti fondamentali:
  • la popolazione attiva, composta da tutte le persone di età non inferiore ai 15 anni che hanno un’occupazione o che la stanno cercando attivamente; comprende quindi sia gli occupati sia i disoccupati;
  • la popolazione non attiva, che comprende chiunque abbia meno di 15 anni, ma anche chi, pur avendo un’età maggiore, non è impegnato nella ricerca di lavoro, come nel caso degli studenti o dei pensionati.
In Italia, è l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) a occuparsi della rilevazione del numero di occupati e disoccupati. Vengono considerate “occupate” le persone che hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuito nella settimana che precede quella in cui si svolge la rilevazione dell’Istat, indipendentemente dalla regolarità o dal contratto di lavoro, che può essere a tempo determinato, e avere quindi una data di scadenza, o indeterminato.
Chi, invece, in età compresa tra i 15 e i 74 anni, non ha un’occupazione ma è disponibile a lavorare entro due settimane dal momento della rilevazione svolta dall’Istat e ha fatto almeno un’azione di ricerca attiva di lavoro nell’ultimo mese, viene catalogato come “persona in cerca di occupazione”.
Ma che cosa vuol dire ricercare attivamente lavoro? Vediamo un estratto dal questionario utilizzato dall’Istat.

QUALE DELLE SEGUENTI AZIONI DI RICERCA DI LAVORO HA FATTO NELLE 4 SETTIMANE DAL …… AL ……:
  • Ha avuto contatti con un Centro pubblico per l’impiego (ex Ufficio di collocamento) per cercare lavoro. […]
  • Ha sostenuto un colloquio di lavoro, una selezione presso privati. […]
  • Ha sostenuto prove scritte e/o orali di un concorso pubblico. […]
  • Ha inviato una domanda per partecipare a un concorso pubblico. […]
  • Ha esaminato offerte di lavoro sui giornali. […]
  • Ha messo inserzioni sui giornali o ha risposto ad annunci. […]
  • Ha fatto domande di lavoro e/o inviato o consegnato curriculum a privati. […]
  • Si è rivolto a parenti, amici, conoscenti, sindacati. […]
  • Ha cercato lavoro su Internet. […]
  • Ha avuto contatti con un’agenzia di somministrazione (ex-interinale) o con una struttura di intermediazione diversa da un Centro pubblico per l’impiego per cercare lavoro. […]
  • Ha cercato terreni, locali, attrezzature per avviare un’attività autonoma. […]
  • Ha chiesto permessi, licenze, finanziamenti per avviare un’attività autonoma. […]
  • Altra azione (specificare) …………………………………………………………

(Questionario Istat - Rilevazione sulle Forze di Lavoro - 3° trimestre 2019)


Come si può dedurre dalle domande riportate, cercare attivamente lavoro può significare cose molto diverse, ma in ogni caso prevede una volontà e un’azione concreta da parte di chi cerca lavoro.
I principali indicatori utilizzati per lo studio del mercato del lavoro sono:
  • il tasso di attività, che si riferisce alla partecipazione della popolazione al mercato del lavoro e che è utile al fine di individuare l’effettiva disponibilità delle persone a lavorare. Si calcola dividendo la popolazione attiva per la popolazione di 15 anni o più;
  • il tasso di occupazione, che misura la percentuale di persone in età lavorativa che effettivamente lavorano e che rappresenta in modo indiretto un indicatore del benessere sociale, poiché indica in che misura la popolazione partecipa alla produzione della ricchezza di una nazione. Si calcola dividendo il numero degli occupati per la popolazione di 15 anni o più;
  • il tasso di disoccupazione, che misura la percentuale di persone che, pur essendo disponibili a lavorare, non riescono a trovare lavoro. Anche questo rappresenta un indicatore indiretto del benessere sociale, poiché indica quanto lavoro “manca” all’interno di un determinato territorio e, dunque, il numero di persone che non percepiscono un reddito. Si calcola dividendo il numero delle persone in cerca di occupazione per la popolazione attiva.
Ecco, per esempio, come l’Istat riassume lo scenario circa la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione residente in Italia nel 2017 (1).
Si possono poi calcolare percentuali specifiche dividendo la popolazione per sesso (uomini/donne), classi di età (giovani/adulti), titolo di studio (diplomati/laureati) o appartenenza geografica.
Il grafico a fianco (2), per esempio, tratto da un’indagine sul lavoro in Europa condotta dall’Eurostat nel 2017, descrive il tasso di occupazione per paese e ripartizione geografica italiana. Come si può notare, se le regioni del Nord Italia sono all’incirca in linea con quella che è la media europea (67%), il Centro e, soprattutto, il Sud Italia si discostano di diversi punti percentuali.
La differenza tra Nord e Sud Italia (3) diviene ancora più accentuata se si confrontano i tassi di disoccupazione per paese e la ripartizione geografica italiana: se nella parte settentrionale della penisola il tasso di disoccupazione è addirittura inferiore a quello della media europea (7,6%), nel Mezzogiorno l’indicatore si allontana ulteriormente da quello europeo, risultando il più elevato (quasi 20 punti percentuali) dopo quello della Grecia.
Vediamo ora la distribuzione del lavoro per sesso in Italia nel periodo 2004-2018. Come si può osservare, le stime Istat indicano una progressiva crescita dell’occupazione femminile, ma sussiste ancora un forte divario tra uomini e donne: in Italia, nel 2018, solo il 49,5% delle donne lavora (in pratica, una donna su due), contro il 67,6% degli uomini (in pratica, due su tre).

Fonte: rilevazione ISTAT delle forze di lavoro 2004-2018

Rispetto al resto d’Europa, il cui tasso medio di occupazione femminile è del 60% (con punte che superano il 70% nei paesi scandinavi), l’Italia risulta essere la penultima in graduatoria, con un divario occupazionale di genere al 18% | ▶ UNITÀ 7, p. 292 |.
Infine, il rapporto annuale Istat del 2018 indica una diminuzione del numero di giovani tra i 15 e i 29 anni non occupati e non in formazione, i cosiddetti “Neet” (acronimo dell’espressione inglese Not in education, employment or training). L’incidenza dei Neet sul totale dei giovani tra 15 e 29 anni nel 2017 è in media del 24%, ma si caratterizza anche questa per forti differenze territoriali: 16,7% al Nord, 19,7% al Centro e 34,4% nel Mezzogiorno.
per lo studio

1. I dati sull’occupazione cambiano di continuo e possono subire variazioni significative anche da un anno all’altro. Cerca in Internet l’ultimo rapporto Istat o Eurostat sulle forze di lavoro e descrivi l’andamento dell’occupazione e della disoccupazione.
2. Con che tipo di organizzazioni entri in contatto nel corso della tua quotidianità? Che cosa producono? Che tipo di tecnologie impiegano?


  Per discutere INSIEME 

Descrivi il lavoro dei tuoi genitori e chiedi loro come l’hanno trovato, quali sono le principali competenze richieste e come hanno fatto ad apprenderle. Confronta le risposte con quelle dei tuoi compagni e discutete dei diversi modi in cui si può trovare un lavoro e di come affinare le principali competenze che questo richiede.

I colori della Sociologia
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Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane