I colori della Sociologia

Conseguenze dei fenomeni migratori

Le migrazioni, soprattutto quando coinvolgono persone provenienti da paesi del mondo tra loro lontani, con culture e storie differenti, creano situazioni che possono avere ricadute positive in termini di rimescolamento e diversità culturale, di crescita demografica di un paese (come l’Italia, dove le nascite sono molto basse), diventando così fonte di ricchezza (si pensi agli Stati Uniti, storicamente meta di persone provenienti da culture diversissime tra loro). Ma le migrazioni possono spesso anche produrre tensioni e conflitti. Le migrazioni di massa, infatti, obbligando alla convivenza di tradizioni, culture e religioni diverse entro uno stesso spazio, possono generare paura e disagio, specie se non accompagnate e gestite da un punto di vista istituzionale.

Il caso dell’Italia è emblematico. Agli inizi del 2019, gli stranieri regolari nel nostro paese superavano i 5 milioni, ammontando a circa l’8% della popolazione residente in Italia. Non si tratta certo di una quantità di persone di per sé allarmante, se pensiamo che in Germania, per esempio, l’incidenza di cittadini stranieri è dell’11%, in Francia del 10%, in Spagna del 13% e in Svizzera addirittura del 22%. Peraltro, gli stessi italiani (soprattutto le nuove generazioni) hanno ripreso a emigrare in modo consistente: dal 2015 al 2017 gli italiani che si sono spostati all’estero sono infatti triplicati, passando da 51 mila nel 2015 a 153 mila nel 2017.

Tuttavia, in Europa come in Italia l’aumento di persone provenienti da contesti culturali diversi da quello occidentale (paesi mediorientali, Africa, Asia) sta dando adito a episodi di intolleranza e razzismo APPROFONDIAMO |. Le polemiche e le discussioni pubbliche che sin dalla metà degli anni Novanta emergono in merito all’opportunità di soccorrere o di abbandonare al loro destino persone provenienti da situazioni di povertà e conflitto restituiscono l’idea della complessità generata dal fenomeno delle migrazioni di massa. La tendenza ricorrente in Italia, come in altri paesi, ad accusare i migranti ci offre uno spunto per riflettere su come (nonostante la globalizzazione e il libero movimento delle merci) la circolazione delle persone riattivi processi di difesa delle identità nazionali a discapito di modelli differenti di integrazione, quali il multiculturalismo e la ricerca di una convivenza pacifica tra culture diverse in un mondo sempre più interconnesso.

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approfondiamo  Il razzismo

Il razzismo è una concezione fondata sull’erroneo presupposto che persone con tratti fisici o comportamentali tra loro molto diversi appartengano a razze umane diverse e che alcune razze siano superiori ad altre. Tale presupposto è erroneo in quanto non c’è alcun modo di distinguere o prevedere da un punto di vista genetico il colore della pelle o il comportamento delle persone, cosa che invece è possibile fare, per esempio, per le diverse razze di cani o gatti.

Se il razzismo fa la sua comparsa nel 1800 come teoria, la tendenza a discriminare i “diversi” (nazioni, culture, classi sociali inferiori) è antichissima: i romani definivano “barbari” i popoli che non parlavano la loro lingua; per secoli gli ebrei vennero perseguitati dai cristiani perché accusati dell’uccisione di Cristo; i colonizzatori consideravano gli indios americani e gli africani esseri più vicini alle bestie che agli uomini.

Il primo testo “scientifico” a proporre l’idea che l’umanità si dividesse in diverse razze fu il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-1855) di Joseph Arthur de Gobineau, un aristocratico francese che sosteneva la superiorità biologica e morale della “razza ariana”. All’incirca negli stessi anni, Spencer trasferiva a livello sociale il principio evoluzionista di Darwin, sostenendo che è la società stessa a selezionare gli individui “più adatti” (e quindi “migliori”). Sempre nella seconda metà dell’Ottocento, iniziarono a essere condotte misurazioni che avrebbero dovuto rivelare l’intelligenza e la moralità di diversi tipi di individui. Sulla scia di tali studi, Cesare Lombroso, medico e scienziato sociale italiano, sostenne che fosse possibile rintracciare nelle caratteristiche fisiche delle persone la loro predisposizione ai comportamenti devianti e che gli italiani meridionali fossero biologicamente più predisposti alla delinquenza dei settentrionali.

L’espressione più tragica del razzismo si ebbe con la Germania nazista (1933-1945), quando Adolf Hitler cercò di realizzare la supremazia della razza ariana, sterminando nei campi di concentramento 6 milioni gli ebrei (considerati “subumani”). Le leggi razziali furono adottate anche dall’Italia fascista (1938), che contribuì alla deportazione nei campi di concentramento degli ebrei italiani.

Nel dopoguerra, molti popoli si liberarono dal colonialismo, ma in Sudafrica la minoranza bianca instaurò il regime dell’apartheid, costringendo la maggioranza nera a vivere segregata in ghetti. Le battaglie del partito dell’African National Congress e del suo leader Nelson Mandela, assieme alla condanna dell’Onu e dell’opinione pubblica internazionale, portarono nel 1990 all’abolizione dell’apartheid, ma situazioni di discriminazione su base etnica continuano a verificarsi ancora oggi in diverse parti del mondo (per esempio, da parte del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese). In particolare, forme di pulizia etnica continuano purtroppo a ripresentarsi in occasione di guerre e conflitti etnici, come, per esempio, quella che ha coinvolto serbi, croati e albanesi del Kosovo durante la guerra nella ex Jugoslavia.

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3.2 Multiculturalismo e pluralismo identitario

La nascita del termine “ multiculturalismo” è da datarsi attorno agli anni Ottanta del Novecento, quando, come conseguenza dell’aumento delle migrazioni di massa che vedevano interessati i paesi più ricchi del mondo, i governi nazionali e gli studiosi di scienze sociali iniziarono a interrogarsi sulla necessità di fare fronte a una situazione sociale complessa e in via di continua ridefinizione. In quegli anni, infatti, nuove e ingenti ondate migratorie cominciarono a porre la questione di come accogliere e integrare nello stesso territorio persone appartenenti a etnie, tradizioni, lingue e culture diverse.

Il modello assimilazionista

Storicamente, questo tipo di problematiche era stato gestito attraverso un modello d’integrazione “assimilazionista”, basato sull’idea che le persone immigrate dovessero assumere le caratteristiche culturali, religiose e relative allo stile di vita del paese ospitante. Così, per esempio, quando agli inizi del XX secolo numerosi europei (in particolare italiani, tedeschi, polacchi e irlandesi) lasciarono i propri paesi di origine per raggiungere le Americhe o l’Australia furono costretti a interiorizzare i modelli valoriali del paese di accoglienza per essere riconosciuti quali cittadini.

Per chi migrava non si trattava di un processo facile né immediato: bisognava mettere da parte la cultura di origine e la propria lingua per apprendere e adattarsi a usi e costumi nuovi, che spesso si discostavano molto da quelli originari. Pensiamo alle famose immagini di archivio che ritraggono migranti italiani appena sbarcati a New York tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: file lunghissime per smistare e controllare i nuovi arrivati, che venivano confinati in zone di  quarantena ad Ellis Island, un’isola nella baia di New York, dove venivano trattenuti per settimane. Il lungo cammino verso l’integrazione iniziava da lì e richiedeva successivamente e necessariamente l’adattamento ai costumi e alla lingua degli Stati Uniti. Alla base di questo modello assimilazionista vi era l’idea di origine illuministica di creare una società di individui con uguali diritti e doveri, a condizione, però, che essi aderissero ai medesimi valori e norme culturali.

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Il modello del melting pot

Anche il modello del “melting pot” si basava sull’ideale dell’uguaglianza tra gli individui ma, a differenza del modello assimilazionista, auspicava la coesistenza pacifica di etnie e popoli diversi grazie alla costruzione di un nuovo popolo  meticcio o, come dice la stessa definizione inglese di melting pot, un “crogiolo” di culture diverse mescolate tra loro. Tuttavia, questa idea di convivenza è rimasta per lo più un’utopia: i numerosi gruppi etnici che vivevano nelle città americane dagli inizi del Novecento, anziché mischiarsi tra loro, iniziarono a riscoprire e a mantenere vive le proprie origini, spesso anche come forma di opposizione alla cultura dominante, rimanendo rinchiusi in comunità “nazionali”, come nel caso della Little Italy a New York, dove all’inizio del Novecento arrivarono a vivere più di 10.000 cittadini di origine italiana.

Modelli che valorizzano le differenze: il pluralismo identitario

Verso la fine degli anni Settanta, come conseguenza dei dibattiti sulle differenze culturali che i movimenti sociali (in particolare il femminismo e il movimento degli afroamericani) stavano producendo negli Stati Uniti e in Europa, il paradigma assimilazionista iniziò a essere contestato e sostituito da modelli che trovavano nella valorizzazione delle differenze il mezzo per raggiungere una sostanziale uguaglianza fra tutti i cittadini.

In pratica, solo riconoscendo le differenze e le specificità culturali dei diversi gruppi di persone giunte da altri paesi è possibile costruire società democratiche in grado di offrire a tutti uguali opportunità. Riconoscere e valorizzare le diverse identità significava immaginare nuove società multiculturali, in cui diversi tratti etnici e religiosi potessero convivere pacificamente tra loro, considerando la diversità come un valore e non come qualcosa da nascondere o camuffare. Questo approccio si fonda dunque sulla convinzione che non vi siano culture superiori o migliori di altre e che ogni cultura debba essere tutelata e riconosciuta in quanto tale.

Dal punto di vista delle politiche attuate dai governi nazionali per gestire i fenomeni migratori, questo approccio si traduce spesso nella politica del pluralismo identitario, ovvero nell’elaborazione di politiche sociali in cui le diverse identità etniche vengano valorizzate e accompagnate a costruire situazioni di dialogo con la cultura ospitante e con altre culture. Esempi di politiche orientate al pluralismo identitario possono essere le cosiddette quiet room (letteralmente, “stanza della quiete”), sempre più diffuse in università, scuole, ospedali e altri luoghi pubblici del Centro e del Nord Europa e pensate per dare la possibilità a soggetti provenienti da culture diverse e con altre necessità di poter usufruire di uno spazio di raccoglimento per pregare, meditare, o anche solo allattare. Una politica basata sul pluralismo identitario e dunque sulla valorizzazione delle differenze punta così a riconoscere diritti universali per tutti, facendo in modo che i bisogni specifici di ciascuna cultura vengano soddisfatti.

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3.3 Famiglia, genere e lavoro nelle migrazioni

Il discorso delle migrazioni si collega direttamente ad altre tematiche, che si incrociano con l’esperienza dei migranti e spesso si intersecano tra loro. Il tema della famiglia è tra i più rilevanti. Le famiglie migranti o etniche sono infatti in aumento costante in tutti i paesi occidentali e in nazioni quali la Francia, la Germania, il Regno Unito e, su tutte, gli Stati Uniti, sono ormai alla terza o quarta generazione di discendenza.

La migrazione femminile

L’attenzione per le dinamiche di genere nei processi migratori emerge sul finire degli anni Settanta del Novecento, sulla scia dei movimenti femministi. Sino a quel momento, infatti, gli studi sulle migrazioni non avevano preso in considerazione tale dimensione, dando per scontato che fosse “‘normale”’ che a migrare fossero soprattutto gli uomini. Negli anni Ottanta, tuttavia, con l’intensificarsi dei fenomeni migratori e il cambiamento di alcune delle dinamiche che li avevano caratterizzati precedentemente, la migrazione femminile acquista visibilità e rilevanza. Le donne migranti iniziano a essere studiate come popolazione specifica: sulla scorta degli studi di genere, nelle ricerche si utilizzano nuove categorie interpretative, che trasformano le donne migranti da vittime passive delle scelte migratorie degli uomini in soggetti con ruoli e funzioni importanti.

Il concetto di genere permette, infatti, di leggere le specificità delle migrazioni femminili e di far emergere:

  • l’esclusione e la marginalizzazione che vivono le donne migranti in quanto donne nelle società che le ospitano;
  • la loro forte presenza (quando non vera e propria segregazione) nel lavoro domestico e di cura, in accordo quindi con gli stereotipi di genere delle culture occidentali;
  • la loro capacità di risparmiare e di supportare economicamente i familiari rimasti nei paesi di origine;
  • la loro abilità nel bilanciare tradizione e cambiamento culturale a livello familiare.

Le donne migranti (per quanto questa categoria comprenda persone provenienti da culture anche molto diverse tra loro) divengono così le protagoniste del processo di stabilizzazione dei vari percorsi migratori. Sono soggetti attivi, che mettono in campo capacità relazionali, competenze lavorative, conoscenze culturali e strategie di adattamento alle diverse situazioni che si trovano ad affrontare.

In Italia, il fenomeno che più di altri a partire dagli anni 2000 ha dato visibilità alle donne migranti è stato probabilmente quello delle cosiddette badanti, che accudiscono a domicilio, in forma continuativa e quotidiana, anziani, malati o persone non autosufficienti. Esse provengono nella maggior parte dei casi da paesi dell’Est Europa (Romania, Ucraina, Polonia, Moldavia, Georgia) e sono diventate parte integrante della vita quotidiana di molte famiglie e città italiane.

Secondo le statistiche ufficiali, sono ormai circa un milione le persone ufficialmente impiegate nel lavoro di cura a domicilio (si pensi che nel 2001 erano circa 100 mila), ma sono numeri da considerare con cautela, poiché l’essere cittadine extracomunitarie rende queste donne particolarmente ricattabili, costringendole a lavorare anche “in nero”, ovvero senza un regolare contratto di lavoro.

Come osservato da Chiara Saraceno (n. 1941) e molti altri sociologi esperti di genere, lavoro e migrazioni (tre temi che facilmente si intersecano tra loro), la figura della badante diventa così emblematica tanto delle disuguaglianze presenti a livello di genere, quanto di quelle che si verificano tra cittadini comunitari ed extracomunitari nel mercato del lavoro. Da un lato, infatti, la professione di “badante”, con le sue caratteristiche di cura, assistenza, pazienza, dedizione, si presenta come un lavoro tipicamente femminile, che ancora una volta ingabbia le donne nello stereotipo della casalinga o della balia. Dall’altro, proprio per via del suo essere un lavoro non pienamente riconosciuto e che spesso prende forma al di fuori dei regolari contratti di lavoro, la condizione delle badanti fa da specchio alle difficoltà che spesso incontrano i migranti (specie se non in possesso di regolare permesso di soggiorno) nel momento in cui si affacciano sul mercato del lavoro italiano.

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Il lavoro dei migranti

Un’altra tematica rilevante per comprendere e gestire il fenomeno delle migrazioni è quella del lavoro svolto dai migranti una volta giunti in un nuovo paese. Storicamente, quando i migranti arrivano in un nuovo luogo, essi sono il più delle volte spinti a svolgere i lavori più umili e peggio retribuiti. Per esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, i numerosi emigrati italiani in Belgio finivano spesso per lavorare nelle miniere di carbone, un lavoro non solo molto impegnativo e mal retribuito, ma anche molto rischioso. A tale riguardo è noto il disastro di Marcinelle, avvenuto in una miniera belga nel 1956, in cui a causa di un’esplosione morirono 262 operai, dei quali più della metà erano proprio emigrati italiani, che vivevano in condizioni misere e pericolose.

Anche oggigiorno i migranti che arrivano nel nostro paese sono spesso costretti a svolgere le mansioni più umili e faticose, come per esempio la raccolta dei pomodori o lavori agricoli stagionali: attività mal retribuite, che non offrono una stabilità lavorativa e che proprio per questo i cittadini italiani spesso non hanno più interesse a svolgere.

Talvolta, i cittadini stranieri arrivati nel nostro paese riescono anche a sviluppare traiettorie lavorative di successo, per esempio avviando delle imprese e delle attività commerciali in proprio. Un rapporto del Censis del 2019 ha rilevato per esempio che i cittadini stranieri titolari di un’impresa sono quasi mezzo milione e costituiscono circa il 15% di tutte le attività imprenditoriali presenti nel nostro paese.

Le imprese dei cittadini stranieri si sono affermate in alcuni particolari settori come nei piccoli negozi al dettaglio, nelle attività di ristorazione (anche grazie a un’offerta alimentare basata su tradizioni culinarie di altri paesi) e nel settore delle costruzioni e dei lavori edili. L’elevato numero di imprese avviate da cittadini stranieri in Italia mostra come sia possibile per i migranti, nonostante molti problemi da affrontare, riuscire a integrarsi e ad avere un successo economico nel nostro paese.

per lo studio

1. Che cosa significa che l’Italia è passata dall’essere un paese di emigrazione a una meta di migranti?

2. Perché secondo te il fenomeno delle migrazioni ha prodotto forme di intolleranza e razzismo?


  Per discutere INSIEME 

Tra le diverse etnie, quella dei rom e dei sinti costituisce un caso peculiare e interessante. Rom e sinti, infatti, quali popolazioni storicamente nomadi, migrano da sempre ma, allo stesso tempo, sono restii ad accettare forme di integrazione. Documentati sulle origini e sulla storia di tali etnie e discuti in classe con i tuoi compagni circa l’opportunità o la possibilità di integrare tali popolazioni in un modello culturale occidentale.

I colori della Sociologia
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Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane