1. Il genere e la costruzione dell’identità

1. Il genere e la costruzione dell’identità

1.1 Sesso e genere

Nel 1935 l’antropologa Margaret Mead (1901-1978), mettendo a confronto diverse società tradizionali della Nuova Guinea, ebbe alcune intuizioni importanti rispetto a quello che nella vita di tutti i giorni siamo soliti definire con le categorie di “maschile” e “femminile”. Mead notò, per esempio, che nel gruppo degli Arapesh i membri di entrambi i sessi sembravano sensibili e accoglienti, caratteristiche che nella nostra cultura vengono spesso considerate come tipicamente “femminili”. Gli uomini e le donne appartenenti alla tribù dei Mundgumor, invece, erano più aggressivi e duri e quindi molto più vicini ai tratti caratteriali “maschili”.

Questi resoconti dettero vita a molte discussioni e furono oggetto di aspre critiche. Com’era possibile che esistessero società in cui quello che per noi occidentali era definibile come “tipicamente maschile” fosse un tratto comune a entrambi i sessi? Com’era possibile che non ci fosse una netta separazione fra tratti caratteriali, comportamenti e ruoli maschili e femminili?

In parallelo ai lavori di Mead, altri antropologi descrivevano popolazioni e culture all’interno delle quali l’essere “uomini” o “donne” non dipendeva da caratteristiche biologiche ma, per esempio, da una libera scelta che gli individui compivano giunti all’età dell’adolescenza.

Sempre nella seconda metà degli anni Trenta, inoltre, si faceva strada in sociologia la teoria dei ruoli, che portò i sociologi a parlare di “ruolo sessuale”. Ovvero, nel corso della socializzazione primaria e secondaria, a casa come a scuola, non solo impariamo a comunicare e comportarci seguendo delle regole, ma apprendiamo anche che in qualità di “maschi” o “femmine” talvolta siamo tenuti a seguire regole diverse. Ciò significa che, al pari di qualsiasi ruolo, il comportarsi “da uomini” o “da donne” risponde a regole e aspettative che sono anche sociali e che dipendono quindi dalla società e dalla cultura in cui si nasce e si vive. Non a caso, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso era “normale” che gli uomini lavorassero e le donne si occupassero delle faccende domestiche e della cura dei figli, mentre oggi uomini e donne partecipano più equamente tanto al mondo del lavoro, quanto a quello della cura dei figli.

All’inizio del Novecento, le prime femministe iniziarono a mettere in discussione la posizione delle donne nella società e quindi a rifiutare la condizione di inferiorità che le caratterizzava, relegandole ai ruoli di “madre” e “moglie”, accoglienti, docili e al servizio della famiglia. Ma fu la filosofa e attivista femminista francese Simone de Beauvoir L’AUTrice | a sfidare il senso comune dell’epoca con il libro Il secondo sesso. In questo testo, pubblicato nel 1949 e ancora oggi riferimento imprescindibile per il movimento femminista, l’autrice mette in rilievo la condizione subordinata che nel corso della storia è stata attribuita alle donne, le circostanze che portano a credere alla loro inferiorità e gli effetti che tutto ciò produce sulle loro scelte di vita. La tesi di de Beauvoir è che il genere femminile sia sempre stato considerato come “secondo” e, quindi, definito per differenza e collocato in posizione svantaggiata rispetto al genere dominante, ovvero quello maschile. Non solo, de Beauvoir fu la prima studiosa a mettere in discussione il  binarismo di genere e la relazione diretta tra il “sesso”, inteso come un attributo biologico, e il “genere”, inteso come categoria sociale e culturale. L’essere donne o uomini non è, quindi, una questione naturale, ma è il prodotto di variabili culturali che dipendono dai modi di organizzare la società da un punto di vista sociale, economico e giuridico. Celebre, in proposito, è diventata la sua frase: «donna non si nasce, lo si diventa».

Cos’è allora il “ genere”? E come lo possiamo distinguere dal “sesso”?

Con sesso intendiamo il corredo genetico, ovvero l’insieme dei caratteri fisici, anatomici e biologici che caratterizzano i corpi dei maschi e delle femmine. Il genere rappresenta invece l’insieme dei simboli, dei comportamenti, degli atteggiamenti e delle aspettative che la società attribuisce al maschile e al femminile. Detto in altre parole, il genere è una costruzione sociale, ossia il risultato dell’insieme delle caratteristiche biologiche e dei tratti culturali assegnati storicamente e socialmente al maschile e al femminile.

per immagini

Nuovi tipi di “maschilità”

L’antropologa Margaret Mead all’inizio del Novecento, dimostrò che esistono modi diversi di essere uomini e donne e questo dipende dall’organizzazione della società e dalla sua strutturazione interna. Per esempio, quello che in Italia è considerato un tratto caratteriale tipicamente maschile (per esempio, essere appassionati di calcio), in altre società può non esserlo; oppure un fattore estetico che viene ritenuto caratteristico della maschilità (come una muscolatura accentuata) può, nel corso del tempo, perdere di valore e di importanza. In tal senso, si può notare come, se un tempo i “veri uomini” rifiutavano le cure estetiche perché ritenute “cose da donne”, negli ultimi anni sono invece aumentati i servizi di cura e i prodotti estetici riservati agli uomini: boutique, centri estetici e parrucchieri non sono più servizi dedicati solo alle donne, così come la depilazione di alcune parti del corpo o la definizione delle sopracciglia sono diventate parte integrante dell’estetica maschile, qualcosa di impensabile sino all’inizio degli anni Duemila.

l’autrice  Simone de Beauvoir

Simone de Beauvoir nasce nel 1908 a Parigi da una famiglia benestante, caduta in disgrazia a causa della bancarotta del nonno materno, ricevendo un’educazione rigida di stampo cattolico. All’età di dieci anni inizia ad appassionarsi alla letteratura e dimostra di essere un’allieva molto attenta e intelligente: motivi che la spingono a proseguire gli studi e a intraprendere la strada dell’insegnamento. Negli anni del liceo si allontana dalla religione cattolica e nel 1926 si iscrive alla Sorbona, dove conosce il filosofo Jean-Paul Sartre (1905-1980), al quale resterà legata intellettualmente e sentimentalmente per tutta la vita.

Finiti gli studi universitari, Simone ottiene la laurea e l’agrégation (l’idoneità all’insegnamento riservata ai migliori allievi francesi) in filosofia nel 1929. Esercita la professione di docente fino al 1943, quando decide di dedicarsi completamente alla scrittura.

Nel 1949 pubblica Il secondo sesso, in cui analizza la condizione femminile a livello sociale e morale. Grazie a questo scritto otterrà numerosi riconoscimenti a livello internazionale e diventerà una figura di riferimento per il femminismo di tutto il mondo. Negli anni Sessanta, quando scoppia la rivoluzione studentesca parigina, Simone partecipa anche alle manifestazioni organizzate dal movimento femminista e insieme ad altre donne fonda la Lega per i diritti delle donne, di cui diventa presidente nel 1974. Muore a Parigi nel 1986.

 >> pagina 289 

1.2 L’identità e gli stereotipi di genere

Ma, allora, in che modo nella nostra società si associano alcuni tratti caratteriali a comportamenti tipicamente maschili o femminili? O meglio, chi decide, per esempio, che la libertà di emozionarsi o piangere in pubblico siano caratteri più tipici della sfera femminile che di quella maschile? Perché ai bambini viene spesso detto di non piangere “come una femminuccia”? Perché alle bambine viene spesso ricordato di non comportarsi “da maschiaccio” quando sono troppo vivaci? In altre parole, in che modo nella nostra società viene costruita l’identità di genere?

L’identità di genere è il frutto del modo in cui, all’interno di una società, la cultura dominante trasforma le differenze fisiche esistenti tra uomini e donne in differenze culturali, che riconosciamo come maschili e femminili. Così, ai bambini maschi di molti paesi occidentali viene spesso ricordato di non comportarsi come le femmine (e viceversa) poiché nelle società occidentali la cultura dominante è basata su una chiara distinzione tra maschile e femminile.

In anni più recenti, questa rappresentazione dicotomica delle identità di genere ha tuttavia sollevato diverse obiezioni sia in ambito scientifico sia nell’opinione pubblica. La costruzione dell’identità è un fenomeno multidimensionale, per alcuni versi in continuo mutamento (oggi non siamo le stesse persone che eravamo dieci anni fa, né che saremo tra dieci anni), e sarebbe del tutto arbitrario creare un collegamento tra quelle che possono essere le differenze biologiche tra maschi e femmine e i tratti sociali e culturali dell’identità. L’associazione tra le differenze biologiche e i tratti identitari di uomini e donne non fa altro che riprodurre gli stereotipi di genere, ovvero quell’insieme coerente e abbastanza rigido di credenze che una data cultura utilizza per descrivere i tratti essenziali di uomini e donne. Gli stereotipi di genere, nell’accentuare le differenze tra maschile e femminile, tendono a:

  • dare una versione omogenea del modo in cui si comportano uomini e donne, per quanto vi siano diversissimi modi di essere uomini e di essere donne;
  • non permettere di cogliere la complessità delle identità di genere, che sempre più spesso oltrepassano le tradizionali categorie uomo/donna. Le persone transgender o transessuali, per esempio, non si identificano con il genere associato al proprio sesso e, per tale ragione, decidono a volte di sottoporsi a interventi chirurgici di riattribuzione del sesso. Le persone intersessuali nascono con entrambi i genitali. Le persone gender fluid (“genere fluido”) non si identificano né nel genere maschile né in quello femminile e sentono di avere un’identità di genere fluida, che va oltre la visione dicotomica del genere sostenuta dalla cultura dominante;
  • mantenere lo status quo, invece che cogliere e favorire i cambiamenti in atto.

Negli ultimi decenni, a seguito della rivoluzione femminista degli anni Settanta e con l’esplosione dei movimenti per la liberazione e l’autonomia delle persone di  orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale (gay, lesbiche, bisessuali) e delle persone transessuali e transgender, gli stereotipi e i modelli di genere stanno cambiando. Non solo è cambiato il ruolo della donna in una prospettiva di maggiore autonomia dall’uomo, ma in generale stiamo assistendo a una trasformazione delle relazioni interpersonali che va verso modelli in cui è la libertà dell’individuo a essere messa al centro. La costruzione della nostra identità di genere, infatti, è un processo in cui tutti siamo costantemente coinvolti; non solo nei casi di cambio di genere o di sesso, ma anche in situazioni di piena identificazione tra sesso e genere. Esistono, infatti, una pluralità di modi di essere uomini e donne e ciò non significa immaginare un mondo “senza generi”, ma permettere a tutti di essere l’uomo o la donna che desiderano essere, fuori da stereotipi e da modelli relazionali precostituiti.

 >> pagina 291 

1.3 Il sistema patriarcale e il genere in famiglia

Il sistema di relazioni di genere prevalente all’interno delle società occidentali è, ancora, quello di tipo patriarcale: un modello che attribuisce agli uomini più potere che alle donne e ruoli decisionali e di comando in tutte le sfere sociali dell’esistenza (per esempio nel lavoro, nella politica, nelle decisioni da prendere in ambito domestico).

Questo modello tende a riflettersi a livello familiare, per esempio quando si dà per scontato che debbano essere le bambine ad aiutare le madri nelle faccende di casa o che ai bambini piaccia giocare con le pistole. Tali pratiche di socializzazione ai ruoli di genere, per quanto possano apparire banali, contribuiscono a creare le disuguaglianze strutturali che tuttora esistono in quasi tutte le società del mondo tra uomini e donne.

La famiglia, essendo anche uno dei principali contesti in cui prende forma la socializzazione, svolge un ruolo importante nel riprodurre (o contribuire a cambiare) le relazioni e le identità di genere. La dimensione in cui il sistema patriarcale trova maggiore espressione all’interno delle famiglie è quello relativo alla divisione dei ruoli e dei compiti domestici. Quasi ovunque nel mondo vi è ancora un divario molto grande tra uomini e donne, per esempio, rispetto alle ore spese nei lavori domestici o di cura, ovvero nell’accudire parenti anziani e figli. Molte ricerche condotte a livello internazionale mostrano come in tutti i paesi occidentali esista tale dislivello. L’Italia, peraltro, è uno dei paesi in cui la differenza rimane più marcata: secondo la rilevazione annuale condotta dall’Istat nel 2018 a livello europeo, come mostra il grafico a pagina seguente, Grecia e Italia risultano essere i paesi in cui le donne dedicano più tempo al lavoro domestico rispetto agli uomini.

Negli ultimi decenni, però, i movimenti femministi  APPROFONDIAMO | e le trasformazioni che hanno coinvolto la famiglia quale istituzione Unità 5, p. 219 | hanno contribuito a ridefinire i ruoli stereotipati diffusi nel modello patriarcale e a ridistribuire la divisione del lavoro domestico e di cura. In Italia, per esempio, tra il 1990 e il 2018 il tempo dedicato dagli uomini alle faccende di casa e alla cura dei figli è raddoppiato, così come è diminuito drasticamente il tempo trascorso in casa dalle donne. Inoltre, anche il ruolo degli uomini e dei padri è in via di cambiamento, a favore di forme di maschilità e di paternità meno stereotipate e più capaci e desiderose di costruire relazioni paritarie con l’altro sesso e con i propri figli.

Ciò malgrado, la famiglia continua a essere uno spazio in cui si riproducono vari stereotipi e disuguaglianze di genere, nonché diverse forme di violenza e abuso da parte degli uomini nei confronti delle donne. Uno dei fenomeni più allarmanti è quello del femminicidio, un neologismo che identifica i casi di omicidio in cui una donna viene uccisa dal proprio compagno o ex-compagno per motivi di gelosia o per il senso di proprietà che alcuni uomini sviluppano nei suoi confronti. Secondo un’inchiesta sulla violenza sulle donne condotta dall’Istat nel 2016, nell’arco di un anno nel nostro paese sono state assassinate 149 donne e nei tre quarti dei casi ciò è avvenuto a opera di un coniuge, un compagno o un componente maschio della famiglia. Questo indubbiamente è un segnale allarmante che ci ricorda come, nonostante gli importanti passi avanti fatti negli anni in termini di parità e diritti di genere, il percorso di messa in discussione di un sistema di relazioni di genere di tipo patriarcale e di una maschilità autoritaria e violenta sia ancora lungo.

 >> pagina 292 

1.4 Il genere al lavoro

Un altro importante ambito in cui la dimensione di genere viene riprodotta è il mondo del lavoro, che, in Italia e in buona parte dell’Europa e dei paesi occidentali, è viziato da dinamiche e disuguaglianze di genere, nel senso che uomini e donne hanno modalità e condizioni di accesso e di permanenza differenti. Molti luoghi di lavoro, infatti, sono caratterizzati o dalla presenza predominante di uomini, oppure dall’esistenza di situazioni in cui la divisione del lavoro segue gli assi degli stereotipi di genere: per esempio, i piloti degli aerei sono sempre uomini, così come nei reparti ospedalieri la maggioranza del personale femminile si concentra nel settore infermieristico, mentre gli uomini abbondano in quello chirurgico e nel ruolo di primari.

Per questo si può distinguere fra:

  • segregazione orizzontale, il fenomeno di predominanza di uno dei due sessi all’interno di un settore lavorativo;
  • segregazione verticale, il divario di reddito e di prestigio che viene a crearsi se il lavoro è svolto da un uomo o da una donna.

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso le donne, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, cominciarono a entrare massicciamente all’interno del mercato del lavoro. Tuttavia, le nuove donne lavoratrici si collocavano in professioni tipicamente “femminili”, per esempio nell’ambito dei servizi (domestiche, infermiere, cameriere, hostess), mentre gli uomini continuavano a essere occupati principalmente come operai, nell’edilizia o in posizioni manageriali e dirigenziali. Questa tendenza alla segregazione orizzontale permane ancora oggi. Alcuni dati pubblicati dallo European Institute for Gender Equality ci dicono che nel 2015 la segregazione lavorativa tra gli Stati membri dell’Unione Europea, seppure in fase di miglioramento, costituiva ancora un problema rilevante rispetto all’equità di genere. Le donne, infatti, risultano ancora tendenzialmente occupate in settori con retribuzioni basse, in professioni scarsamente qualificate e con poche possibilità di carriera.

Così, le espressioni “lavoro da donne” o “lavoro da uomini” vengono spesso usate per descrivere alcune professioni che si associamo “naturalmente” agli uomini o alle donne. Questo perché ci si aspetta che gli uomini abbiano determinate qualità fisiche e biologiche che gli permettono di fare, per esempio, lavori in cui la forza fisica è determinante, e che le donne siano molto più predisposte a occuparsi degli altri (nei lavori di servizio alla persona, nell’ambito sanitario, nell’educazione) perché caratterialmente inclini alla cura e all’ascolto. Nonostante si tratti di stereotipi, fortunatamente smentiti dal tempo e dalla storia, affermazioni come queste continuano a fare parte del senso comune della cultura occidentale. Inoltre, è importante ricordare che buona parte delle donne che vivono nel nostro paese, accanto a un impiego formale e retribuito, si occupano gratuitamente dei lavori domestici e delle cure familiari. Questo lavoro invisibile e gratuito permette agli uomini, tra le altre cose, di costruire i propri percorsi di carriera lavorativa e garantisce il benessere di tutta la famiglia. Anche per questo, fin dagli anni Settanta, il movimento femminista in Italia rivendicò l’importanza del lavoro domestico e di cura e cominciò a chiedere a gran voce che questo venisse riconosciuto formalmente e pagato.

Rispetto, invece, alla segregazione verticale, secondo una ricerca Eurostat del 2019, a livello europeo il gender pay gap medio, ovvero il divario salariale tra uomini e donne a parità di ruolo e di mansione lavorativa, arriva quasi al 40% (in Italia è il 43%). Ciò significa che, mediamente, lo stesso lavoro viene pagato quasi la metà se a svolgerlo è una donna invece che un uomo. Inoltre, la presenza delle donne in posizioni lavorative apicali e di prestigio (manager, organi decisionali, medici primari, docenti universitari e via dicendo) è ancora piuttosto ridotta se confrontata con il numero degli uomini. Per esempio, in ben quattordici paesi dell’Unione Europea (tra i quali Germania, Danimarca, Svezia e Regno Unito) nessuna delle grandi imprese ha una presidente donna. Nell’ambito universitario, nonostante le donne che portano a termine un dottorato di ricerca (il più alto titolo di studio nel sistema universitario) siano spesso più degli uomini, quelle che riescono a raggiungere il ruolo di professore ordinario (il ruolo più alto nella carriera accademica) sono molto poche: in Italia, nel 2017, 12.890 professori ordinari erano uomini e solo 2.970 erano donne. Peraltro, come mostra il grafico, se sino al dottorato e agli assegni di ricerca la quantità di uomini e donne sostanzialmente si equivale, è proprio a partire dalle posizioni lavorative più strutturate di ricercatore a tempo determinato (RUTD) e di professore associato (PA) che viene a crearsi la forbice che porta a una netta disparità tra il numero di ordinari (PO) uomini e donne.

Nonostante i dati statistici mettano in evidenza una situazione in cui continuano a persistere disuguaglianze nell’accesso e nelle condizioni di lavoro, negli ultimi decenni il numero delle donne all’interno del mercato del lavoro è aumentato sensibilmente in tutti i paesi occidentali, anche grazie all’aumento del livello di istruzione nelle generazioni più giovani. Sono aumentate anche le donne che decidono di fare lavori che storicamente erano destinati solamente agli uomini, e sempre più imprese e organizzazioni adottano al loro interno politiche di genere e di diversity management (“gestione delle differenze”) quali misure per tutelare e valorizzare identità di genere diverse.

approfondiamo  Il femminismo e gli studi di genere

Era il 1405 quando una donna francese di nome Christine de Pizan pubblicò una raccolta di scritti dal titolo La città delle dame in cui narrava la storia di una città immaginaria in cui le donne potevano vivere in modo sicuro e degno di rispetto. Successivamente, nel 1792, Mary Wollstonecraft scrisse un libro in cui rivendicava i diritti delle donne, in risposta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo formulata in Francia nel 1789. Dobbiamo tuttavia aspettare i primi del Novecento e il movimento delle Suffragette, che rivendicava il diritto di voto per le donne in Inghilterra e negli Stati Uniti, per poter decretare la nascita del femminismo moderno.

Il momento storico in cui il femminismo dilagò in tutto il mondo fu a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui il fervore politico e le rapide trasformazioni avevano innescato anche la diffusione del pensiero del Movimento di Liberazione della donna. In quegli anni, buona parte dei paesi occidentali erano attraversati da movimenti di donne che lottavano per l’abolizione del patriarcato, che consegna il potere in mano agli uomini e relega le donne in condizioni di subordinazione. Queste istanze, insieme a quelle di liberazione sessuale che arrivavano dai movimenti di protesta contro il sistema capitalista, andavano a costituire un’agenda politica molto ambiziosa, che puntava alla parità tra i sessi, all’emancipazione delle donne e delle classi più povere e al riconoscimento del lavoro domestico e di cura.

A partire dalla fine degli anni Settanta, tanto nei paesi Europei quanto negli Stati Uniti, il movimento femminista stava influenzando moltissimo la produzione culturale e i modelli di relazioni di genere allora predominanti. In quegli anni iniziarono ad aumentare gli studi e le ricerche, in particolare nell’ambito delle scienze sociali, sul ruolo della donna nella società, sui rapporti tra i sessi e sulla costruzione sociale della categoria di genere. È proprio nelle università, infatti, che nascono gruppi di ricerca e centri di studi specializzati negli studi sulle donne, dando vita prima ai women studies (“studi sulle donne”) e, successivamente, ai cosiddetti gender studies (“studi di genere”).

L’emersione del termine gender, utilizzato per descrivere la relazione che intercorre tra il sesso biologico e gli attributi e le credenze culturali che la società costruisce a partire dalle differenze sessuali, iniziò dopo che Gayle Rubin, antropologa femminista americana, lo utilizzò per la prima volta nel 1975 in un famosissimo saggio intitolato Il traffico delle donne: note sull’economia politica del sesso.

 >> pagina 296 

1.5 Il genere nei mass media

I mass media, ossia i mezzi di comunicazione di massa, giocano un ruolo fondamentale nel processo di socializzazione e dunque anche nella socializzazione alle identità di genere. Se pensiamo, per esempio, all’importanza che la televisione ha nella vita dei bambini, riusciremo facilmente a capire il potere che ha questo mezzo di comunicazione nel presentare modelli di maschilità e di femminilità attraverso cartoni animati, pubblicità, e altri programmi di intrattenimento. Fin da piccoli, infatti, attraverso la televisione, bambini e bambine vengono socializzati a ciò che la nostra società considera “naturale” per gli uomini e le donne. Non è casuale che i conduttori dei programmi televisivi, laddove siano donne, quasi sempre incarnino un modello di femminilità gradito agli uomini: giovani, belle, dolci, gentili e così via.

Questi modelli, che riproducono stereotipi di genere, si esprimono anche attraverso l’utilizzo di messaggi pubblicitari in cui al prodotto viene associata un’identità di genere: è difficile che in una pubblicità di macchinine compaiano delle bambine, così come non vengono rappresentati bambini intenti nel giocare con le bambole. Nei programmi televisivi e nelle pubblicità vi è dunque una costante produzione di immaginari di genere stereotipati, che influenzano quella che è la rappresentazione che i bambini e le bambine hanno di sé e del contesto in cui vivono.

La pubblicità, in particolare, è stata da sempre oggetto di studio delle scienze sociali per la sua capacità di influenzare gli immaginari non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nelle pubblicità, il corpo delle donne viene spesso trasformato in un oggetto erotizzato, ovvero sfruttato quale fonte di desiderio. Moltissimi sono gli studi che hanno indagato il ruolo della pubblicità e della televisione nel proporre immagini “erotizzate” del corpo femminile e quindi nel veicolare immagini stereotipate della donna. Pensiamo, per esempio, alla maggior parte delle pubblicità di cosmetici, di costumi da bagno o di biancheria intima, in cui l’immagine delle donne che viene proposta è caratterizzata da un corpo perfetto, bello, magro e seminudo. Ma il corpo delle donne compare anche nelle pubblicità di macchine e motociclette, in quelle delle compagnie telefoniche, dei villaggi turistici, o di diversi generi alimentari. Il corpo delle donne diventa, quindi, non solo il mezzo utilizzato per vendere un prodotto, ma anche un oggetto di attrazione e soddisfazione del desiderio maschile.

La pubblicità, infine, gioca un ruolo strategico nel veicolare modelli di relazioni familiari e rapporti di genere. A fronte di tutti i cambiamenti che stanno investendo le famiglie italiane, per esempio, nella maggior parte delle pubblicità la famiglia continua a essere rappresentata come un nucleo coeso composto da madre, padre e due figli, tutti dal colore della pelle bianco, e di classe sociale agiata. Tale rappresentazione perpetua quello che abbiamo visto essere un modello tradizionale di famiglia oggi sempre meno diffuso, rallenta la visibilità dei cambiamenti in atto e contribuisce a mantenere lo status quo nelle relazioni di genere.

 >> pagina 297 

1.6 Le politiche per la parità di genere

Le politiche per la parità di genere sono quelle misure legislative (ovvero un insieme di norme e leggi) che hanno l’obiettivo di riequilibrare situazioni di disparità e disuguaglianza tra uomini e donne, in diversi ambiti sociali. Come abbiamo già avuto modo di vedere, le disuguaglianze di genere riguardano moltissimi aspetti della vita di ogni giorno: vi sono disuguaglianze economiche, all’interno delle famiglie, nel mondo del lavoro, nell’accesso all’istruzione e nel campo della partecipazione politica. Lo scopo delle politiche di genere è quello di fare in modo che queste disuguaglianze si riducano sempre di più attraverso norme e iniziative di contrasto alla discriminazione e alla segregazione, per esempio attraverso politiche attive di inclusione delle donne in quei settori della società in cui permane ancora un forte divario di opportunità e di diritti. Le cosiddette “quote rosa”, ossia il riservare alle donne una determinata quantità di posti in parlamento, nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, nelle università o nei ruoli di comando delle pubbliche amministrazioni, sono probabilmente la misura più famosa e controversa in tale senso.

Per ragioni storiche e culturali, in Italia le politiche per la parità di genere sono state avviate con notevole ritardo rispetto ad altri paesi occidentali ed europei. Ai tempi dell’unità d’Italia la donna era a tutti gli effetti subordinata all’uomo in molti aspetti della vita di ogni giorno. Le uniche tutele riguardavano la maternità e la salute, mentre nelle altre sfere della vita sociale e pubblica le donne godevano ancora di scarsi diritti e di limitata autonomia. Per esempio, è solo nel 1945 che l’ordinamento giuridico dello Stato italiano riconosce il diritto di voto alle donne. Inoltre, è con la Costituzione italiana, nel 1948, che si pongono le fondamenta per le future politiche di parità di genere nel nostro paese: a uomini e donne è riconosciuta eguaglianza morale e giuridica dentro la famiglia e uguali diritti e trattamento economico nel lavoro.

La parità di genere dagli anni Settanta a oggi
In Italia, le principali disposizioni di legge volte a ridurre il divario tra uomini e donne e permettere alle donne di emanciparsi dentro e fuori la famiglia vengono varate negli anni Settanta del secolo scorso: nel 1970 viene introdotto il divorzio nell’ordinamento legislativo; nel 1975 viene riformato il diritto di famiglia, stabilendo la parità dei coniugi di fronte alla legge; nel 1977 il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro e nella retribuzione salariale; nel 1978 la tutela sociale della maternità e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza.

Alla fine degli anni Ottanta inizia la fase delle cosiddette politiche positive, che si pongono l’obiettivo di promuovere l’inclusione delle donne in alcuni settori della società: dal mondo del lavoro alla politica vengono emesse leggi che hanno l’obiettivo di incoraggiare la presenza delle donne nella vita pubblica del paese. Vengono istituiti organismi di controllo e di vigilanza, come ministeri e commissioni di pari opportunità, con lo scopo di rendere concreta l’applicazione delle leggi e delle disposizioni in materia di equità tra uomini e donne.

Dagli anni Novanta ai giorni nostri è l’Unione Europea a dettare la linea delle politiche di genere sul territorio europeo, cercando di rendere quanto più omogenea la produzione legislativa tra gli Stati membri. Per l’Unione Europea, infatti, il terreno della parità di genere è cruciale per la crescita economica e sociale dei suoi Stati membri e quindi dell’Europa stessa. Un esempio concreto dello sforzo che l’Unione Europea compie in direzione dell’equità di genere è l’istituzione di organismi come lo European Institute for Gender Equality, che grazie alla costruzione di un indice statistico chiamato Gender Equality Index monitora costantemente la presenza e la qualità delle politiche di genere in Europa. Organismi come questo hanno la funzione non solo di vigilare sulla situazione delle disuguaglianze di genere sul territorio comunitario, ma anche di sviluppare analisi che sappiano indirizzare i governi nazionali nell’ottica di contrastare il divario tuttora esistente tra uomini e donne.

  esperienze attive

I giocattoli “blu” e “rosa” Spesso i giocattoli ricalcano alcuni dei modelli stereotipati di genere: per esempio, le valigette di plastica con gli attrezzi da meccanico sono di colore blu, pensate quindi per i maschi, mentre in quelle con l’occorrente da parrucchiere predomina il rosa, perché rivolte alle femmine. Anche in molte pubblicità, i bambini sono associati a lavori come il pilota o l’astronauta, invece le bambine a quelli di cassiera o di casalinga.

Cercate un’immagine pubblicitaria che secondo voi rappresenta uno stereotipo di genere e commentate le vostre scelte in classe. Di quali stereotipi si tratta? In base a quali elementi lo riuscite a capire? Come potrebbero essere modificate le immagini per veicolare un messaggio diverso?

per lo studio

1. Ripensando alla tua esperienza a scuola, quali differenze di genere sapresti rintracciare?

2. In che modo all’interno della vita familiare si riproducono stereotipi di genere?

3. Fai un esempio di politiche positive di genere, spiegando quale funzione hanno.


  Per discutere INSIEME 

Con il tuo compagno di banco elencate almeno cinque mestieri che a vostro avviso sono associati storicamente alle donne e cinque mestieri associati agli uomini. Quali, secondo voi, rispecchiano degli stereotipi e perché? Discutetene poi in classe tutti insieme.

I colori della Sociologia
I colori della Sociologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane